Di cosa parliamo?
Difficile descrivere Scorn, quindi facciamo che questa è una di quelle volte in cui non vi descrivo il gioco, ma ve ne parlo. Un parere, come fossimo al bancone del bar. Il che è quasi imbarazzante, perché seguo questo gioco sin dall’annuncio nel 2014, quando ancora si chiamava “Scorn part 1 of 2: Dasein”. In quasi 10 anni poi capitarono diverse cose, tra un Kickstarter andato male, sviluppatori che continuano i lavori ciònonostante e infine sponsor che permisero non solo al gioco di uscire, ma di uscire tutto d’un pezzo, come originariamente inteso.
In tutto ciò lo sviluppatore di Belgrado Ebb Software ha sempre mantenuto il massimo riserbo sui contenuti narrativi del gioco, a partire dal titolo. Se “Scorn” è parola inglese traducibile con “disdegno/disprezzo”, “Dasein” invece era di più difficile interpretazione. Un possibile significato si può trovare in tedesco: una parola di uso insolito, che a una rapida ricerca possiamo vedere associata a diversi filosofi di lingua germanica, da Heidegger a Kant. In quel contesto Dasein significa letteralmente “essere qui”, una pragmatica indicazione di esistenza/presenza di un’entità. Una possibile chiave di lettura di Scorn è proprio l’esistenzialismo.
Spaventati? Di solito faccio introduzioni più rilassate, ma credetemi se vi dico che stavolta possiamo fare solo congetture. Per trovare informazioni più precise su questo gioco bisogna curiosare il ricchissimo artbook nel quale il direttore creativo Ljubomir Peklar e la mente disegnante Filip Acovic lasciano alcune delle loro impressioni. Dicendo comunque a più riprese che è proprio nella loro intenzione lasciare spazio all’interpretazione.

Cosa vediamo?
Ad accompagnare questo senso di straniamento c’è il fatto che non solo per tutta la durata del gioco il protagonista non dirà una parola; è che la bocca proprio non ce l’ha. Ma c’è qualcos’altro: la fase narrativa in cui il gioco si colloca è invece chiara. Ci troviamo in un mondo che ha visto i suoi giorni di gloria molto, molto tempo prima. Gli ambienti sono usurati, consumati, perdono pezzi, eppure al tempo stesso sono ancora gargantueschi, solenni, enormi. Qualsiasi cosa sia accaduta, è evidente che c’è stato un momento in cui questi luoghi erano gloriosi. Forse non rumorosi, no, vista la premessa del personaggio non possiamo certo immaginarci i chiacchericci da piazza. Ma comunque brulicanti di vita. Ne vediamo ancora un po’ nei muri.

