Si possono fare videogiochi mainstream fortemente divisivi?

Lo ammetto, sono uno di quelli che sta tenendo il countdown da mesi, in vista della prossima uscita di Death Stranding, proprio come Damaso. E sì, mi confesso: ritengo Hideo Kojima, nato a Setagaya, Tokyo, classe ‘63, uno dei più grandi autori di questa forma espressiva chiamata videogame. Ma non leggerete, in queste poche (veramente poche rispetto a quelle che si potrebbero usare) righe, magnificanti peana sulla vita e le opere del tizio in copertina, né uno dei classici “cosa ci dobbiamo aspettare” relativo a Death Stranding. Quindi, oh voi che ritenete Sons of Liberty un brutto videogioco, rimanete pure: questo articolo riguarda anche voi.

Piuttosto, queste settimane che precedono l’8 novembre, mi hanno ulteriormente palesato quanto sia il personaggio pubblico che (e soprattutto, per ciò che qui interessa) l’opera kojimiana siano polarizzanti. Chiariamoci subito, il designer giapponese è ben lungi dall’essere un autore di nicchia (le opere che compongono la Metal Gear Saga hanno complessivamente venduto oltre 50 milioni di copie) e la sua fama lo rende uno (l’unico?) autore videoludico con una risonanza al di fuori degli angusti confini nerdistici del videogioco (Mikkelsen: “He is the godfather of creating new things”). Insomma, non parliamo di un autore indie né i videogiochi da lui creati hanno una diffusione e un budget paragonabile a quelle di un videogioco indipendente. Anzi, il fandom della MGS saga e, in generale, dell’ars creandi di Kojima è fra i più vasti e pervicaci esistenti.

Allo stesso tempo la fattura mainstream del lavoro kojimiano si ritrova anche nella natura stessa (apparente?) delle sue opere. Come si vedrà, i Metal Gear Solid si caratterizzano per una modalità comunicativa fortemente diretta, sia mediante veri e propri filmati — che sono il veicolo principale ed eletto di “diffusione del messaggio” — sia attraverso un tipo di sistema di gioco che accoglie il giocatore entro degli schemi “familiari”, fortemente votati alla giocosità piuttosto che al realismo simulativo. Di modo che, pur mantenendo una personalità traboccante (che sfocia spesso e volentieri in un uso ardito e pionieristico del mezzo videoludico), il gioco di Kojima rimane un prodotto intrinsecamente “aperto alle masse”.

Dunque, abbiamo un autore molto famoso e un tipo di opera che si presta a una fruizione generalista, pur mantenendo delle specificità che ne mantengono lo status di videogioco d’essai. Sembrerebbe la fusione perfetta fra autorialità e blockbuster: tutti contenti, allora, no?

No. Perché?

La cafonata à la Kojima

Facciamo un rapidissimo sunto della materia del narrare della Metal Gear Saga: un agente speciale deve infiltrarsi fra file nemiche composte di uomini con superpoteri per sventare la minaccia terroristica di mecha zoomorfi che fanno versi animaleschi. No, non è la sinossi di un Honest Game Trailer di un Metal Gear Solid a caso; è, in soldoni, la trama di uno qualsiasi di essi.

Jena Pliskin.
Lo Jena Pliskin di 1997: Fuga da New York è solo uno delle miriadi di riferimenti alla cultura pop mutuati da Kojima.

Ci troviamo di fronte a intrecci che pescano a piene mani dal cinema di spionaggio, d’azione, di avventura, dall’animazione shounen passando per i classici del genere super e real mecha; le ispirazioni sono plurime, e tutte legate a un tipo di narrativa strettamente codificata a certi tropi e fondamentalmente “pop”. Siamo ben lontani dalle narrazione poetica e silenziosa di un’opera di Fumito Ueda o dalla lacunosità frammentata di un Bloodborne; così come rimangono alieni i contesti urbani verosimili di un prodotto Rockstar o gli scandagli intimisti di un The Last of Us.

La storie dei Metal Gear Solid sono a tutti gli effetti delle cazzatone, che richiedono una costante concessione alla suspension of disbelief del giocatore. Che viene tuttavia accordata (non sempre, non da tutti) perché è una narrazione che funziona “in contesto”.

Un Metal Gear.
Sanguina e ruggisce pure.

