Le P[A]role sono potere
In uno dei primi concitati dialoghi fra il protagonista di Nier Replicant e il suo nuovo compagno di viaggio, l’antico tomo fluttuante dall’imperscrutabile potenza magica Grimoire Weiss, una frase passa quasi in sordina. Essa recita più o meno così: “Il sangue è suono, il suono è parola, la parola è potere”. Replicant esprime con una certa letteralità questo concetto, giacché, dalle “shade” — i principali nemici del videogioco — Weiss assorbirà il sangue con cui ridare linfa alle proprie scorte di potere magico; potere magico che, in Replicant, si manifesta attraverso la materializzazione di caratteri grafici e sigilli arcani.
Qualche tempo dopo, nella Forest of Myth, gli abitanti sono intrappolati nei loro sogni, la loro mente vaga in un labirinto di parole e immagini, e i protagonisti vengono risucchiati in questo dedalo di segni. Replicant trasla in avventura testuale e le frasi compaiono sui nostri monitor, trasformando l’opera di Yoko Taro in uno scritto interattivo. Potrebbe parlarsi a questo punto della riduzione del videogioco alle sue unità prime; del resto, ancor prima che poligoni e script, anche il testo videoludico è innanzitutto un testo verbale, che sia quello informatico o quello della fabula dello sceneggiatore. Le parole si materializzano sullo schermo descrivendo azioni e stati interni dei personaggi, i quali, però, hanno da ridire su certe affermazioni: sia il protagonista che Weiss protestano con il narratore su alcuni status emotivi che gli vengono affibbiati. In questa parentesi surreale, assistiamo a dei personaggi materializzati dalle parole del narratore protestare contro le parole utilizzate dal narratore stesso. Si tratta di un confronto impari, i nostri protagonisti sono fatti di parole, e ribellarsi al narratore equivale a una sedizione nei confronti della potenza ordinatrice della materia di cui essi stessi sono composti.

Nell’opera di Taro del 2010 la parola si atteggia a mattoncino mistico di una sintassi preternaturale, e la storia sembra svolgere il ruolo di mito (auto-)fondativo. Ed è sempre nella storia, una volta fattasi ricordo, un’altra volta tramutatasi in vite e nomi narrati, che i personaggi trovano la propria identità, la quale non è più merce da negoziare con un mondo ostile e diffidente con il diverso, ma il risultato di una narrazione di cui le personalità si fanno carico e che sventolano come proprio orgoglioso vessillo. Noi siamo prima di tutto storie, ciò che (ci) raccontiamo, di noi stessi e della realtà per come la percepiamo; una storia che confidiamo di scrivere con le nostre mani e, qualora non fosse così, per la quale non siamo disposti a scendere a patti pur di procurarci il finale desiderato.
Ed è per una storia secondo i nostri desiderata che si combatte da ultimo in Nier Replicant, allorché, in seguito a una decisione “estrema” del giocatore, il videogioco stesso darà una chance ulteriore di “sistemare” la storia. In uno dei molti atti di ridiscussione dei tropes del JRPG, Yoko Taro dà un nuovo senso alla prassi della denominazione del protagonista, mettendo in luce al contempo la rilevanza del nome nella costruzione di una propria storia.
Ancora una volta, il signum svolge il ruolo di catalizzatore del procedimento identitario di un individuo, il quale, in assenza di un nome, sparisce in ogni suo aspetto — e, viceversa, tramite il nome acquisisce contezza di sé e del suo posto nel mondo, come avviene nell’episodio extra, The Little Mermaid.

