Questo articolo non contiene spoiler di gioco.
Qualche tempo addietro, il nostro Mattia “Harlequin” Mangano pubblicava sulle pagine virtuali di IGN.it un editoriale dal titolo tanto enfatico quanto ardito. Parafrasandone il contenuto, l’autore riteneva che un determinato humus culturale, strettamente connesso alle origini nazionali dei suoi sviluppatori, determinasse sovente una certa ricorrenza comunicativa nei videogiochi accomunati da una stessa eziologia geografica. Se è fuor di dubbio che, come per ogni forma di schematizzazione, un po’ di realtà inevitabilmente “si perde” alla fine del procedimento di riordino razionale, tuttavia non ho problemi ad aderire con divertita spontaneità ad alcuni pattern indicati da Mattia.
Se venisse chiesto a un gruppo di individui di pensare a un aggettivo da abbinare ai videogiochi di un preciso contesto socio-geografico, è probabile che il grosso degli intervistati si polarizzerebbe intorno a qualificazioni attinenti a comuni aree semantiche. Magari i videogiochi giapponesi sarebbero quelli “giocosi” o “con grandi storie”, quelli statunitensi “sparacchini” o “epici”, quelli est-europei “depressivi” o “punitivi”, e via dicendo.
Mi sono chiesto, all’indomani della mia esperienza con Saturnalia della italiana Santa Ragione, se anche per la produzione di questo paese non si potesse rintracciare un canone.

Quella dell’industria italiana del videogioco è un tema aperto, per certi versi sintomatico di una congenita incapacità del nostro paese di emanciparsi da strutture di pensiero vecchie, di proiettarsi verso le opportunità (anche economiche) che nuove forme comunicative promettono. I talenti italiani si sono trovati costretti “a fare da sè”, a tentare di emergere grazie a una combinazione imponderabile di contingenze fortunose, trovate azzeccate e competenze individuali, senza giovarsi di un contesto funzionale all’emersione delle maestranze di settore. Lo stesso director di Santa Ragione, Pietro Righi Riva, in una recente intervista resa a TGM ribadisce il punto:
In Italia siamo molto “ognuno per sé”: sarebbe bello invece che ci fosse uno sforzo sia degli studi sia magari dell’associazione di creare delle reti di interconnessione tra sviluppatori ed editori, che permetta di competere a livello internazionale come industria italiana.
Così il videogioco in Italia rimane soprattutto una conquista della frontiera del West per solitari avventurieri, nell’arduo tentativo di spiccare nel mercato aperto ma vastissimo del videogioco indipendente. Ed esempi eccezionali come Vampire Survivors (2022) di Poncle sono anche l’espressione di un settore che altro non è se non la sommatoria di esperienze individuali e incomunicanti, di modo che il successo di uno non può in alcun modo risalirsi alla salubrità di un comparto che spesso e volentieri lascia i singoli a patire tutti i rischi d’impresa.
Qualcosa, tuttavia, comincia a smuoversi, soprattutto allargando i confini all’ambito europeo. Il prototipo di Saturnalia è stato finanziato al 50% grazie al programma Europa Creativa dell’Unione Europea (equivalente a circa il 12% del budget totale del progetto) e al fondo specificatamente devoluto allo sviluppo videoludico della Fondazione Sardegna Film Commission della Regione Autonoma della Sardegna. I ragazzi di Santa Ragione hanno intravisto un’opportunità di immettere il proprio estro creativo nell’alveo di un programma volto a mettere in luce le specificità culturali della regione isolana: le tradizioni e culture millenarie locali trovano nuovi sbocchi comunicativi in un linguaggio, quello videoludico, che si alimenta delle tecnologie della contemporaneità.

