In un panorama videoludico dove il concetto di genere è sempre più fluido, dai bordi sfocati, mescolato, contaminato, strabordante dai confini del semplice “gioco”, sintomo di un medium entrato nella sua età adulta, la critica ha il dovere di tenere il passo, evolvere, crescere, diventare punto di riferimento culturale nel percorso tra giocatore e opera. Il videogioco di oggi va raccontato e non schematizzato, ridotto a un elenco puntato di caratteristiche che non prendono mai vita, colore, nero su bianco sciolto in uno scrolling che punta dritto al voto, ai grassetti e ai virgolettati, perché spesso sono proprio le parti più interessanti del lavoro.
Non sorprende che la critica scritta abbia drammaticamente perso terreno rispetto a quella audiovisiva, più fruibile, interessante, perfetta per integrarsi col medium. Redattori in via d’estinzione che si ostinano a scrivere e descrivere rispettando gli stessi dogmi di quando le riviste erano le uniche finestre da cui sbirciare i cortili videoludici e le meraviglie che nascondevano. Recensioni come foglietti illustrativi, embarghi rispettati come le prescrizioni del medico, spoiler da evitare come una bestemmia a San Pietro e un pubblico che ancora oggi, nelle sezioni commenti dei vari siti, litiga sui decimali di voti che ormai hanno perso totalmente significato, matematica sgonfia che non è più capace di riassumere il valore di un’opera.
La nuova complessità del videogioco, emotiva, tecnica, narrativa, mette a nudo ogni giorno i limiti di una critica vecchia, stagnante, spesso incapace di guardare oltre il naso del singolo redattore, che tende a rifugiarsi nella comfort zone del “a me piace questa cosa/avrei voluto che questa cosa fosse fatta in un altro modo” come base del giudizio, accentrando tutto il discorso su se stessi e proiettando la propria ombra sui lettori, senza sforzarsi di capire quello che si ha davanti, il perché di certe scelte, cercando la profondità invece che osservare la superficie. Questo sarebbe un primo passo per fare, finalmente, cultura (e di conseguenza sopravvivere quando la gran parte del pubblico sarà passata definitivamente su Twitch e YouTube come canali di informazione principale), analizzare un’opera per quello che vuole rappresentare, assimilare e poi approfondire, lasciando l’incombenza dell’embargo ai content creator, molto più adatti e abili a creare quell’hype pre-lancio che le aziende, volente o nolente, cercheranno sempre; non basterà più (e già probabilmente non serve a molto) pubblicare uno screenshot sui propri social privati, annunciando l’avvento di un codice per coccolare il proprio ego.
Smarcarsi da queste logiche, crescere, è un passo fondamentale per la sopravvivenza della stampa di settore
Smarcarsi da queste logiche (banalmente “crescere”) è un passo fondamentale per la sopravvivenza della stampa di settore, un’idea che ora può sembrare naive e idealista, ma la realtà dei fatti è che ormai lo spostamento del pubblico è irreversibile, esattamente come lo è stato nel passaggio da riviste a siti web dieci e passa anni fa. Un cambiamento che vedrà scomparire più o meno lentamente tutte quelle realtà che non seguiranno la tendenza (cambiando radicalmente il proprio modello di business, laddove le sponsorizzazioni saranno sempre più cannibalizzate dai singoli) o che non avranno contenuti abbastanza interessanti per farsi leggere, cliccare, attirare abbonati o donatori.

In un contesto dove una grandissima fetta di videogiochi arriva da studi di sviluppo molto piccoli, andrebbe privilegiato il racconto di questi ambienti, dove l’opera nasce come idea e si sviluppa come realtà ludica o ludonarrativa grazie alle persone, ai talenti: c’è un bisogno urgente di interviste, di dare la parola a sviluppatori, sceneggiatori, artisti, musicisti capaci meglio di chiunque altro di dare rilevanza al prodotto, lasciando poi al redattore il compito di analizzarne la portata, la qualità, la capacità di sedimentarsi e relazionarsi col giocatore, arrivando col tempo a creare la percezione di un mercato dove le opere galleggiano, rimangono lì, sospese, pronte a essere riscoperte, recuperate, anche reinterpretate e rivalutate in seguito, esattamente come accade nel cinema, nella musica e nella letteratura, laddove oggi si ha ancora la sgradevole abitudine di trattare il videogioco come qualcosa di usa-e-getta, da consumare preferibilmente a pochi giorni dal lancio per poterne parlare sui social, menarsela, spararla grossa, alimentare polemiche e poi dimenticarsene per dare spazio al prossimo titolo da “buzz”, al prossimo hashtag, al prossimo capolavoro annunciato per diritto di trailer.
Un settore, quello dell’editoria videoludica italiana, che dà l’impressione (in gran parte) di navigare a vista, di raccogliere tutto il possibile (e investendo spesso cifre ridicole sui propri redattori) prima di finire gambe all’aria, invece che iniziare urgentemente a pianificare, evolvere, diventare più autorevole in un percorso virtuoso e sostenibile con l’obiettivo di fare critica consapevole, interessante, colorata pur nel suo format nero su bianco, pronta ad accompagnare un fenomeno destinato a diventare l’intrattenimento di riferimento, e non si intende a livello commerciale, dove è già arrivato, ma a livello socio-culturale, diventandone custodi, storici, senza dimenticare di essere giocatori con l’animo di bambini, sempre pronti a farsi stupire. E coinvolgere i lettori in questo stupore, creando comunità e prendendosi, finalmente, le proprie responsabilità.
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