Ecco perché il nome che il giocatore dà al protagonista di Nier Replicant è rivestito di un significato speciale: è la chiave di accesso a una storia che si attacca sulla pelle di chi l’ha vissuta, nel coinvolgimento diretto di un’interazione e nell’affezione spontanea per quei destini che sentiamo tanto più vicini quanto maggiore ne è stata la condivisione.
Mondi possi[B]ili
C’è, in genere, un certo assunto da parte dell’autore nel momento in cui si cimenta nella costruzione di un universo narrativo fittizio, caratterizzato da proprie regole (da quelle naturali a quelle sociali), rapporti fra soggetti ed eventi che precedono o susseguono l’intreccio, costituendo un continuum (quello che, in soldoni, è definito canone), e questo assunto è il seguente: il mondo di cui si narra esiste. Non si tratta, come è ovvio, di “un’esistenza in re”, non si implica la descrizione di una realtà immanente, magari celata nelle pieghe di uno spazio-tempo alternativo. Faccio riferimento, invece, alle modalità con cui l’autore intesse la struttura del suo universo narrativo, congeniato di modo che sia realisticamente possibile
Se, ad esempio, un autore stabilisce che un dato avvenimento sia accaduto in un momento preciso del suo continuum, l’autore stesso è tenuto ad attenersi, nello sviluppo della storia, a quell’evento che ha situato in un tempo e con modalità precise — si escludono qui variegate tecniche narrative, come la retcon, tese a ricomporre le aporie. Allo stesso tempo l’utente finale dell’opera riesce a credere nell’esistenza (virtuale e ipotetica) di quel mondo finché le regole dello stesso vigono, e non vi siano cortocircuiti logico-temporali a minare l’affidabilità del testo narrativo.

Sebbene ciascun videogioco di Yoko Taro possa essere ricondotto allo stesso universo narrativo che comprende e “razionalizza” le vicende di ogni singolo capitolo (un vero e proprio Taro-verse, per storpiare terminologie in voga), è difficile ragionare, nel suo caso, negli stessi termini di cui sopra. I videogame del creativo nipponico si caratterizzano per la compresenza di più “finali” — definizione che ci faremo andar bene, sebbene parte dei titoli di coda siano a ben vedere più dei “fine capitolo” che dei veri termine di storia; questi ending, inoltre, mostrano realtà alternative, frutto di decisioni antitetiche le une con le altre, con la conseguenza che, spesso, si può parlare di veri branch che si dipanano da decisioni confliggenti (degli aut…aut). E se, a una sommaria ricognizione, questa divisione della storyline in tronconi divergenti non sembrerebbe distinguere l’opera di Yoko Taro da tante altre esperienze videoludiche, è, in realtà, un significato sotteso a questa segmentazione dell’intreccio a segnare la differenza.
Come Taro ha avuto modo di ribadire in diverse occasioni, non esiste un vero “finale canonico”. Tanto per i cosiddetti “finali intermedi” quanto per quelli “alternativi”, una scelta di preferenza e definitività è presa unicamente dal giocatore, il quale stabilisce quale sia, per lui, l’esito della storia (virtualmente è il giocatore che decide quando arrestare la propria esperienza con il suo videogame). Questa asserzione non confligge con l’esistenza di quel Taro-verse di cui si è scritto: sempre l’autore giapponese ha chiarito che quanto precede o sussegue un videogioco nell’ideale continuum narrativo è da considerarsi un mero “if world”.
Personaggi in[C]onsapevoli
Taro si è detto estremamente impressionato dal lavoro fatto da appassionati nella ricostruzione cronologica e dettagliata del lore del suo universo narrativo, ma al contempo ha affermato come non sia proprio una cosa che gli interessi. Questo atteggiamento è coerente con l’impostazione metodologica del suo stile: l’ambientazione di una storia è secondaria rispetto alla storia stessa. Questa subordinazione “del mondo rispetto all’individuo” non solo è sottolineata dalla rarefazione con cui i diversi “capitoli” del Taro-verse sono collegati — sono elementi marginali, sfuggenti riferimenti, colore sullo sfondo a legare vicende per giunta separate, di solito, da centinaia se non migliaia di anni; ma soprattutto sono la lacunosità e la frammentazione a testimoniare questa filosofia drammaturgica.

È risaputa la tendenza di Yoko Taro a disseminare i referenti narrativi del suo universo fra più media: manga, raccolta di novel, spettacoli teatrali, contenuti extra pubblicati in occasione di edizioni speciali. Così come è prassi nei suoi videogiochi che le informazioni sul contesto e il pregresso di personaggi ed eventi siano centellinate, lasciando spesso ampie zone d’ombra. Anche questi aspetti rientrano nel generale atteggiamento del director nipponico nei confronti delle sue narrazioni. Le ragioni sono ancora una volte esplicitate dallo stesso autore in un’intervista a Famitsu: suo intento è, attraverso i suoi videogiochi, riflettere la storia del nostro mondo, quello reale. Lo sguardo di ciascuno di noi verso la realtà è sempre e comunque caratterizzato da parzialità, tanto nel modo personale (irripetibile) con cui percepiamo tali nozioni quanto per la lacunosità con cui ci giungono queste “verità”. Ciascuno, secondo la propria volontà, può desiderare di conquistare una conoscenza maggiore, può dunque svolgere un’azione di approfondimento; ma, in ogni caso, qualcosa di sconosciuto rimarrà al fondo.