Uno dei caratteri unici degli MGS è il costante ondeggiare del tono della vicenda sulla soglia fra il realismo serioso di avvenimenti drammaticamente crudi e il nonsense di cui è intrisa la comicità del Sol Levante. Questo dualismo non è solo l’espediente con cui Kojima giostra la tensione e il pathos narrativo a seconda delle situazioni, ma è anche il motivo preciso per cui è del tutto ammissibile, per lo spettatore che guarda, accettare che un singolo guerriero possa affrontare e vincere un robot — la minaccia mondiale — alto svariate decine di metri e dotato di ordigni nucleari (la vera “weapon to surpass Metal Gear”, in fondo, è sempre stata Snake); mentre poco prima vediamo lo stesso guerriero temere per la propria vita per una “misera” pistola puntata contro.

Allo stesso tempo, la trama da B-Action Movie dei Metal Gear Solid viene utilizzata dal director giapponese come livello interpretativo basico (con una grande capillarità fra gli spettatori), nella quale annidarvi ulteriori tier di comprensione che necessitano di un grado “superiore” di introspezione.

Un estratto da Metal Gear Solid 3.
Snake affronta la propria “tristezza”.

E’ vero che il nome dei boss di Snake Eater, per esempio, ha una diretta discendenza da un immaginario supereroistico e, appunto, anime — perfettamente adeguato poi per iconografia al tipo di boss fight che si andrà ad affrontare. Tuttavia quei personaggi e quei loro nomi così “stupidamente fighi” trovano un’ulteriore e ben più radicata giustificazione nel discorso di apprendimento (e superamento) per Snake dell’etica del soldato: sconfiggerli non significa solo avvicinarsi sempre di più alla meta finale, ma diviene un evidente percorso simbolico di un giovane uomo che deve affrontare (e, soprattutto, dominare) tutte le tremende emozioni che si esperiscono su un campo di battaglia, prima di giungere alla riduzione di un senso complessivo, in cui elaborare una propria morale, un proprio valore, una propria “joy”.

Tutta la narrazione nei Metal Gear Solid è condotta lungo queste due direttrici così distanti, ma così perfettamente fuse; un dualismo che dona carisma e non permette di appiattire le letture possibili su coordinate univoche. La bravura sceneggiativa di Kojima (e co-scrittori) consiste proprio nell’avere costruito un enorme (e intricatissimo) set teatrale, su cui costantemente si avvicendano maschere e ruoli ben noti, che, tuttavia, si prestano a diversi piani di lettura che trovano una chiusura efficace a ogni livello diegetico (come parabola individuale, come senso del singolo videogioco, come direzione complessiva della macro-storia).

Un primissimo piano.
Kojima non ha mai visto un film di Leone, possiamo esserne certi.

Sennonché non ci sono le espressioni facciali di Joel, le evocative e laconiche descrizioni di Dark Souls, l’epica furiosa delle minacce di Kratos o il linguaggio e la polvere delle strade cittadine di Los Santos. Alla fine la MGS saga rimane una cazzatona anime…

“You must be a cutscene!”

Kojima non ha mai fatto mistero della sua riverenza per il mezzo filmico, ed è pertanto comprensibile come il director nipponico consideri la narrazione mediante filmati il mezzo eletto di conduzione della storia. “Cutscene e Kojima” è ormai l’endiadi preferita dei frequentatori del web, e indubbiamente l’autore non ha fatto nulla per impedire questa considerazione, anzi.

Il finale di MGS4: Guns of the Patriots è grossomodo un film lungo 1 ora e mezza.

Quello del rapporto e delle contaminazione fra mezzo cinematografico e medium videoludico è tema di approfondite e lunghe discussioni, che non possono certo essere esaurite in questa sede. La “cinematografizzazione” (passatemi il neologismo) del videogioco è spesso vista, da addetti e non, come il passe-partout ideale per consegnare una patente di dignità artistica al mezzo videoludico. Una convinzione, a ben vedere, che sottende il preconcetto in base al quale, di per sé, il “videogioco a più di tanto non può aspirare”, e dunque deve essere soccorso dall’autorevole cinema per essere nobilitato. Ma, ripeto, non è il caso ora di scoperchiare il vaso di Pandora.

