Vorrei iniziare un pezzo del genere, con questo titolo, in maniera totalmente sferzante, alacre, caustica, diretta, senza troppi fronzoli, ma un certo rispetto per l’idea che in fondo “qualcosa di buono c’è in questo mondo Padron Frodo” mi impone di fare una premessa ideologica.
Chi fa Critica (con la C maiuscola che anticipa già quello che seguirà), chi ha idee ben precise e le afferma con decisione, chi non si sottrae all’agone intellettuale, anche quando si tratta di videogiochi (soprattutto quando si tratta di videogiochi) attira sempre su di sé la nomina di essere un egocentrico aristocratico che si crede superiore agli altri.
Ed è tutto vero Vostro Onore.
Quando mi è capitato di palesare la volontà di offrire contenuti profondi, alti e maggiormente impegnati come spunti di riflessione e analisi di opere videoludiche, mi è stato detto da qualcuno che questo è possibile solo per un pubblico di nicchia, che anzi per parlare alla massa c’è bisogno di rendere tutto molto più mediocre, accettabile, comprensibile e basso. D’altronde, attrarre il grande pubblico è sicuramente un porto sicuro dal punto di vista del guadagno economico anche a costo di mettere a repentaglio la qualità (cito René Ferretti senza citarlo).
Mi è stato detto che il mio atteggiamento era un po’ altezzoso, aristocratico e che una visione del genere era un problema nel mondo dei videogiochi. Come se vivessimo nel migliore dei sistemi possibili.
Ora, se c’è questa visione, questa idea per cui si pensa che al pubblico non si possano offrire contenuti alti perché effettivamente un pubblico per quei contenuti non c’è e se ci provi ti stai mettendo sul piedistallo e sei malvisto, è evidente che c’è un grande problema nella dialettica critico/giornalista e lettore/fruitore. La colpa è comune ma il gaudio non c’è perché sono ormai troppi anni che a gran voce si fanno critiche, anche giuste e giuste da fare, ma la soluzione non è stata ancora trovata.
Non posso quindi esimermi dall’approcciare la stesura di questo articolo con un po’ di supponenza data la natura critica dello stesso, ma assicuro che lo scopo è molto più democratico e sociale di quello che si possa pensare. Ne riparleremo alla fine.
Partiamo dall’inizio. Non mi piace parlare per definizioni ma il termine “Critica” deriva dal greco ed è ”l’Arte del giudicare, […] distinguere il vero dal falso, il certo dal probabile, il bello dal meno bello o dal brutto, il buono dal cattivo o dal meno buono”. È evidente che l’atto stesso, volitivo o fattuale, di giudicare o di pensare di poter giudicare ti pone in una posizione di superiorità, almeno rispetto all’oggetto del giudizio. È altrettanto evidente che per poter criticare è necessario avere degli strumenti critici ed effettuare un duro lavoro intellettuale.
Non è accettabile né realistico che qualunque opinione giudicante possa essere di per sé considerata “Critica” e rientrare nella definizione di “Arte del giudicare”. Gli antichi filosofi ci mettevano in guardia dal confondere quella che è “Doxa”, l’opinione affrettata, spensierata, che non vuole afferrare la verità ma solo esprimere il flebile “flatus vocis” della prima cosa che passa per la testa con “Aletheia”, la Verità, che in questo caso va considerata come la volontà di esprimere quella verità, a prescindere da che la si affermi o meno. Provare a esprimere la Verità è certamente un lavoro molto più duro e complesso, almeno dal punto di vista intellettivo, che dare voce al primo pensiero immediato, quindi non mediato dalle facoltà del pensiero.
Ora, proprio come non si pretende che chiunque sia un chirurgo ma si pretende che chiunque sia un chirurgo sappia fare il proprio lavoro, con la Critica si dovrebbe adottare lo stesso metro. È però molto più difficile discernere le capacità di un critico da quelle di un chirurgo (o equivalente posizione tecnica) che tramite le sue operazioni mostra le proprie abilità. Non basta una buona scrittura, né l’esperienza, per fare il critico serve un’elevata statura intellettuale, una stabilità emotiva e psicologica, un equilibrio necessario per giudicare con quella “medietà” che Aristotele non intende come mediocrità ma come saper stare nel mezzo delle cose senza estremismi.