Escono dalle pareti? Beh… sì. La genesi del protagonista dopo il prologo avviene proprio tramite un muro che ospita numerosi altri bozzoli e la prima interazione che abbiamo è proprio fare lo sforzo per rompere il guscio, per poi cadere rovinosamente al suolo. Fortunatamente la caduta non è fatale, ma già dal primo istante possiamo notare che non tutti i “neonati” hanno avuto questa fortuna. Ci aggiriamo nella desolata natura di Scorn sino ad arrivare alla prima megastruttura che visiteremo, una fabbrica. Qui troveremo il primo oggetto utile e avremo conferma del tono body horror che permea tutta l’esperienza. Si tratta di una chiave di accesso che viene letteralmente saldata sulla mano del protagonista attraverso un’operazione rapida e dolorosa. Però almeno questo ci permetterà di interagire con i numerosi macchinari presenti nello stabilimento. In effetti il primissimo segmento giocabile sembra per molti aspetti un cantiere o una miniera. Ci troviamo a interagire con numerose atrezzature da industria pesante nel tentativo di… di…
Boh. Sì, poi a un certo punto la grande porta al centro dello stabilimento si apre e possiamo procedere, ma mentirei se dicessi di aver capito l’obiettivo di tutti i puzzle di Scorn mentre li facevo. Intendiamoci, cosa vuole il gioco da noi è sempre abbastanza chiaro, quello che può essere più sfumato è invece il risultato immediato delle nostre azioni. Vediamo un “interruttore” (che non è ovviamente un pulsante, quando piuttosto una membrana in cui infilare le dita e tirare) e non è sempre chiaro cosa fa. Il protagonista, d’altro canto, muove i macchinari in modo competente e sembra riconoscere il mondo in cui si trova. Al netto di venire sorpreso a sua volta in qualche momento, c’è la sensazione che sia almeno parzialmente consapevole di ciò che gli sta attorno.
Il protagonista mostra una certa familitarità con il mondo attorno a lui. Noi, invece, dovremo imparare ad abituarci
A noi giocatori invece, ci vorrà un po’ per abituarci a questo nuovo universo dove tutto, ogni singolo elemento, è vivo. Similmente ai mondi dipinti da H.R. Giger e Zdzisław Beksiński, le architetture richiamano più forme organiche che non le tipiche geometrie architetturali. Non solo: la decadenza in cui versa la struttura mostra che “sotto” il metallo che fa da carapace, spesso vi sono materiali che ricordano muscoli, tendini, nervi. Mentre però per forza di cose, nelle opere degli artisti menzionati, le ambientazioni sono sospese nel tempo, in Scorn sembrano aver attraversato molte fasi, dalla piena espressione di vitalità, sino alla “morte” e conseguente decadimento e fossilizzazione. Il mondo di Scorn è letteralmente vivo. O meglio, lo era.
Solenne in questo senso è l’ultima macroambientazione, la cittadella. Deserta come le precedenti eppure antica, solenne, monumentale, piena di sculture, bassorilievi e motivi ornamentali che ci danno un qualche indizio su quanto, malgrado non comunicasse in modo convenzionale, la società del mondo di Scorn fosse complessa e ricca di sfumature artistiche e spirituali. Un altro tema del gioco è la rinuncia all’individualismo in cambio del far parte di un’entità più collettiva, ma non voglio spoilerare alcune rivelazioni.

In tutto questo, le uniche altre entità viventi sono purtroppo rappresentate da umanoidi senza scopo ed energie lasciati prigionieri nei loro gusci e da organismi parassitari violenti e inarrestabili. Il parassitismo è l’ultimo macrotema che permea il mondo di Scorn, nonché la peggiore minaccia per il nostro personaggio. Poco dopo aver mosso i primi passi infatti, il protagonista si ritroverà attaccato alla schiena un invasivo ospite che lungo il gioco tenterà a più riprese di “sovrascriverne” il corpo e prenderne il controllo. Ma noi in tutto ciò noi…
Cosa facciamo?
Beh, Scorn è un gioco più esperienziale che interattivo. Il gameplay scopre infatti alcune debolezze, come se avesse voluto fare molto di più, ma non ci sia riuscito. Siamo dalle parti di un walking simulator con occasionali scontri. Malgrado le apparenze suggeriscano un titolo horror, secondo me non siamo davvero da quelle parti per due motivi. Il primo è che di solito la paura è data da un elemento “fuori posto”, qualcosa di minaccioso che non dovrebbe esserci o che non si comporta a nostro favore all’interno di una routine altrimenti stabilita. Ma se è il mondo intero ad essere alieno, su cosa possiamo basarci per dire che qualcosa è fuori posto? Il mondo di gioco è quieto, silenzioso, c’era prima del nostro passaggio e ci sarà anche dopo. Il secondo motivo è che quando bisogna combattere, in Scorn lo si fa.