L’ombrosità del mondo narrativo di Taro ha il fine, ancora una volta, di passare lo scettro della responsabilità nelle mani del giocatore, il quale, con il proprio contributo interpretativo (la vera meraviglia di qualsiasi narrazione, secondo Taro) riempie i vuoti. Rarefazione del contesto narrativo che lascia il campo al nucleo primario di una storia secondo Yoko Taro: il protagonista e i suoi comprimari. Se le nozioni del mondo reale sono in ogni caso nostre nozioni del mondo (irrimediabilmente soggettive), allora nel videogioco di Yoko Taro lo sguardo sul mondo è sempre e comunque lo sguardo di qualcuno. Qualcuno che, in definitiva, è disinteressato alle “grandi verità” del mondo che lo circonda, perseguendo, invece, i propri fini; così come noi tutti, nella vita di ogni giorno, siamo interessati a ciò che ci preme, adeguandoci a una conoscenza parziaria di tutto ciò che non ci riguarda direttamente.

Quindi le storie di Yoko Taro sono prima di ogni altra cosa vicende di individui calati in un contesto molto più grande di loro e di cui, in fondo, non hanno molto interesse. È sempre l’autore nipponico a informarci sul punto: è una narrazione poco credibile quella che sfrutta il corso individuale di un soggetto per far luce su verità tanto vaste e pervasive del mondo in cui vive. Si tratta, a ben vedere, di un espediente drammaturgico diffuso nel mondo dei videogiochi, e non solo: il protagonista è il grimaldello con cui scardinare i fatti del mondo. Il protagonista è il salvatore, colui che è legato a doppio filo alle verità del mondo e che con il proprio corso inciderà fattivamente sulle sorti di tutti. Per il narratore è facile allora usare l’avventura del mitico protagonista per disvelare le ragioni e i segreti di quel mondo e al contempo elargire un finale che cambierà quella realtà per sempre: sotto questo aspetto si può parlare di narrazioni eroiche, per la maggior parte.
Yoko Taro è disinteressato a tutto ciò. I suoi personaggi perseguono scopi “minori”, a volte anche mondani; la loro conoscenza della realtà che abitano è difettosa, e spesso rimane tale fino alla fine dei loro giorni; le loro storie sono refrattarie a tutto ciò che non le riguardi direttamente. Ecco che allora l’universo narrativo si palesa, in Taro, nella sua veste di contesto credibile, ma secondario sotto ogni aspetto. Ed è per questo che, per l’autore giapponese, è del tutto ammissibile che due versioni dello stesso videogame, Nier (Gestalt e Replicant), si svolgano in un tempo differente (con uno scarto di un secolo): sono storie autonome, che trovano una giustificazione in se stesse, e che motivano da sé qualsiasi variazione nello spazio e nel tempo. Del resto un personaggio non fa che vivere una versione di una storia che si ripete ogni volta, ben potendo variare alcuni estremi della stessa, ma irrigidendosi nella reiterazione di un ciclo.
Ripetizione vi[D]eoludica
Una storia, per quante volte la si racconti, non è mai la stessa. Questo assunto forma l’architrave della poetica del director nipponico, e il videogioco appare davvero come il mezzo d’elezione perfetto per la sua mise en place. L’elemento di interattività si incastona nella malleabilità tipica della narrazione videoludica, permettendo a Yoko Taro di adeguare il suo mezzo al giocatore, come un vestito fatto su misura, capace di cambiare tonalità a seconda di chi lo guarda.

Se è vero, come si è già detto, che la pluralità di finali è tesa non solo a frammentare l’esperienza in un gioco di rifrazioni prismatiche (contenendo in nuce quel predicato di “pluralità nella unità” che le storie di Taro paiono voler raccontare), ma altresì a permettere al giocatore di sentire come “propria” la vicenda esperita, non va, allo stesso tempo, sottovalutata la tendenza alla ripetizione, un vero leitmotiv delle sue produzioni, e ulteriore mezzo con cui il creativo giapponese tenta di “avvicinare” giocatore e gioco.

