Questo articolo contiene spoiler su Sayonara Wild Hearts e Citizen Sleeper. Parla, inoltre, di argomenti come depressione e pensieri suicidi. Il pezzo è stato pensato originariamente in inglese, rendendo certe parti difficili da tradurre, quindi se avete una buona comprensione della lingua potete leggere l’originale qui.
Not long ago, in a town much like yours,
there was a young woman who was very happy,
until one day her heart broke so violently
that her sorrow echoed through space and time.
Questo non è il tipo di articolo che scrivo normalmente.
Normalmente scrivo analisi critica, che è un modo raffinato e pretenzioso per dire che cerco di spiegare che “gun shoot good” con vari paroloni per giustificare perché mi piace (o meno) un videogioco. Sono… decente a farlo, diciamo, ma la mia analisi si limita quasi sempre puramente al gameplay. Meccaniche, level design, ritmo, bla bla bla — questo è quello che tendo ad approfondire nel tentativo di fare un argomento semi-convincente a (s)favore del gioco. Come già detto non sono completamente incapace a farlo, ma non è niente di interessante per chi cerca di approfondire il campo dell’analisi critica, quindi finisco principalmente per scrivere pezzi su giochi che mi sono piaciuti molto e niente di più. Il motivo è molto semplice: non sono quel tipo di persona. In linea di massima non ho molto di interessante da dire. Non mi considero necessariamente un idiota (anche se un tempo lo facevo), ma non sono neanche lontanamente abbastanza intelligente dal mettere insieme, boh, un’analisi dei temi politici di BioShock Infinite. Gioco ai videogiochi, e quest’è.
Ma anche se non mi ritengo il più sveglio, sono una persona molto emotiva, e gli articoli sulle emozioni sono difficili da scrivere. Bisogna aprire il cuore al lettore, ed è difficile farlo perché è facile scrivere qualcosa che finisce per essere imbarazzante o, come dicono i giovani al giorno d’oggi, “cringe”. Combinato con quanto detto sopra, questo è un articolo che ho rimandato per più di un anno, essendo molto personale e probabilmente non molto interessante. Sfortunatamente, come già sa la maggior parte della gente che leggerà il pezzo, la mia situazione mentale in caduta libera sta forzando la mano ed è qualcosa che mi sono tenuto dentro per parecchio tempo, quindi senza perdere altro tempo vi presento la prima delle due storie di stasera. La storia di un cuore selvaggio che ha imparato a provarci di nuovo.

Come, presumo, la stragrande maggioranza di chi si è interessato al gioco, ho conosciuto Sayonara Wild Hearts ascoltando canzoni suggerite a caso da YouTube. Nel caso non lo conosceste, non preoccupatevi perché non è particolarmente complicato. SWH è uno stilosissimo rythm game dove si guidano motociclette al ritmo di canzoni pop e vagamente synthwave, riempendo di botte gente dallo stile eccentrico nel frattempo.
Questo è quanto dicono gli screenshot sulla pagina di Steam, almeno, perché la storia è un po’ più complicata di così. La nostra protagonista senza nome è una giovane donna presentata come una persona il cui cuore è stato spezzato. In seguito viene trasportata in un mondo fantastico e folle dove affronta i suoi cuori infranti personificati e, beh, li gonfia di mazzate—quello è corretto.
Come rythm game, ho sentimenti contrastanti su SWH. È stilosissimo, questo è poco ma sicuro. È anche praticamente incomprensibile a tratti. La chiarezza visiva è il prezzo da pagare per gli angoli cinematografici della telecamera, risultando in game over irritanti, e anche al di fuori di quelli i cuori necessari per accumulare punti sono spesso difficili da vedere, richiedendo più passaggi sullo stesso livello per ottenere punteggi decenti. A essere sincerni non l’ho trovato molto divertente, ma non sono un esperto di rythm games, quindi su questo lascio la parola a chi è più esperto del genere. Questo, ovviamente, non è il motivo per cui volevo parlare del gioco.
Il motivo è il primo livello con un brano vocale, Begin Again. Mentre la nostra eroina affronta il suo primo cuore infranto in una gara attraverso una città che si sta spaccando a metà, il primo (secondo, contando il menu) testo del gioco accompagna la corsa, con una canzone agrodolce che descrive la fine di un amore e il cercare di ricominciare.
I can still recall
Trudging through the cold December snow
We didn’t know
That it was the end
That the saddest story ever told
Would unfold…
Mentre il livello raggiunge il climax saltando dritto in un inseguimento attraverso le strade devastate e infuocate della città, il testo finalmente trova la sua strada e il ritornello cambia leggermente, trovando la determinazione per andare avanti:
‘Cause it’s time to forget
All the pain and regret
It’s the last time…
It’s the last time tonight
As you hold me so close
In your arms I just know
It’s the last time…
And I’m strangely alright.