C’è un pensiero fragilista dietro l’approccio al combattimento, il nostro personaggio non è un guerriero, non è particolarmente atletico e le azioni del parassita si faranno sentire dolorosamente. Ma non per questo si farà mettere i piedi in testa. Dopo aver raccolto una sorta di “stantuffo” che farà da arma bianca nonché da strumento di accesso per alcune aree, possiamo difenderci dai rari, ma tenaci nemici. Più avanti troveremo anche armi da fuoco e anche qui si nota la volontà di non diventare un vero FPS. L’equivalente della pistola tiene solo 6 colpi, ricaricarla richiede un certo investimento di tempo, ma soprattutto, mirare e sparare sono due azioni diverse. Come in Alien: Isolation, l’arma è normalmente tenuta a riposo e solo quando c’è intenzione di colpire va puntata. Munizioni di riserva e strane spore medicali vengono conservate in un “pad” che il nostro parassita cortesemente terrà in mano all’altezza dell’anca e che potremo consultare semplicemente guardando in basso. Si genera quindi un indesiderabile rapporto simbiotico tra ospite e invasore perché effettivamente hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere. Il parassita perché è semplicemente la sua natura, il protagonista perché deve… ok, devo smetterla di parlare di cose che non ho capito.
Il gameplay, dicevamo. I nemici non hanno una vera strategia: nel momento in cui ci vedono, semplicemente ci correranno addosso per farci la pelle. Tutto qui. Non ci sono particolari sfumature o caratterizzazioni e per buona parte degli scontri è possibile prendere lo stantuffo, colpire un paio di volte, ritirarsi il tempo necessario perché l’arma si ricarichi e ripetere. Un approccio davvero basilare e da questo punto di vista tanto meglio che gli scontri siano così rari. Trascorreremo la maggior parte del tempo perlustrando le ambientazioni e interagendo con i vari macchinari al fine immediato di liberare passaggi. Spogliata della sua estetica biomeccanoide, l’intera ambientazione funziona come un enorme agglomerato industriale dal funzionamento incomprensibile. Al punto che spesso, interagendo con un macchinario, possiamo capirne il funzionamento, cosa il puzzle vuole da noi, ma non sempre capiremo il risultato che ne verrà fuori. Spesso la soluzione consiste nel muovere atrezzature che vanno dal piccolo all’enorme per sbloccare passaggi e di questo ci dovremo accontentare. L’equivalente di una “scheda d’accesso” con vari livelli di progressione ci aiuterà a tenere traccia dei nostri passaggi più recenti, ma memorizzare la mappa delle strutture sarà compito nostro.

Questo è Scorn in breve.
Una breve parentesi sul concetto di ambientazione viva così grande da poterla esplorare: in realtà questa non è una novità in sé per sé. Da Pinocchio che viene inghiottito dalla balena, all’ultima missione del primo Devil May Cry con questa epica soundtrack, viaggiare dentro una gargantuesca creatura vivente è un archetipo classico. Succede in Gears of War 2, in God of War 2, a una lettura simbolica anche in Amnesia: a Machine for Pigs e nella mappa di Pathologic 2 e in chissà quanti altri giochi che non conosco. Quello che è particolare di Scorn è nascerci dentro a suddetta creatura, a non avere nozione di alcun altro universo al di fuori di essa.
Cosa concludiamo?
Scorn è un’opera unica. Semplice e formulaica nel gameplay quanto suggestiva e inimitata dal punto di vista visivo. Prendendo ispirazione da David Cronenberg, H.R. Giger, Zdzisław Beksiński e vari altri artisti che hanno integrato il concetto di “corpo” nei loro mondi alternativi, va fino in fondo nel proporci un universo che è a tutti gli effetti un organismo.
Ogni elemento è interconnesso a un altro, tanto che a volte è difficile capire con cosa possiamo interagire e con cosa no. Seguendo la filosofia di cui sopra, non ci sono elementi che spiccano artificialmente con colori più luminosi o con casuali luccichii. Gli indizi visivi ci sono e dopo la prima ora di spaesamento impareremo a riconoscerli, ma in un primo momento saremo obbligati a comprendere il nuovo mondo osservandolo a distanza di tatto.
E questo spaesamento perdurerà sino alla fine del gioco, con soltanto l’ambientazione finale a fare parziale chiarezza sulla cultura di questi personaggi e su cosa ha portato il loro mondo alla rovina. Non sono necessari sequel o prequel, perché narrativamente non c’è nulla a cui agganciarsi, se non forse un momento precedente al collasso. Ma penso che rovinerebbe il suo essere un’esperienza sensoriale, il suo raccontarsi così vagamente eppure in modo potenzialmente così esteso soltanto con la narrativa ambientale, con ancora più convinzione di quanto fece ECHO, altro gioco che lancia nell’azione senza tanti preamboli.

Il tutto senza mai trovare ingame una singola parola, scritta o pronunciata in un qualsiasi alfabeto. Da giocatori siamo stati ben accetti ad intraprendere questo viaggio, ma il mondo di Scorn non si è fatto ammorbidire da idee strambe come il voler capire la lore del mondo di gioco e l’obiettivo dei personaggi. Queste cose appartengono al mondo degli umani e il silenzioso regno biomeccanoide di Scorn non fa nessun passo verso di loro. È soltanto lì, esplorabile, esistente in quanto tale. Che ci abbiamo capito qualcosa o meno, a lui non importa.
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