Six Days in Fallujah e la guerra che non c’è

Attenzione: nell’articolo sono incorporati video a scopo informativo. Alcuni di questi filmati (il servizio di Kevin Sites e il documentario di Report) contengono immagini relative ai crimini di guerra commessi in Iraq dall’esercito statunitense, come l’esecuzione di un iracheno ferito e l’utilizzo di fosforo bianco nella città di Fallujah.

La visione dei video sopracitati è sconsigliata qualora siate particolarmente suscettibili a scene di violenza.

Mi è stato possibile provare con mano l’opera grazie ad un codice fornitomi da Victura sotto mia richiesta.

Il dibattito nato attorno all’opera di Highwire Games ha generato una serie di riflessioni interessanti sulla natura politica dei videogiochi. Prima di cominciare, però, è bene chiederci innanzitutto come e perché i videogiochi decidano di trasmettere messaggi politici spesso confusi e contraddittori tra loro.

Affermare che la politica non c’entri nulla coi videogiochi è frutto di ingenuità o disonestà intellettuale; l’impatto che gli eventi dell’11 settembre hanno avuto sul medium dovrebbe rappresentare un primo campanello di allarme.

Six Days in Fallujah permette di rivivere una delle battaglie più sanguinose della guerra in Iraq, conflitto che ha preso il via la mattina del 20 marzo 2003 per volontà dell’amministrazione Bush. Il pretesto per l’invasione furono la presenza di presunte armi di distruzione di massa sviluppate dal governo iracheno guidato da Saddam Hussein e di legami tra quest’ultimo e al-Qāʿida.

Nessuna delle due cose trovò riscontro coi dati raccolti da fonti indipendenti. Cosa restava dell’Iraq? Centinaia di migliaia di morti, violazioni dei diritti umani, danni incalcolabili alle infrastrutture civili e instabilità politica. In un recente servizio del New York Times, ex-militari dispiegati in Iraq non riescono a cogliere il senso degli eventi che hanno colpito le loro vite in quegli anni.

Topi in trappola

Come MilSim, l’opera di Highwire Games si difende bene pur trovandosi ancora in uno stato acerbo. Mancano molte delle features promesse dagli sviluppatori, le quali verranno aggiunte nel corso dei prossimi dodici mesi. La versione in early access ci permette comunque di respirare l’essenza del titolo, in una serie di quattro missioni che ci vedono impegnati in operazioni contro gli insorti.

Six days in Fallujah interno

Ho avuto la fortuna di incontrare un gruppo di italiani disposti a giocare in maniera coordinata e coesa, un elemento fondamentale se non volete che le vostre partite si riducano ad una carneficina. Si avanza in gruppo casa per casa, stanza per stanza, coprendosi a vicenda mentre si conquistano pochi metri di spazio per avere la meglio su un nemico tanto pericoloso quanto sveglio. Mi è capitato spesso di essere aggirato o di essere caduto in trappola mentre i nemici spingevano ai lati, costringendo la mia squadra a manovre evasive rischiose ma necessarie per la propria sopravvivenza.

Quando si tratta di creare momenti di tensione, Six Days in Fallujah non ha eguali; irrompere in un edificio è un’esperienza terrificante, la visuale è scarsa, la polvere si alza facilmente, ogni porta aperta potrebbe essere l’ultima. La paura di essere centrato da un cecchino è altissima, le strade di Fallujah sono un ginepraio di vicoli e macerie dove il pericolo è costante, sempre in agguato dietro ogni angolo, strada, porta o finestra. Dopo i primi minuti, la sensazione di essere un topo in trappola si fa sempre più pesante.

Six Days in Fallujah breach

Six Days in Fallujah ha tutti i presupposti per diventare uno dei MilSim più interessanti della scena contemporanea, eppure non riesco a togliermi dalla testa alcune perplessità che vorrei condividere con voi.