Queste ultime parole hanno dovuto aspettare diversi minuti prima di passare per le mie cuffie, visto che a metà del finale ho dovuto mettere in pausa il gioco e poggiare il controller, piangendo e singhiozzando ininterrottamente per diversi minuti.
In quel momento non riuscivo a capire perché quella parte mi aveva preso così male. Come già detto sono una persona molto emotiva, e non è certo la prima volta che piango per un videogioco. Piangere così tanto da non riuscire a giocare, d’altro canto, non mi era mai successo, figuriamoci per qualcosa che non riuscivo a capire. Ho chiuso il gioco decidendo di tornarci il giorno dopo, curioso di vedere cosa c’era più avanti.

Il resto della (molto breve, circa un’ora) esperienza è aperta a diverse interpretazioni, con la nostra eroina che affronta diversi tipi di cuori infranti. Una migliore conoscenza dei tarocchi probabilmente renderebbe la comprensione più facile, visto che ogni boss è legato a una carta. La musica, d’altro canto, è più facile da comprendere, specialmente una volta raggiunto “The World We Knew”, una canzone che colpisce vicino al cuore per me con la cantante che si rifiuta di andare avanti con la sua vita, cercando di aggrapparsi a quello che c’era una volta.
They say begin again
They say begin again
But I’ll take any fragments I can find…
(Fragments I can find…)
They say begin again
They say begin again
But I’ll treasure any fragments left behind.
Questo, almeno, finché non raggiungiamo il climax del gioco e affrontiamo il boss finale, Il Matto. Nonostante la mia limitata conoscenza dei tarocchi, so bene che Il Matto tende a raffigurare il protagonista, cosa di cui il gioco non fa alcun mistero mostrando il boss come un alter ego della nostra eroina. E qui arriva la sorpresa: invece di prenderla a calci nel sedere come abbiamo fatto con i boss precedenti, la nostra protagonista si avvicina e le dà un bacio sulla guancia. E, finalmente, Sayonara Wild Hearts ha senso.
Ci sono molte interpretazioni della trama di SWH — la più popolare, a quanto ne so, è quella di una ragazza trans che attraversa il difficile momento della transizione e le difficoltà del venire a patti con se stessa. Che sia corretta o no come interpretazione (e io credo lo sia), c’è una tematica più grande sull’imparare ad amarsi di nuovo a cui molta gente può collegarsi, con la canzone finale, Wild Hearts Never Die, che esplode in un ritornello che urla l’inno di tutte le anime che sono state ferite e si sono rialzate.
This is not how it ends, this is not goodbye
‘Cause wild hearts never die
Wild hearts never die!
We’re just changing our shape like butterflies
‘Cause wild hearts never die
Wild hearts never die!
E qui è dove il gioco si collega a me. Il punto dove quella prima sessione finita in lacrime comincia ad avere senso per la parte più logica del mio cervello. Sono, infatti, uno di questi “cuori selvaggi”, come chi mi conosce sa bene. Per chi non sa i dettagli, ecco una rapida spiegazione: ho avuto problemi di depressione per più o meno l’ultimo decennio, da quando mia madre è morta in maniera abbastanza traumatica. Ho sempre avuto un’immagine abbastanza brutta di me stesso: stupido, brutto, inutile, non meritevole di essere amato. Questo è peggiorato con la morte di mia madre, che era la mia principale fonte di affetto. Andando avanti ho cercato di riempire il vuoto in vari modi. Ho perso peso perché tutti mi dicevano di farlo, e alla fine erano tutti felici tranne me. Ho visitato più terapisti, ricevendo suggerimenti che mi facevano sentire solo più incompreso. Ho viaggiato con amici solo per fermarmi e chiedermi “che accidenti sto facendo qui?”. Sono stato raccomandato per tre lavori diversi e nessuno di loro mi ha assunto. Ho cercato di diventare un giocatore di picchiaduro (la mia più grande passione) competitivo, con risultati che molti considererebbero notevoli, ma sempre troppo poco per i miei assurdi desideri.
La verità è che mi odiavo. Mi odiavo per non essere qualcosa di più. Per non essere speciale, per essere fastidioso per la gente attorno a me, per essere me stesso. Ed è per questo che la storia di Sayonara Wild Hearts mi ha colpito così tanto, ricordandomi che è ok amarmi anche solo per essere me stesso.