I Metal Gear Solid in apparenza sono perfettamente integrati nel paradigma del videogioco cinematografico. Come detto, fanno sovente uso del filmato; regia, montaggio e recitazione hanno un particolare focus. Tuttavia Kojima non perde mai di vista la natura ludica delle sue opere e, pur saldandosi ai dettami del narrato mediante video, inserisce, sperimentando di capitolo in capitolo, elementi di interattività. Lungi dall’essere mere concessioni al giocatore finalizzate al non tediarlo, in realtà lo stile registico di Kojima si adegua perfettamente a un’idea di “regia che si fa in due”, intendendo con ciò l’ausilio fisico e empatico che il designer giapponese richiede dall’utente.

Un pezzo di gameplay di Sons of LIberty.
In un certo senso, in Sons of Liberty, è il giocatore a “costruirsi” alcune cutscene.

Pensiamo alle “cutscene costruite” di Sons of Liberty con l’ausilio del microfono direzionale (attraverso il quale possono anche scoprirsi, nei filmati, segreti ed extra), pensiamo alle soggettive (alcune nascoste) di Snake Eater, pensiamo all’MK di Guns of the Patriots, pensiamo alle cutscene animate e giocate di Peace Walker. Kojima mantiene la “classicità” della narrazione dialogata e filmata, destrutturandola secondo le possibilità offerte dal videogioco; ancora una volta, la sua è una soluzione mediana.

Il prologo di The Phantom Pain mostra uno degli esempi più mirabili e straordinari di “cutscene che si fa in due”, con un uso di fatto libero del POV.

Sennonché rimangono ore e ore di cutscene in cui il giocatore deve premere al massimo un dito, quando va bene…

Stairway to (Outer) Heaven

La scatola di Metal Gear Solid.
Livello d’infiltrazione over 9000.

Anche su un versante prettamente ludico, Kojima dimostra di non volersi scindere da determinati schemi tradizionali di “coinvolgimento” del giocatore. Il giocato dei Metal Gear Solid è un particolare mash-up fra elementi di infiltrazione (sempre contemperati da quel tono scanzonato e sopra le righe che abbiamo già visto) e action, con la presenza costante di bossfight che variano il flow e sezioni da first/third person shooter. Il risultato è un riconoscibilissimo (e unico) pot-pourri di situazioni, rese coese dalla capacità del designer giapponese di costruire una coerenza interna (di transizione fra l’una e l’altra delle sequenze di giocato) ed esterna (derivante da quell’attendibilità narrativa “indotta” di cui sopra). Pur adagiandosi, tuttavia, su sistemi di giocabilità ben codificati e “massificati”, la concessione alla profondità delle meccaniche e al ritmo recedono di fronte all’esigenza comunicativa di Kojima. Con l’eccezione di Metal Gear Solid V (che rappresenta un unicum nella produzione di Kojima sotto ogni aspetto), il comparto ludico dell’opera della MGS saga non è mai stato piegato a una gran stratificazione tecnica dello stealth-action, bastando invece un livello di coinvolgimento più “ruolistico” e affidato alla libera e spontanea esplorazione delle possibilità da parte del giocatore.

Una sezione action di Metal Gear Solid.
Una delle molte sezioni action presenti nei MGS.

A ben vedere il tanto ricercato “divertimento” si annida negli MGS proprio nella buona volontà dell’utente di trovare soluzioni, meno dirette ma più congegnate, al proseguimento nella mappa; allo stesso tempo il gameplay di un Metal Gear Solid vive anche della ricerca continua di segreti, easter eggs e finezze di ambientazione.

La conseguenza è che, per un giocatore poco smaliziato e più interessato ad una fruizione “superficiale” del prodotto, la run in un MGS si risolve in un abbattimento, anche piuttosto semplice, delle sentinelle irretite in pattern piuttosto rigidi e prevedibili. In altri termini, quasi ogni capitolo della saga (con le dovute differenze) esige dal giocatore un impegno di approfondimento delle potenzialità e delle sinergie fra elementi di sistema, senza il quale il tutto si risolve in un appiattimento dell’esperienza che ragionevolmente può alienare. I Metal Gear Solid non sono Splinter Cell, né Hitman, non sono Thief, né Dishonored; e nemmeno vogliono esserlo. Ancora una volta si pongono in una “zona di mezzo”, che è tuttavia funzionale al modus con cui Kojima utilizza il mezzo videoludico per comunicare con il giocatore.