Se per i primi videogiochi di Yoko Taro il riuso di scenari, livelli e attività poteva ben essere ricompresa (e a ragione) nell’esiguità di risorse finanziarie con cui il director è dovuto scendere a patti, NieR:Automata, produzione dal budget superiore, ci permette invece di aggiornare questa tendenza. Ho già profusamente parlato del loop nel videogioco di Taro, concentrandomi sull’opera del 2017; in questa sede, affrontando il tema dal punto di vista della prassi drammaturgica, mi limito a sottolineare come quella ripetizione sia preordinata a una sempre maggiore consapevolezza del materiale narrativo.
Una storia non è mai la stessa, poiché prima di tutto cambia colui a cui viene raccontata, che a sua volta muterà la propria posizione al riannodarsi dei fili di una vicenda, magari ricolorati di un pigmento nuovo alla luce di una prospettiva diversa. Così succede in Nier Replicant, quando nuovi sguardi permetteranno una sintesi diversa di parole e gesti già sentiti e visti; così succede in Drakengard 3, quando medesimi percorsi (ma opposti) apriranno a sbocchi prima inaccessibili. La ciclicità del racconto segna una marcia di avvicinamento, al ritmo crescente di un tamburo, fra giocatore e gioco.
The [E]nd of the story
Le storie di Yoko Taro, talvolta consolatorie, talvolta stigmatizzanti, talvolta beffarde, ereditano la funzione delle grandi fiabe che sin da piccoli occupano il lavorio immaginifico delle nostre menti. Mediante una struttura novellistica, Taro non si allontana dai paradigmi e dalle figure ricorrenti della narrazione favolistica, anzi, ne recupera la tradizione per poi sovvertirne il senso. Dame, prìncipi, cavalieri, stregoni, guerrieri, mostri: l’attenzione del narratore giapponese è costantemente rivolta a questo scenario del fantastico. Non è un caso che uno dei primi concept per Nier sia consistito nello sforzo da parte di grandi personaggi codificati della letteratura d’infanzia di fuoriuscire dai loro fati — di questa idea ne sono rimaste tracce, come vestigia, nei nomi di alcuni dei nemici di Nier Replicant. Così come non è un caso che uno dei temi ricorrenti (quasi un’ossessione) del Taro scrittore sia la pervicacia con cui i suoi personaggi lottano per liberarsi da un giogo invisibile che li costringe a un destino che non lascia spazio alla volontà.

Sembra come se, in Taro, il racconto torni a svolgere il ruolo di gioco, un congegno intellettualistico e artificiale attraverso il quale (dunque uno strumento, e non un fine) è possibile costruire spazi mentali infiniti, ma anche effimeri, come volatili sono i trucchi magici esibiti dal prestigiatore sullo stage. Pertanto le storie di Yoko Taro paiono sempre far trasparire una consapevolezza della loro fungibilità, che si manifesta nel riutilizzo sfrenato e disinteressato di quei motivi e di quelle figure paradigmatiche sopra accennate.
Una storia è prima di tutto un artificio, e non una destinazione, e in questo senso è significativo il distacco, specie nella cultura giapponese, fra Taro e le grandi narrazioni che mirano alla creazione di mondi fantastici e alternativi, che in quanto tali richiamano la malia dell’escapismo. Le storie dei mondi di Taro non permettono a coloro che le ascoltano di carezzare (e sognare) la possibilità di abitarvi, non mirano a essere luoghi di evasione — potreste dire lo stesso con la maggioranza dei grandi universi possibili nipponici, da quelli dettagliati di Final Fantasy passando per gli adrenalinici di Devil May Cry fino agli intriganti di Metal Gear Solid?

Se dunque una storia non è che un espediente, allora non c’è bisogno di allontanarsi dai canovacci, ma, anzi, forse è la subversion del conosciuto che meglio può scuotere l’animo di chi ascolta, di chi guarda, di chi legge. Così stando le cose, allora anche la descrizione di un’arma può essere un’occasione per raccontare una fiaba; anche una banale side-quest può essere l’espediente per narrare una parabola; anche in un videogioco può esserci un buon momento per fermarsi e leggere una breve novella, come quelle che qualcuno ci ha letto da bambini.
In fondo, il c’era una volta è solo l’ennesimo pretesto per ripensare noi stessi e il mondo che abitiamo con gli occhi e la voce di qualcuno che non siamo, di un mondo che non esiste.
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