Ma non ero ancora pronto ad accettare quel messaggio.

Nonostante una parte di me volesse palesemente credere al messaggio di self-love del gioco, tutti questi anni di tentativi falliti di “migliorare” mi avevano lasciato con sentimenti aspri verso me stesso. Non avevo più quell’affetto in me. Solo rimpianti, odio e frustrazioni. E quei sentimenti cominciarono a fuoriuscire, trasformandomi in quello che si può definire solamente come un tossico pezzo di merda. Ho insultato gente che non se lo meritava semplicemente per essere meglio di me ai picchiaduro, legando il mio ego al genere a cui ho dato tutta la mia passione senza ottenere i risultati che volevo. Perché se sono inutile nell’unica cosa in cui ho messo tutto me stesso, che motivo ho di esistere?
Col tempo i pensieri depressivi si sono trasformati in pensieri suicidi. Ogni giorno mi svegliavo solo per pentirmene, attraversando la strada sperando di essere investito da un camion perché non avevo il coraggio di farla finita da solo. E mentre perdevo speranza per me stesso ho deciso che la gente attorno a me non doveva sopportare le mie stronzate. Ho bruciato ponti, tagliando sempre più connessioni a ogni fallimento a tenere il mio ego ferito sotto controllo finendo per far male ad altre persone—anche se mi dicevano che era ok. E presto ho finito col rimanere da solo, ma “Va bene così”, mi dicevo da solo, “Prima o poi non riuscirò più a sopportare la situazione e la farò finita”. Inutile dire che, visto che sto scrivendo questo pezzo, non è successo. Ho semplicemente continuato a vivere con un dolore sempre più grande, senza una strada o un significato con cui andare avanti.
E qui è dove arriva la seconda storia di stasera. La storia di un cuore selvaggio che si ricorda cosa si prova a vivere.

Citizen Sleeper mi è stato raccomandato dai ragazzi di Frequenza Critica come uno dei migliori giochi del 2022, e ho deciso di giocarlo perché era sul Game Pass e avevo tempo da perdere. Ho finito per giocarci tutta la notte, guardando i crediti con il sole che stava sorgendo all’esterno.
All’inizio, Citizen Sleeper si può descrivere come un “thriller time-management game”. Si gioca nel ruolo di uno Sleeper, una mente umana in un corpo robotico forzata a lavorare per una corporazione. Il nostro Sleeper decide di fuggire, finendo su una stazione spaziale chiamata l’Eye. Salta fuori che le corporazioni pro-schiavismo non apprezzano molto i fuggitivi, e ci sono molteplici problemi che il nostro eroe dovrà affrontare nella sua lotta per la sopravvivenza, tra il dover risolvere il decadimento del suo corpo artificiale e i cacciatori di taglie che stanno arrivando a prenderlo—insomma, avete visto Blade Runner, sapete cosa aspettarvi.
A livello di gameplay il gioco è diviso in giorni, con un certo numero di dadi assegnato all’inizio di ognuno di questi. I dadi in questione possono essere usati per fare varie azioni, limitando le azioni giornaliere alla quantità di dadi (la qualità dei quali determina il risultato dell’azione—più alto il dado, migliore il risultato). Questo è problematico, visto che abbiamo diverse questioni da risolvere: dobbiamo rimuovere il tracker che la corporazione sta usando per tracciarci, dobbiamo trovare un modo per frenare il decadimento del nostro corpo, e la gente che vuole aiutarci ha bisogno di aiuto a sua volta. Il risultato è un thriller ricco di emozioni dove l’orologio avanza inesorabile e ogni secondo conta.
O, almeno, così sembra.
La verità è che Citizen Sleeper è un gioco intelligente. Tutta la questione thriller simil-Blade Runner? È un trucco. Una facciata. Arrivati a metà gioco, tutti i punti principali della storia vengono risolti. Ci si libera del tracker e dei cacciatori di taglie, si risolvono le storie principali, lo Sleeper trova una casa confortevole e abbastanza materiali per sostenersi per il futuro prossimo. Quindi cosa rimane?
Beh, vivere la sua nuova vita, ovviamente.
Citizen Sleeper non è un gioco sul sopravvivere, ma sull’imparare a vivere di nuovo. Si vengono a conoscere le persone sull’Eye, vedendo storie di ogni tipo, da ospiti divertenti durante un turno serale al bar alla tragica conclusione della caccia di una mercenaria che probabilmente sperava in un finale diverso alla sua storia. L’Eye diventa la nuova casa del giocatore, e incontrerà tanti tipi diversi di persone che rendono il mondo vivo e bellissimo.