Uno degli esempi più virtuosi di cosa significhi padroneggiare la comunicazione videoludica: la “scala” di Snake Eater.

Laddove l’autore giapponese eccelle è nel proporre un’esperienza interattiva originale e significativa, frutto di una commistione utente/giocante — avatar/giocato che affonda le proprie radici direttamente nel narrato per poi ramificarsi su un piano extra-diegetico. Il materiale esemplificativo sarebbe vastissimo, partendo dalla celeberrima bossfight contro Psycho Mantis in Metal Gear Solid, e arrivando a quella contro The End, di Metal Gear Solid 3: Snake Eater.

La V in Metal Gear Solid.
Il semplice gesto della V è sfaccettato, riutilizzato e legato in più contesti (e più opere) da Kojima, con sempre innovata originalità e sagacia.

In ciascuno di essi, e con gradazioni e modalità differenti, Kojima ha l’intuizione di sfruttare il controllo del giocatore sull’avatar e il suo relazionarsi con il sistema di gioco (mediante il pad che… funge da medium spirituale, è il caso di dire), al fine di produrre quella trasmissione di senso che si alimenta proprio di questa relazione. Quando, ad esempio, in MGS3, saliamo una lunga scala metallica, dovendo letteralmente tenere premuti due tasti per più di un minuto — intrattenuti solo dalle note sussurrate di Snake Eater — lì l’autore sta intessendo un dialogo con il giocatore: la posizione temporale nella vicenda di quella sezione, il contesto ambientale, il canto in sottofondo, il contributo (fisico) minimale richiesto al giocatore, il vento che ulula in quel lungo condotto senza fine, tutto contribuisce alla creazione di un significato. Un risultato che nasce dalla commistione di più forme comunicative sublimate dal controllo del giocatore sul proprio alter ego.

La scena della tortura di Snake.
La celebre tortura di Solid Snake in Metal Gear Solid.

Ci risiamo; ancora una twilight zone. Un creativo che, sebbene non si alieni da una concezione ludica marcatamente arcade nelle fondamenta (e dunque finalizzata a una “semplificazione” per il giocatore), non lesina con situazioni in cui la giocabilità e il ritmo vengono sacrificate, palesando una propensione “artistica” (colorate voi questo termine delle sfumature che volete, non è questa la sede per approfondire) del mezzo.

Sennonché non c’è lo shooting di Doom, né il realismo simulativo di Sam Fisher, né la libertà spaziale e interpretativa di Deus Ex…

Why we’re still here? Just to play another Kojima movie?

Una cutscene di Metal Gear Solid 5.

A questo punto devo fare una confessione al lettore. Mentre scrivevo queste righe non avevo idea di quale fosse la risposta alla domanda posta all’inizio. “Perché non tutti sono contenti?” Guidato dalla fiducia nell’attendibilità del processo maieutico, ho percorso sommariamente gli snodi fondamentali dell’opera kojimiana, cercando di estrapolarne le virtù come le criticità. E via via le idiosincrasie palesavano una costante: il videogioco di Kojima è segnato da evidenti contraddizioni.

A fronte di una fisionomia ludica che non si disancora da una certa riconoscibilità mainstream e che pertanto legittima la diffusività in un pubblico vasto ed eterogeneo, le opere della MGS saga presentano ciascuna e a ogni livello un allontanamento dagli standard di genere e di messa in scena, nel solco dell’esigenza comunicativa del suo creatore. Si parla spesso di autorialità, ma pochi altri in questa industria riescono a manifestare il proprio “spirito”, la propria visione, pur facendo “giochi di massa” (e non è un caso che Red Dead Redemption 2 sia uno dei blockbuster più discussi dal pubblico generalista).

La risposta che mi sono dato è che l’ambiguità sul limitare fra gioco d’autore e opera d’intrattenimento massificata segna al contempo la cifra stilistica, il fattore di diffusione e la condanna del lavoro di Hideo Kojima. Tacendo della sua figura pubblica e della narrativa che ha contribuito a creare intorno a sé, la divisività che un “A Hideo Kojima game” porta con sé è frutto di questa dualità.

Ed è proprio per questo che Death Stranding, forse la prima opera del director nipponico totalmente scevra da qualsiasi concessione a logiche produttivo-commerciali, suscita così tanto il mio interesse. Chissà che non si apra una nuova stagione del consenso (o del dissenso) per Hideo Kojima.

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