Non basta una buona scrittura, né l’esperienza, per fare il critico serve un’elevata statura intellettuale, una stabilità emotiva e psicologica, un equilibrio necessario per giudicare con quella “medietà” che Aristotele non intende come mediocrità ma come saper stare nel mezzo delle cose senza estremismi.
Ed ecco che, senza mezzi termini, veniamo al primo problema che voglio porre con questo articolo: la critica videoludica è composta per la maggior parte da bambini. Da bambini che non sono sorvegliati da metaforici genitori proprio perché non è così facile discernere i risultati come con la chirurgia e non c’è nessuna evidenza possibile.
Sebbene l’immaturità intellettuale sia una questione che potremmo estendere a tutti gli ambiti della società, in quello videoludico, per la natura storica e ludica dell’opera videogioco, tutto avviene con una naturalezza e accettazione fin troppo passiva. Sembriamo quasi giustificati nel parlare di videogiochi come quel bambino di 5 anni che riceve la sua prima PlayStation con Tekken 3, Spyro The Dragon e F1 98 (ogni riferimento a fatti, cose, persone realmente esistenti non è casuale), con la meraviglia negli occhi e l’unico scopo di passare ore e ore a divertirsi. Lungi da me negare la bellezza e la dolcezza di questa dimensione anche perché mi appartiene, ma quando si parla di Critica bisogna considerare l’importanza culturale e reale di questa pratica.
Proprio come l’infante nella culla, attirato dalla rotazione dei pianeti e dal suono del carillon, siamo tutti attratti dalle mille luci, colori, esplosioni dei film supereroistici della Marvel, senza alcun spirito critico. Proprio come il ragazzo che non è ancora adulto viene strattonato a destra e a sinistra dalla forza con cui vive le sue emozioni e passioni, allo stesso modo abbiamo una considerazione dell’emotività purtroppo “magica”, come se ciò che proviamo sia una sorta di stregoneria alla quale dobbiamo arrenderci passivamente invece di cercarne il significato. Di nuovo, non voglio negare il valore delle emozioni, al contrario, vorrei che si pretendesse di provare ed esperire emozioni elevate da e per contenuti elevati.

Anche, e forse soprattutto, dal punto di vista politico-culturale, filosofico-antropologico, la Critica è composta da persone inadeguate, con visioni spesso puerili o che traspaiono come puerili dalla pochezza del contenuto che propongono. Qui non si parla di avere posizioni opposte o di non essere d’accordo con qualcuno, la verità è che quelle posizioni mancano proprio di profondità, o non ci sono, oppure sono la formula magica ripetuta a pappagallo che si è sentita dire da qualche parte e viene assunta come pseudo (perché non si crede al concetto di verità) verità.
La gravità della questione si esplica soprattutto nel momento in cui quel contenuto profondo e di valore sono convinti di averlo fatto davvero, che l’articolo che sviscera quel tema e che lo approfondisce è stato effettivamente redatto, quando al contrario è, nella maggior parte dei casi, l’elenco delle banalità già autoevidenti dell’opera. Proprio come quando si cerca la spiegazione di un film e sotto questa etichetta si leggono infiniti riassunti o sinossi della pellicola. E se da una parte si è consapevoli di questo aspetto, dall’altro a volte proprio non ci si arriva e diventa difficile spiegare a qualcuno che non capisce perché il suo contenuto è frivolo e sostanzialmente vuoto, frutto più della necessità di dire qualcosa, qualunque cosa, che di una vera analisi alla base.
E qui veniamo al secondo problema, evidenziato dal sottotitolo dell’articolo, le “opinioni d’ufficio”.
Nel flusso costante dell’informazione digitale, di internet e dei social è evidente che non è importante quello che si dice ma la velocità con cui lo si dice e soprattutto la capacità di raggiungere quante più persone possibile.
La paura costante è quella di non aver accesso al discorso, a qualunque discorso, di non poter partecipare e in ultima istanza, fondamentalmente, di non esistere. Se non c’è un tuo commento, post, pensiero da qualche parte, non esisti, o almeno non esisti come gli altri che quel post lo hanno fatto. Parzialmente in questo modo (ma non è questa la sede per parlare nello specifico di questo aspetto) si spiega anche il rapporto tossico che si genera fra giornalismo e un certo tipo di pubblico che si esprime in maniera maleducata e attraverso insulti. Qui quando parlo di pubblico non mi riferisco a questo genere di persone che rappresentano un estremo peraltro marginale di tutti i fruitori.