Il gioco offre andando avanti diversi finali, la maggior parte dei quali riguardano lasciare l’Eye. L’ultimo finale che ho affrontato riguardava lasciare l’Eye con Lem e Mina, un padre single e la sua giovane figlia, al lavoro nel cantiere per una chance di lasciare l’Eye con la nave coloniale che stanno aiutando a costruire. Dopo molta fatica per dare una possibilità a tutti di salire a bordo, stiamo finalmente per salire sulla nave e abbandonare l’Eye. Ma qualcosa non mi convince. Resto a guardare alla scelta per diversi minuti finché, alla fine, decido di tornare indietro, sorprendendo Lem. Dopo aver guardato la nave partire, un altro personaggio mi chiede perché ho deciso di tornare indietro. “Questa è la mia casa”, rispondo. Cosa che avevo già inconsciamente deciso in un altro finale.
Durante le ultime fasi del gioco si può lavorare al giardino botanico, dove si trova un’IA che si è evoluta oltre il suo scopo originale, ora occupata a proteggere e sostenere il Greenway. Quando gli parliamo ci offre una scelta: abbandonare il nostro corpo e unirsi a lei nel Data Cloud, insieme a tutte le altre entità che fanno parte del Greenway digitale. Un mondo libero dal dolore di essere umano, ma anche della sua bellezza. Ed è per questo che ho rifiutato.
You don’t look back at Gardener. You don’t dare risk it. Instead you follow the thread, delicately, carefully, like a diver following their lifeline back to the surface.
The river whirls around you, but it doesn’t pull, it isn’t jealous. Neither does it understand. It is, after all, just a river. It isn’t a person, a flesh and blood person, with wants, with desires, with the capacity for love and hate.
It doesn’t understand you, and you don’t understand it.
So you don’t focus on it, you don’t think about it, on what feels like such a long journey back through the dark. You set your mind on eyes instead. On hands. Things you can focus on, hold onto.
And then, after an age of crossing, you are there, settling back into the chair, into a body in a chair, and the overwhelming sensations that come with being a living thing with a rich and detailed sensorium.
For a moment you feel like you have made a terrible mistake. Who would choose this weight? This anxiety? This deep well at the center of existence.
But then you feel it. Riko’s hand, gripped hard around yours, trembling a little, sweating a little. Riko’s hand with its brittle bones and crumpled skin. Riko’s hand.
And in that moment you understand why you made this choice. And then you squeeze Riko’s hand, and you wake up.
Citizen Sleeper è il gioco che ha messo a tacere i miei pensieri suicidi. Perché sì, la vita fa schifo, ma è anche bellissima. E quello che la rende bellissima non è solo noi, l’ego. Le connessioni che facciamo creano il nostro piccolo mondo. E sarà pure piccolo, irrilevante nel grande schema dell’universo, ma è nostro, bellissimo in tutte le sue imperfezioni, e vale la pena proteggerlo perché così come lo amiamo, anche esso ci ama a sua volta.

Questo è stato il mio problema per la maggior parte dell’ultimo decennio. Per via dell’odio che provavo verso me stesso, continuavo a isolarmi sempre di più perché non mi sentivo di avere alcun valore. Mi sentivo come un fastidio nel migliore dei casi e come una persona orribile che peggiorava le vite altrui nei peggiori. Ho bruciato ponti, mi sono arrabbiato, la gente si è stancata di me e mi ha tagliato fuori, mi sono arrabbiato di più, la rabbia si è trasformata in tristezza, la tristezza si è trasformata nel desiderio di morire. Ma la gente vicina a me continuava a cercare di dirmi che era tutto nella mia testa—questa paranoia che stava rovinando la mia vita era causata da eventi specifici su cui la mia mente si stava concentrando, ignorando il quadro generale. E così, in una chiacchierata con la persona che un tempo avrei definito la mia migliore amica, mi sono messo a piangere per la prima volta da quando ho giocato SWH. E ho deciso per la prima volta negli ultimi cinque anni che volevo provare a migliorare. Ero stanco di essere depresso. Ero stanco di stare male. Volevo sentirmi amato e apprezzato. Volevo finalmente accettare il mio piccolo mondo, invece di vivere nella paura che si sarebbe autodistrutto nel momento in cui l’avrei fatto.
E, per un attimo, ho sentito un cambiamento. Non posso descrivere a parole quanto è incredibile questa cosa—ho sentito un cambiamento per la prima volta in un decennio. Più di quanto qualunque terapista sia riuscito a fare, più di qualunque “vai in palestra” abbia mai fatto per me. Ho ricostruito i ponti bruciati, la gente mi diceva che avevo un’aura diversa, e stavo sorridendo. Un sorriso genuino. Una risata genuina. Per un breve, bellissimo momento, mi sono davvero sentito meglio. E i risultati sono ancora visibili: non mi odio più, il mio approccio ai picchiaduro è molto più salutare e, in certi sensi, il mio approccio alla vita in generale è molto meglio di prima.
