Sto giocando a DOOM (2016). Mi ritrovo immerso nelle viscere dell’inferno, in uno sfondo rosso e decadente in cui corro freneticamente facendo a pezzi con violenza un demone dopo l’altro. Carico un colpo triplo dello shotgun, colpisco un Imp e lo vedo smontarsi sotto i miei occhi, con gli effetti del sangue che vengono prontamente ignorati dal mio cervello. Procedo verso il prossimo obiettivo, preparando il lanciarazzi e sparando un colpo ben piazzato sul pavimento in mezzo a tre Posseduti, i cui arti vengono lanciati in giro dalla forza dell’esplosione, mentre gli schizzi vanno a comporre un simpatico quadretto di Pollock. Ma non c’è tempo per fermarsi ad ammirare l’opera, un Pinky alle mie spalle non aspetta e mi sta già caricando: mi giro, schivo il colpo e tiro fuori il mio fidato fucile da caccia, stordendolo mentre l’effetto grafico luccicante mi avvisa che è possibile infliggergli il colpo di grazia. Non esito e premo l’analogico destro, ammirando un’animazione in cui gli stacco la coda a mani nude e la uso per picchiarlo in faccia. Completo l’opera tirando fuori la motosega per eliminare velocemente un Mancubus, infilandogliela nello stomaco. Alla fine del duro scontro, dopo altre peripezie, procedo senza esitazione verso il prossimo checkpoint in cerca di altri bersagli da eliminare.

Questo scenario, assai comune nei videogiochi con una forte componente d’azione, viene normalmente visto come iperviolento, e come tristemente ben sappiamo è sempre sotto i riflettori dei cosiddetti “moral guardian”: schiere di genitori e opinionisti della domenica che si preoccupano degli effetti psicologici che potrebbero scaturire da un accesso così costante ed esagerato a opere definite violente, dove si gioca col concetto stesso di infliggere dolore e morte ad altre forme di (non) vita, seppur virtuali. Ma io non vedo violenza in tutto questo. O meglio, la violenza è ovviamente presente, ma la rappresentazione descritta dagli sviluppatori è inserita in un preciso contesto tecnico e artistico, che stabilisce in che modo il giocatore si ritrova con una tonnellata di sangue e cadaveri ai suoi piedi o di come assiste a uno scenario particolarmente drammatico a fini narrativi ed emozionali. Effettivamente, il focus del mio cervello in azione è il giocare in maniera efficiente. Quel Pinky stordito non è un nemico da abbattere a sangue freddo: è una fonte di preziosi punti vita che permette al mio personaggio di proseguire nell’avventura. La motosega non è un mezzo fine a sé stesso per vedere l’animazione di uno zombie che viene diviso a metà: è un modo più rapido per arrivare al prossimo checkpoint recuperando contemporaneamente munizioni.
Dopo anni di cultura videoludica, è inevitabile iniziare a vedere i nemici come opportunità e i livelli come sfide da superare, diminuendo l’impatto emozionale che può derivare da un’interpretazione prettamente personale nel contesto della sequenza in cui si ritrova in quel momento. Vedasi per esempio la tanto criticata e famosa scena di Modern Warfare 2, dove il giocatore si ritrova infiltrato in un gruppo terroristico intento a massacrare civili all’interno di un aeroporto. Una scena che ai tempi fece molto scalpore e portò a diverse polemiche, mentre dal canto mio vedevo questi modelli poligonali intenti a seguire una via predeterminata dagli sviluppatori all’interno di un livello che esteticamente voleva rappresentare quello che è un luogo ordinario nella nostra società. Lo spettacolo di fronte agli occhi del giocatore è certamente pesante da assistere, specialmente per chi ha un briciolo di sensibilità in più di me, ma parlando personalmente la mia preoccupazione era abbattere più civili indifesi possibile solo per il gusto di farlo, conscio del fatto che tutto quello che si parava di fronte ai miei occhi era pura e semplice finzione e che non ci sarebbero state conseguenze nel premere il grilletto. L’evento non è mai accaduto, quelli non sono civili, sono solo byte di informazioni digitalizzate provenienti da un calcolatore elettronico e io ne faccio parte in qualità di fruitore dell’opera, piuttosto che da protagonista.

