Un ritorno al mare di dune di Homeworld: Deserts of Kharak

Il deserto per me è l’espressione massima di “molto bello, ma non ci vivrei.” Il perché è abbastanza evidente: penso che la presenza di acqua sia moderatamente importante nella vita di una persona e trovo gradevole una temperatura massima che non vada oltre i trentacinque gradi. Ma sono proprio le asperità del deserto e la lotta giornaliera che gli esseri umani devono affrontare contro le dure condizioni da esso imposte a renderlo un’ambientazione così affascinante. In tutte le sue declinazioni: da quello che il Biondo e Tuco si trovano ad attraversare in Il Buono, il Brutto e il Cattivo, ad Arrakis, il pianeta desertico carico di profezie e di misticismo di Dune, passando per la desolazione che la Catena dei Cani deve attraversare nel Libro dei Caduti di Malazan e per il postapocalittico futuro al sapore di benzina di Mad Max e arrivando, naturalmente, agli sterminati deserti di Kharak.

Homeworld: Deserts of Kharak è un titolo del quale mi interessa parlare anche per un altro motivo, che non ha nulla a che fare con le dune del deserto. Dopo anni di calma bene o male piatta nel panorama degli RTS, questi ultimi anni ne stanno vedendo una risorgenza, grazie principalmente a una serie di remaster. Queste iniziative hanno il pregio di aver solleticato l’interesse sia dei fan di lungo termine che di generazioni più giovani, che hanno finalmente potuto mettere mano sui classici del passato in una veste più consona all’anno in cui ci troviamo. Sto parlando ovviamente di Age of Empires II: Definitive Edition e di Command & Conquer: Remastered Collection, entrambe riedizioni che hanno riscosso un ottimo successo di critica e di pubblico, dimostrando che l’interesse per la strategia in tempo reale è vivo ancora oggi.

Deserts of Kharak
Anche se graficamente non è all’ultimo grido, Deserts of Kharak non manca di scorci suggestivi.

Come i più attenti ben sapranno, Age of Empires II: Definitive Edition e C&C: Remastered Collection sono solo gli ultimi arrivati nel campo delle remaster. La prima serie di RTS a ricevere una veste grafica al passo coi tempi è stata infatti quella di Homeworld, già nel 2015. Ma non ha ricevuto solo questo: grazie infatti alla Blackbird Interactive — gli stessi attualmente al lavoro su Homeworld 3 e su un gioco dove, uh, facciamo a pezzi relitti spaziali per pagare il nostro debito con una megacorporazione — nel gennaio del 2016 Homeworld: Deserts of Kharak è andato a espandere la storia dei Kushan e della loro odissea spaziale. A differenza dei suoi predecessori, però, le vicende di questo seguito hanno i piedi (o meglio: ruote e cingoli) ben piantate a terra.

Il fatto che Deserts of Kharak abbandoni l’ambientazione spaziale è tutt’altro che secondario. È pur vero che gli RTS in questo periodo stanno riscuotendo un successo che non vedevano da anni; ma d’altro canto una remaster di un titolo di successo è l’esatto contrario di un proposito rischioso — a meno, ovviamente, di sbagliare tutto lo sbagliabile, come nel caso di Warcraft III Reforged. L’RTS di Blackbird Interactive invece, ben lontano dall’essere una pedissequa riproposizione di una formula già collaudata, era un grosso azzardo: il movimento tridimensionale dei capitoli originali è ancora oggi una delle loro caratteristiche più distintive, e l’abbandono di questa meccanica avrà fatto alzare più di un sopracciglio.

Deserts of Kharak
Non saremo più nello spazio, ma tranquilli: anche su Kharak è pieno di relitti spaziali.