Insomma, non è casuale che il nuovo videogioco dei Santa Ragione sia così intessuto di rimandi, contesto e segni che si radicano nella storia del nostro paese. Non è certo una novità per lo studio italiano dialogare con un passato storicamente collocato. Già con Wheels of Aurelia (2016) – un semplice videogioco di guida in isometrico con una forte priorità alla narrazione testuale – i Santa Ragione avevano tentato di dipingere prima di tutto una stagione burrascosa del nostro paese: la “corsa” di Lella lungo la statale Aurelia verso la Francia era un pretesto per esaminare figure e temi degli Anni di Piombo, all’indomani del rapimento Moro.
Tuttavia, ancor di più, Saturnalia ostenta una commistione osmotica fra un passato del paese “mitologizzato” e la propria struttura comunicativa, fino a coinvolgere gli aspetti strettamente ludici, ripescando non solo un preciso contesto etnografico e storico, ma anche infestando il proprio scenario orrorifico di immagini e linguaggi di estrazione nazionale.
Le vicende di Saturnalia si svolgono in un tipico centro dell’entroterra sardo, una realtà minuscola e isolata nel tempo e nello spazio. La provincia italiana, al pari di quella di certo cinema horror della Nuova Hollywood, è protagonista al pari dei comprimari che ci spetta accompagnare. Un contesto rurale nel quale il potere è ancora rappresentato dai simboli di autorità del passato, in una cappa di benpensantesimo asfittico: la chiesa che troneggia sul sagrato e che scandisce i ritmi della contrada con i rintocchi della sua campana, l’edificio padronale (un castello) a imprimere il potere temporale, le case ermetiche rispetto a tutto ciò che è esterno. Una grettezza culturale che bissa l’angustia spaziale e mentale del piccolo paese, come rappresentato in molto cinema nostrano – si pensi a uno dei capisaldi del film di genere italiano, Non si sevizia un paperino (1972) di Lucio Fulci.
Ma Gravoi, il paese delle vicende, enuclea anche la stratificazione di un passato (o meglio, di più passati) che emerge come un reperto paleontologico dal sottosuolo. Un antico stabilimento nuragico si staglia dalla terra sulla quale si sono poi erette le fondamenta della civiltà romana antica, colonizzatrice dell’isola; a pochi passi da queste è stato costruito un castello nelle tipiche forme dell’età medievale e affianco ad esso l’autorità spirituale della Chiesa si impone con la sua fisionomia consacrata. Sui muri del municipio comunale campeggiano manifesti di dissenso al governo Craxi.
Non si tratta a ben vedere di una scelta casuale, come spiega Pietro Righi Riva nell’ottima intervista su Surreal and Creepy.
“I think we very quickly understood that we had to layer it in history because this is not a 2022 struggle, it is a humankind-forever struggle. Basically, at the bottom of it, we needed a place that had stratified history, which could exemplify the existence of something that has always been there. It also needed to show both the traditional horror side, like the ritual, the ancestral horror trope, and on the side, the concept of history repeating itself”
L’idea era che i saturnalia, le antiche festività pagane celebrate dai latini, travalicassero le epoche e le culture, quasi come a rappresentare un attributo coessenziale dell’umano – come viene spiegato da Righi Riva in questa intervista concessa al canale youtube Feardemic. Umano che reca in sè il germe del maligno, assopito fino a quando delle malefatte (i segreti vergognosi del borgo) non lo hanno risvegliato. Si tratta a ben vedere di un altro tòpos, sovente utilizzato nel nostro cinema dell’orrore, riferimento che viene attinto non solo come materiale narrativo.
Non a caso lo studio Santa Ragione si è avvalso della collaborazione di competenze esterne al circuito videoludico (come raccontato da Pietro Righi Riva in questa intervista) per la ricostruzione del setting di gioco: la direzione artistica è stata affidata alla scenografa Marta Gabas, attiva nella sua carriera principalmente nel campo teatrale e cinematografico. Obiettivo era restituire un’atmosfera onirica e surreale, nella quale i colori dinamicamente si adeguassero ai sentimenti del protagonista o alle condizioni di gioco. La soluzione trovata dallo studio italiano e da Gabas è una commistione di competenze tecniche e influenze cinematografiche; se alcuni araldi del Giallo all’Italiana (come quelli sopra riportati) rappresentano degli indubbi dagherrotipi, sono le modalità realizzative a incuriosire.
Il videogioco è in realtà in bianco e nero, non esiste texture in Saturnalia che sia colorata. Solo mediante la post-elaborazione e grazie alla luce che “si adagia” sulle superfici il villaggio di Gravoi si caratterizza, di notte, con le sue cromie lisergiche. Questo espediente unito ad altri – come la peculiare modellazione poligonale dei personaggi, uno stile generale che può ricordare il cell shading o l’utilizzo della nebbia volumetrica – ha acuito lo straniamento percepibile nel vagare per i vicoli del centro sardo.