La spersonalizzazione è un effetto inevitabile quando ci si ritrova immersi in un settore da anni, il classico “averle viste tutte”: tale distaccamento nei confronti degli eventi a cui virtualmente assistiamo mi piace imputarlo all’esperienza maturata nel corso di ormai un quarto di secolo, e giocare per 25 anni ai più disparati videogiochi inevitabilmente mette nella posizione di vedere la struttura stessa sul quale si poggiano tutti gli elementi videoludici. In tal senso, è un po’ come vedere “il codice”, se per codice intendiamo i muri portanti di quelli che sono narrazione, gameplay, grafica e tutto il resto del cucuzzaro che va a costituire un videogioco nel suo insieme. Insomma, quando si va costantemente ad alzare l’asticella delle cose più stravaganti, violente e originali a cui si può assistere nel corso degli anni, viene inevitabile cercare sempre di più qualcosa che lasci a bocca aperta, che sia così oltraggioso da sorpassare le classiche convenzioni a cui siamo abituati. Nel mio caso avendo un certo gusto per l’ultraviolenza e il cosiddetto gore “over the top” anche roba tipo Manhunt e GTA V smette a un certo punto di essere rivoltante e inizia ad acquisire un tono comico, come in quella scena agli albori della carriera di Johnny Depp in A Nightmare in Elm Street in cui viene risucchiato nel letto e risputato fuori in una fontana di sangue. Diamine, guardate la scena e ditemi se non vi viene da ridere di fronte a cotanta esagerazione.

Ora, vorrei tornare al punto centrale dell’articolo e riflettere invece sulla violenza, quella reale e non quella effimera rappresentata dai media. Nella vita mi sono ritrovato in alcune occasioni in prima persona ad assistere e vivere conflitti reali e l’idea che ci si fa guardando film e videogiochi è (ovviamente, ma non per alcuni a quanto pare) completamente diversa a quello che effettivamente può succedere. Non c’è nessuna drammaticità in uno scontro fisico, non ci sono movenze elaborate, non ci sono pause per riflettere o analizzare la situazione, non c’è niente di “visivamente bello”, la paura è reale e la preoccupazione non concerne il ricaricare un checkpoint, ma scappare per uscirne fuori il prima possibile, non si ragiona a mente lucida e si dà adito agli istinti. Una scazzottata non è una sequenza di eleganti pugni mirati, ma una raffica di manate lanciate a caso in direzione generica dell’ostile e il dolore ti riporta immediatamente coi piedi per terra. E se vai giù, non c’è nessuna cavalleria o second wind pronti a salvarti la pelle. Sembreranno constatazioni banali per chi ha un minimo di cervello, ma sono tristemente frequenti gli eroi di Facebook pronti a commentare che, in molti fatti di cronaca odierni, loro “avrebbero agito così”. Siamo tutti preparati e fighi nella nostra mente, ma quando ci si ritrova effettivamente in uno scenario di quel tipo la reazione della maggior parte di noi sarà totalmente imprevedibile e abbandonata all’istinto. C’è un motivo d’altronde se le forze militari vengono specificatamente addestrate per anni a sopprimere gli istinti che impongono di svuotare l’intestino e accovacciarsi a terra per rispondere in maniera lucida ed efficace in quelle situazioni.
In altre parole, preferisco continuare a relegare le mie manifestazioni di ultraviolenza all’interno di spazi virtuali, dove sono perfettamente conscio del fatto che tutto quello che vedo è frutto di finzione e creatività. Quantomeno per il semplice fatto che la violenza, il sangue e la morte a cui assistiamo virtualmente sono completamente irrealistici, non importa quanto accuratamente possano ricreare le budella di un mostro in 4K.
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