Ma nello sfidare la mia paranoia, cose che davo per scontato si sono trasformate in paure paralizzanti. E se sono troppo? E se segretamente non mi sopportano più? Domande simili mi hanno mandato in veri e propri attacchi di panico dove facevo fatica a respirare. Uno dei miei due migliori amici (chiamiamolo Jack) insisteva che avevo bisogno di terapia, e io insistevo che non avevo bisogno di terapia, avevo bisogno dei miei amici perché questo era il momento in cui mi serviva davvero il loro aiuto. Avevo ragione? Continuo a pensare di sì, ma non è mio diritto decidere cosa vogliono fare gli altri, ovviamente. E alla fine il mio piccolo mondo è crollato. Jack mi ha bloccato, mentre l’altra amica citata prima (chiamiamola Tina) ha raggiunto il punto dove non riusciva più a sostenere il peso di tutte le mie emozioni, e ora la nostra amicizia è un triste e vuoto spettro di quello che era una volta. Tutte le mie paure si sono trasformate in realtà, e ora sono più solo che mai.
Quando ho iniziato a scrivere questo articolo doveva essere motivante. Per più di un anno ho cercato di rendere “Wild Hearts Never Die” il mio motto. Volevo credere nel mio valore, e in quello che la gente diceva io fossi. Ma la gente in questione mi ha lasciato indietro quando è arrivato il momento di dimostrarlo, e ora mi sento vuoto e inutile. La persona più intelligente che conosco mi ha detto, all’inizio di tutto questo, “una volta che fai uscire le emozioni non puoi reprimerle di nuovo”. Aveva ragione, ovviamente, ma pensavo fosse questo o nulla. Penso che avevo ragione, ma in ogni caso non ha funzionato, e ora sono qui. Qui a scrivere questo triste, inutile articolo che doveva essere motivante, per me e per gli altri cuori selvaggi infranti che cercavano di guarire. Ma a questo punto non penso che c’è un posto per me in questo mondo.
Non sono speciale. La gente continua a ribadirmelo. Il mio terapista (sì, ho iniziato una nuova terapia, e no, non sta funzionando, nonostante la quantità di pillole che prendo ogni giorno) mi ha detto “Molta gente si sente così”. Ho passato gli ultimi dieci anni a cercare di provare che sono speciale in qualche modo, e pensavo davvero che “essere speciale nel mio piccolo mondo” era la soluzione che stavo ignorando per tutto questo tempo. E forse lo era, ma quel piccolo mondo mi ha respinto e ora sono al punto di partenza. Quest’anno ho giocato a Ghost of Tsushima, e mentre ho apprezzato il gioco (più di quanto mi aspettassi in realtà) è stata anche la prima volta che ho giocato a qualcosa per escapismo. Giocando per ore, andando in giro a fare ogni sidequest, perché è più facile essere Jin Sakai che essere me. E anche solo scrivere questo mi fa sentire triste.
Non c’è una morale a questo articolo. È uno sfogo. Doveva essere qualcosa di più. Qualcosa con un significato. Ma come tutto il resto della mia vita si è rivelato essere una delusione—o, piuttosto, l’appropriata conclusione di una decade di delusioni. Non voglio vivere. Non perché voglio morire, ma perché non c’è niente nella mia vita che mi fa venire voglia di essere vivo. Questo aprile stavo sul balcone, piangendo a dirotto e pronto a farla finita, a e non c’era nessuno. Jack non c’era. Tina non c’era. L’unico motivo per cui non sono saltato è l’aver chiamato disperatamente un altro amico (l’unico che non mi ha mai abbandonato). Rimpiango non averlo fatto tutt’oggi. Non ho una soluzione e sono troppo codardo per farla finita, quindi semplicemente… vado avanti. Sperando che un giorno il mio cuore selvaggio troverà qualcuno capace di rimetterlo insieme. Fino a quel momento continuerò ad andare a letto presto, incapace di pensare coerentemente, con le parole di Aki che rimbombano nella mia testa mentre non riesco a lasciare andare quelle poche, bellissime memorie dei pochi momenti di felicità che ho provato all’inizio di quest’anno, probabilmente gli ultimi che proverò per molto tempo.
“Hold onto your memories, but not too tightly.
Sadness will not sustain you.”

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