L’importante dunque è che si dica qualcosa in fretta, con il giusto tempismo prima che la maniera mercificante e cronofagica, citando il Professor Toniolo, di vivere le esperienze, sia da parte del giornalismo che da parte del pubblico, facciano scivolare tutto verso il prossimo titolo, il prossimo gioco la nuova “novità”.
È evidente come non ci sia il tempo di sviscerare e analizzare le opere con sufficiente profondità e precisione e che ci si senta costretti a dire qualcosa anche laddove un pensiero non si è formato, da qui le opinioni d’ufficio. Man mano nel tempo la pratica si è consolidata fino a diventare l’abitudine, si parla perché si deve per forza dire qualcosa, si parla per partecipare al discorso anche se non si ha nulla da dire e si parla con la prima cosa che passa per la testa anche qualora sia la più sciocca e superflua delle banalità.
È così che vengono ideate le “news” dai titoli il meno possibile clickbait, quando va bene, ma comunque in grado di catturare il lettore anche quando non c’è davvero la notizia o essa si autoesplicherebbe in titolo più preciso. È così che vengono espresse le risposte a qualunque contenuto producendo un discorso povero, banale e destinato ad arrovellarsi in una spirale via via meno “aurea” e prossima al nichilismo.
Mi si diceva, come ho espresso, che i contenuti alti, profondi e lenti, non sono possibili in questo periodo e mi si diceva non soltanto direttamente ma anche con l’evidenza del flusso costante di contenuto che viene prodotto da “colleghi” o in generale dal settore. Mi si diceva che il pubblico non è in grado di capire e che ogni critico, come ogni creatore, produce sempre per un pubblico di riferimento e se vuole guadagnare il suo target deve essere il più ampio possibile. Mi si diceva che la mia visione è elitaria e aristocratica, ma a questo punto, e dopo quanto espresso finora, fermiamoci un attimo a riflettere: è più elitaria la mia visione che crede che i discorsi alti e profondi meritino di essere fatti a prescindere dal pubblico ipotetico, proprio perché sono validi, e che il pubblico possa essere preso per mano e portato fino alla fruizione di questi discorsi, oppure è più elitaria quella che crede che tanto il pubblico non può capire e deve essere soltanto il foraggio di una critica e di un giornalismo ipertrofici a costo che gli sia assegnata automaticamente un’opinione d’ufficio qualunque?
Arriviamo, dunque, alla conclusione di questo articolo provando a risolvere il problema posto con il titolo stesso di questa trattazione.
Abbiamo detto che la maggior parte del giornalismo e della critica videoludica è puerile, cioè composto da personalità intellettualmente infantili che hanno o hanno avuto la possibilità di parlare di videogiochi in quanto considerato tendenzialmente come “giocattolo”. Quindi da un lato vi è un’incapacità strutturale evidente che impedisce di produrre discorsi seri e più profondi, dall’altro, laddove anche ci siano figure intellettualmente valide (assolutamente ci sono) c’è una certa mancanza di volontà sia perché il flusso delle informazioni è troppo rapido sia perché si ritiene che il pubblico, in massa, non sia in grado di apprezzare un genere di contenuto elevato.
In questo modo, se effettivamente il pubblico è per la maggior parte acritico e generalmente non vuole un certo tipo di critica e la Critica stessa è più propensa ad abbassare la qualità delle proprie analisi, le cose non possono che peggiorare, finché “che schifo” sarà identico nella sostanza percettiva al lungo articolo di analisi critica e tutto sarà il contrario di tutto, ma probabilmente è già così.
Le cose non possono che peggiorare, finché “che schifo” sarà identico nella sostanza percettiva al lungo articolo di analisi critica e tutto sarà il contrario di tutto
Il punto è che se il compito della Critica è quello di valutare inseguendo la verità dell’opera e il suo vero valore, vale la pena farla bene a prescindere dal pubblico di riferimento. Un pubblico che bisogna educare alla fruizione e alla partecipazione ai discorsi sempre più profondi e alle analisi più intelligenti. Fornire gli strumenti critici per poter essere tutti sullo stesso piano è l’unico modo per evitare sia l’elitismo della critica colta e intellettuale che non viene compresa e desiderata e sia la vuotezza e bassezza di contenuto di chi fa critica per hobby e “lavoro”.
Per fare questo è necessaria ovviamente la volontà del pubblico e la volontà corale di tutti gli addetti al settore di portare il discorso videoludico su un piano più alto, condiviso e bello.
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