Xenogears: la vita, l'universo, tutto quanto

Quando ho iniziato a giocare Xenogears sapevo di avere a che fare con un mostro sacro del genere: ovunque chiediate di questo videogioco, vi verrà detto che è uno dei JRPG migliori di sempre. La cosa paradossale è che queste persone hanno ragione, ma anche torto. Andiamo con ordine.

Xenogears, la creatura di Tetsuya Takahashi (papà della Xenosaga e di Xenoblade) e sua moglie Kaori Tanaka, vide luce nel 1998 su PlayStation, pubblicato da SquareSoft. Inizialmente Xenogears era un concept che sarebbe dovuto poi fiorire in Final Fantasy VII, ma per via della sua anima oscura e pessimista, non proprio adatta a un Fantasy, quel concept divenne un gioco del tutto nuovo. Dopo due anni di sviluppo, dopo che Takahashi e Tanaka avevano trascorso le giornate sulle opere di Jung, Freud e Nietzsche, Xenogears nacque imperfetto e incompleto. Le ambizioni del team di sviluppo erano enormi, ma il budget e il tempo disponibile non permisero di raggiungere i risultati sperati. Così, invece di troncare di netto l’opera, nel secondo disco il videogioco venne compattato e ridotto a un riassunto testuale delle vicende, interrotto solamente dagli scontri coi boss o da brevissimi dungeon. Per molto tempo i fan si sono scagliati contro SquareSoft, colpevolizzando il publisher di non aver finanziato a dovere il progetto concentrandosi su Final Fantasy VIII. Sarà Takahashi stesso, qualche anno più tardi, a fare chiarezza: avevano puntato troppo in alto per essere un team con così poca esperienza, e solo durante lo sviluppo si resero conto di non essere in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati. Il gioco uscì inizialmente in Giappone e arrivò in Occidente (in Nord America) solo qualche mese dopo. Il perché? Polemiche sui temi blasfemi del gioco, un team di traduzione che se ne lava le mani perché il gioco è troppo difficile da adattare e un altro team è costretto a lavorare a stretto contatto con SquareSoft per finire il lavoro.

Xenogears
Fei Fong Wong, protagonista del gioco.

Fatto questo breve excursus storico veniamo a noi, o meglio alla mia esperienza con Xenogears. Una volta avviata la partita verremo calati nei panni di Fei, un ragazzo che abita un villaggio e che apparentemente si diletta a dipingere. Fei ha un passato oscuro, è privo di memoria; poi il villaggio viene attaccato e finalmente inizia la vicenda che ci porterà a scoprire le cause dietro quanto è successo. Se questo potrebbe essere un incipit per il classico viaggio di formazione, Xenogears sin da subito mette le cose in chiaro e fa capire al giocatore che quello che vedrà per le successive 70 ore non è qualcosa di ordinario. E posso confermare che la parte narrativa di Xenogears è davvero qualcosa fuori dall’ordinario. Mettendo da parte inutili sinossi, quello che mi ha lasciato di stucco più volte è la potenza emanata dalle singole parole. In genere si tende a dare un significato organico ai giudizi sulla narrazione di un’opera: “questo gioco ha un’ottima storia”, “i dialoghi sono scritti benissimo”. In Xenogears, per la prima volta, ho provato qualcosa per un singola parola: c’è stata quella che mi ha fatto lacrimare così come quella che mi ha fatto rabbrividire dal terrore.

Una parola. Tanto è bastato a Xenogears per entrarmi nel cuore.

Per capire carpire in un attimo il fine ultimo della storia di Xenogears, basta osservare il dipinto di Paul Gauguin “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”. Sono queste tre domande che muovono i personaggi — amici e antagonisti — all’interno di una storia complessa e stratificata che tocca i temi (e i tempi) più disparati dell’esistenza dell’uomo. L’immaginario poggia su un miscuglio tra fantastico e fantascientifico, e il simbolismo religioso di cui è pregno dà vita a immagini forti. La colonna sonora è mimetica: sonorità folk, canti gregoriani, musica ambient e quant’altro, accompagnano le parole e le immagini, riuscendo sempre a catturare ed enfatizzare l’atmosfera di un momento.

Xenogears
“Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” di Paul Gauguin, tre domande molto ricorrenti nel gioco.

Quindi sì, come dicevo in apertura la fama che Xenogears ha come capolavoro è ben meritata. Ma solo se non si tiene conto che Xenogears è un videogioco. L’intero impianto ludico dell’opera si basa sulla classica struttura dei JRPG dell’epoca. Volendo farla breve: combattimenti a turni, incontri casuali, città da esplorare e world map. Il problema è che Xenogears non valorizza, per mancanze tecniche e di design, nessuna delle sue componenti ludiche, che finiscono per allontanarsi dal senso dell’opera e risultano piazzate lì perché devono esserci (in quanto gioco) e non perché è giusto che ci siano (in quanto videogioco). Un problema molto simile a quello affrontato dal nostro Lorenzo “GOV” Sabatino nel suo articolo su Alan Wake.

Perché deve esserci un open world se il senso dell’opera non è l’avventura e se ludicamente non è presente un incentivo a esplorare (storie secondarie, dungeon o città opzionali)? Perché ho delle magie se posso finire il gioco senza usarle o ci sono debolezze e resistenze elementali che posso ignorare? Perché devo farmare per apprendere manualmente una moltitudine di mosse di combattimento se poi utilizzerò sempre e solo l’ultima, la più forte? Sono alcune delle domande che mi sono posto mentre giocavo Xenogears. Se avete delle idiosincrasie verso il genere e in particolare la sua lentezza, sappiate che Xenogears eleva ciò all’ennesima potenza. Le fasi platform nei dungeon — la tredicesima delle fatiche di Eracle — sono frustranti, ripetitive, inutili. I combattimenti sono tediosi: non c’è quella curiosità “videogiocosa” di provare build o abbinamenti di personaggi. L’unica cosa che si vuole è che finiscano presto. I boss il più delle volte sono indecifrabili e portano a ripetere gli scontri, perché in Xenogears o domini il boss o lui ti domina, non c’è via di mezzo.

L’essere un videogioco. Tanto è bastato a Xenogears per spezzarmi il cuore.

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  • Luigi "abyssent" Peccerillo

    Nato nell'agglomerato urbano di Neo-Caserta, passa il suo tempo in un tumulo digitale tra videogiochi, film vecchi e dischi tristi.

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