Tratto da eventi irreali

A Fallujah sono successe cose terribili, per usare un eufemismo. In guerra si perde il senso delle cose, la deumanizzazione dell’Altro è tale che arriviamo a compiere atti di una violenza tale che è difficile spiegarsi il perché. Nel 2003, Falluja era una città di circa quattrocentomila abitanti. Un anno dopo, la città si trasformò in un fortino in mano agli insorti iracheni, con molti civili rimasti intrappolati. Le regole di ingaggio svanirono completamente dal momento che tra gli insorti vi erano anche donne e bambini, una situazione di puro caos che portò l’esercito invasore a macchiarsi di numerosi crimini rimasti non solo impuniti, ma nascosti all’opinione pubblica per molto tempo.

È stato grazie al lavoro di alcuni giornalisti che sappiamo cosa è avvenuto a Fallujah. Mark Manning, dopo aver girato un documentario nella città irachena, subì un furto con effrazione nella sua stanza d’albergo; vennero rubate alcune cassette contenenti materiale scottante sull’operato statunitense in città. Kevin Sites, reporter della NBC, filmò l’esecuzione di un iracheno disarmato e ferito all’interno di una moschea. Il video fece il giro del mondo in breve tempo, portando Sites a ricevere minacce di morte e accuse di tradimento.

L’8 novembre 2005, Sigfrido Ranucci e Maurizio Torrealta della trasmissione Report mandarono in onda il documentario Fallujah, la strage nascosta, nel quale viene documentato l’utilizzo da parte degli Stati Uniti di armi al fosforo bianco.

Poco tempo dopo, il governo confermò l’utilizzo dell’agente chimico.

In un’intervista del 2021, Peter Tamte (fondatore e CEO di Victura, publisher del gioco) affermò che Six Days in Fallujah non avrebbe riportato gli eventi sopracitati così da non farne una questione politica. I giocatori possono rivivere i momenti più drammatici di quei giorni… senza vivere i momenti più drammatici. Il gioco promette di mostrare al pubblico la vera storia della battaglia di Fallujah, una sorta di documentario videoludico che ruota attorno alle storie di chi quei momenti li ha vissuti, siano militari che civili iracheni.

Perché Victura e Highwire Games si sono rifiutati di parlare dei crimini di guerra? La guerra in Iraq è stata frutto di decisioni politiche, l’operato delle forze armate ha natura politica, il caos in Iraq è frutto di (in)decisioni politiche. Perché negare a Six Days in Fallujah la sua natura politica, se l’intento del titolo è esattamente quello di raccontare quegli eventi, affidandosi oltretutto alla testimonianza di chi in quella città ha combattuto? Una dichiarazione simile desta un certo stupore, considerato lo scopo dell’opera. È un problema che riscontriamo spesso nei tripla A: dire tutto per non dire nulla, i messaggi si mescolano, si alimentano e si annullano a vicenda, consegnando al pubblico un oggetto amorfo da cui difficilmente traspare qualcosa di significativo.

Eppure Six Days in Fallujah si ambienta in un contesto storico-politico-militare ben preciso, con la popolazione civile vittima di un massacro. Titoli come Spec Ops: The Line e This War of Mine non hanno avuto remore nel raccontare gli orrori della guerra, seppur ambientati in conflitti di fantasia o vagamente ispirati ad eventi reali. Six Days in Fallujah rischia di mistificare la realtà degli eventi, una simulazione nella simulazione per citare Jean Baudrillard, il quale – a proposito della Prima guerra del Golfo – scrisse proprio che la guerra non era mai avvenuta poiché la rappresentazione mediatica a cui avevamo assistito non combaciava con la realtà dei fatti. In TV il mondo assisteva ad una guerra, nei fatti si trattava di un massacro sistematico, un inganno voluto e programmato.

Se tra vent’anni uno studio pubblicasse Six Days in Mariupol, evitando volontariamente di discutere degli eventi più controversi del conflitto russo-ucraino, come pensate reagirebbe il pubblico?

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  • Gennaro Saraino

    Da sempre appassionato di videogiochi, cinema e fotografia, nutro un profondo interesse per la scena indipendente e dei nuovi modi di raccontare storie all'interno dei videogiochi.

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