Le radici culturali di Saturnalia, tuttavia, non hanno solo affastellato il suo impianto artistico, bensì hanno attecchito in profondità, fino a caratterizzare le modalità ludiche di risoluzione dell’intreccio. Il giocatore nel corso della sua partita può utilizzare quattro differenti personaggi giocanti, in vario modo legati alla storia del luogo, e ciascuno risoluto a far luce sul proprio passato, in qualche modo avvinto a quello di Gravoi. Un gruppo di individui che, bloccati nella notte senza fine del borgo dai tratti luciferini, decidono di unire le forze, di dare il proprio unico contributo per poter fuggire e, se possibile, risolvere il mistero di quel posto. Viene a crearsi così, in perfetta continuità con la stagione del Giallo all’Italiana, quella commistione fra terrore imperscrutabile, passato individuale e memoria collettiva. Scendere a patti con il proprio passato o dissipare le nebbie in cui è immersa una comunità isolata diventano gli strumenti di risoluzione del “male” che affligge un luogo: il mostro è prima di tutto un’eredità “politica”.
Le storie contenute in Saturnalia traboccano di sottotesti politici, e lo stigma culturale è il vero motore degli eventi. L’ostracismo per il diverso, le rivendicazioni lavorative, la chiusura mentale del piccolo borgo, un tradizionalismo virulento, la lotta per i diritti civili e sociali: Gravoi è non solo un enclave di immagini fantasmatiche (non più esistenti o irreali), ma anche una riproduzione in scala ridotta dell’Italia di quegli anni.

Quanto di questo passato e dei segreti di Gravoi venga dissotterrato, tuttavia, è lasciato alla discrezione del giocatore. Forse è questa la più grande scommessa di Santa Ragione, oltre che il suo più grande risultato: la libertà dell’utente non viene sacrificata e, anzi, risulta essere la risorsa di cui il videogioco italiano fa scorta per la sua anima complementare, quella thriller/slasher.

Santa Ragione ha ripescato alcune convenzioni di genere e le ha convertite in linguaggio ludico, permettendo al giocatore di avvertire sensazioni e deja-vu tipici di quelle pellicole dell’orrore. Alludo, come esempio, alla possibilità di andare in esplorazione di Gravoi accompagnato da uno o più degli altri personaggi (ciascuno connotato da una specifica abilità) e di come sia ampiamente probabile che lungo il percorso si venga intercettati dallo stalker, portando a una separazione dal companion, se non addirittura a una sua cattura. Gli attimi di concitazione, il commento dei nostri protagonisti all’accaduto, la ricerca e l’ipotetico salvataggio dell’amico braccato: Saturnalia catapulta l’interprete nella semiosi di uno slasher movie, gioca con la sua pre-compresione di quegli stilemi, talvolta con il fine di ribaltarli.
Parallelamente a un’esigenza di mera sopravvivenza, premura del nostro avatar è sondare gli ambienti principali del paese, al fine di rinvenirne gli oggetti chiave atti a permettergli la fuga. Viene messa in scena, con elegante sovrapposizione al lato più granguignolesco, un vero e proprio thriller, fatto di ricerca del colpevole, di disvelamenti di passati, di collegamenti fra eventi e personalità; un susseguirsi di scoperte che viaggia spalla a spalla con il sincronico smascheramento del “mostro”, e che non può non proiettare il giocatore in un universo di rimandi estetici debitore della lezione del Giallo all’Italiana.