Ma questa non è la storia di un fallimento clamoroso. Deserts of Kharak non è solo un ottimo RTS: è anche un ottimo episodio della serie Homeworld, che pur abbandonando la volta celeste riesce a mantenere intatto lo spirito degli originali. Gli sterminati deserti che la Kapisi si trova ad attraversare sulle tracce della leggendaria città perduta di Khar Thoba trasmettono sensazioni simili a quelle che si provano controllando la Pride of Hiigara mentre esplora il freddo spazio alla ricerca di Sajuuk. I veicoli della Coalizione hanno lo stesso stile squadrato e blocchettoso che avranno, un secolo dopo, le navi da battaglia dei Kushan. La colonna sonora, ancora una volta opera di Paul Ruskay, si discosta parzialmente da quella degli originali, adottando in misura molto più calcata temi arabeggianti, più adatti all’ambientazione; ma non mancano la citazioni, e risentire le note di Imperial Battle quando ci troviamo a difendere il Khasar Plateau dalle orde di Gaalsien non può che far venire i brividi. Anche il doppiaggio, sia nei video che quando selezioniamo o diamo ordini a singole unità, mantiene quello stile distaccato, scarno di emozioni, militarmente efficiente (ma non per questo privo di personalità) che tanto caratterizza la narrazione degli originali.

Ma questi sono elementi — pur importanti — di contorno. Parliamo un po’ di come funziona Deserts of Kharak iniziando dall’elemento di novità, ovvero l’ambientazione planetaria. Il nuovo gameplay “ruote a terra” ha permesso agli sviluppatori di aggiungere un elemento che, per forza di cose, non può essere presente nello spazio, ovvero quello offerto dagli ostacoli alla linea di tiro. Intendiamoci, il concetto di line of sight non è un’invenzione dei Blackbird. Molti rts moderni ne fanno uso: basti pensare alla serie Wargame o ai vari Men of War. Ma pochi di loro riescono a integrarlo in maniera così organica, fluida e piacevole; grazie alla mobilità di gran parte dei veicoli a nostra disposizione, è facile ritrovarsi a danzare sui due lati della cresta di una duna per colpire i nostri nemici e poi ritirarsi al sicuro prima che possano contrattaccare.

Deserts of Kharak
La mappa tattica risulterà immediatamente familiare a chi ha giocato gli originali.

Nonostante le ovvie differenze, anche la classificazione delle unità è molto vicina a quella dei capitoli ambientati nello spazio: chi ci ha giocato ricorderà l’importanza del sistema carta-forbice-sasso, ovvero di come ogni unità avesse la sua nicchia specifica da ricoprire: c’era il caccia buono contro altri caccia ma deboluccio contro gli swarm fighter, allora c’era la multi-gun corvette che funzionava bene contro quelli ma prendeva le botte dalle heavy corvette, e così via. Anche se in scala minore — e forse per il meglio: l’abbondanza di unità nei vecchi Homeworld poteva generare confusione — lo stesso concetto è stato ripreso anche in Deserts of Kharak: prendendo le unità più basilari, i light attack vehicle (o LAV) sono efficaci contro le lente e poco corazzate railgun, che a loro volta sono efficaci contro gli armored assault vehicle, che com’è lecito aspettarsi riempiono di mazzate i LAV. Insomma, chi viene dagli originali non può che trovare un ambiente familiare in questo prequel.

Con tutto questo non voglio ovviamente dire che giocare al primo Homeworld e a Deserts of Kharak sia la stessa cosa. Stiamo parlando di due giochi indiscutibilmente diversi. Ma è proprio questo uno dei pregi più grandi di Deserts of Kharak: essere riuscito a proporre una formula di gioco nuova, non succube del suo passato, ma che allo stesso tempo non dimentica le sue radici e rimane coerente con l’universo in cui è ambientata. Non che sia un titolo senza le sue asperità, intendiamoci: tecnicamente non è eccelso, la pur ottima campagna singleplayer manca di longevità, e (perché anche quello è importante) è difficile trovare una giustificazione al prezzo di 46€ che qualcuno alla Gearbox pensa abbia senso per un RTS vecchio di quattro anni. Ma sono tutto sommato piccolezze che gli si riesce a perdonare: in questo panorama RTS apparentemente rivitalizzato, ci vorrebbero più Deserts of Kharak e meno Dawn of War III.

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  • Marco "Brom" Bortoluzzi

    Vive in mezzo ai monti del Trentino, brontola un sacco, però alla fine non è cattivo, sul serio. Basta che non parliate male di Borderlands in sua presenza.

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