Il gameplay loop imbastito da Santa Ragione trova la sua forza propria nella capacità di catturare un preciso contesto semantico e di accogliervi il giocatore senza che questi avverta l’obbligo di attraversare questa area museale secondo un percorso prestabilito. Saturnalia, abdicando a un’impostazione più rigida (scelta che sarebbe stata senza dubbio meno dispendiosa), ha scommesso su un impianto ludico legato a stretto giro con la libertà concessa al videogiocatore.
Libertà che si atteggia a più livelli. Non solo la progressione narrativa e ludica di Saturnalia non è prestabilita – ben potendosi, per esempio, accedere in alcune aree prima di altre o in modi alternativi, oppure ignorare del tutto due dei quattro personaggi giocanti – ma l’opera non “investe” l’utente con la propria storia, piuttosto mira a garantire una conoscenza pariordinata fra il giocatore e il suo avatar. I nostri personaggi non sono destinati a comprendere tutte le vicende, anzi, la loro può essere una “fuga ignara”, proporzionalmente all’impegno profuso dal giocatore al rinvenimento degli indizi sparsi per Gravoi – possibilità che è valsa uno sforzo di scrittura non da poco, come raccontato su Ludica Magazine.
La preordinata libertà del giocatore si compendia con le sfumature rogue-like del titolo: la conformazione del tessuto stradale e l’ubicazione degli oggetti cardine sono generati casualmente. La “fine” della partita – la morte di ciascuno dei quattro personaggi giocanti – sferra il colpo laddove più fa male per il giocatore, la perdita delle sue certezze: si smarriscono gli oggetti chiave e l’urbanistica di Gravoi cambia fisionomia. In altre parole, il rapporto fra l’utente e l’ambiente di gioco, da cui originano l’ansia e la curiosità, non trova mediazioni o facilitazioni, e la negazione di percorsi prestabiliti, nonché l’introduzione di una componente randomica, rinnovano l’esigenza del giocatore di mettere in dubbio la propria posizione nello spazio. Saturnalia investe sulla capacità del fruitore di mettersi al centro della narrazione, di vedersi attore di una messinscena il cui copione si sta scrivendo.

L’opera di Santa Ragione tesaurizza la routine ludica emergente dall’organicità dei suoi sistemi, permettendo al giocatore di vivere un’esperienza horror che sembra cucirsi sullo stesso. Riuscendo a ben celare “l’impalcatura” (le regole che marginalizzano le libertà concesse al giocatore), garantisce a questi la sensazione di star costruendo una storia originale, rispettosa delle decisioni di chi sta interagendo. Anche in questo modo Saturnalia proietta il suo pubblico in quelle atmosfere da Giallo all’italiana, nelle quali fasi investigative e orrorifiche si intrecciavano, sviluppandosi fra accadimenti rovinosi, ribaltamenti ed epifanie.
Allora le coordinate utilizzate da Saturnalia tracciano un possibile percorso per il videogioco in Italia. Una produzione nata da un investimento “dall’alto”, finalizzato a foraggiare le creatività del paese; un ensemble di competenze, alcune delle quali forestiere al circuito videoludico; un rimestare nelle prerogative storiche e culturali italiane, i soggetti da ultimo raccontati nel videogioco; un mutuare i riferimenti estetici sorti in Italia, che hanno formato la coscienza culturale delle nuove generazioni di creativi.
Ripenso al quesito con cui è principiato questo articolo e non ci sarebbe bisogno di specificarlo: le opere di narrazione sono innanzitutto l’espressione delle individualità che le hanno composte. Tuttavia la storia produttiva e le specificità estetiche di Saturnalia sono l’esempio di quali forze e quali esigenze comunicative sono raccolte, troppo spesso imbrigliate, fra gli artisti di questo paese. È interesse di tutti che vengano liberate, e chissà che un giorno al quisque de populo non possa venire alla mente un aggettivo, pensando al videogioco italiano.
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