Chiariamoci fin da subito: mi sono scoperto fan di Remedy Entertainment non tanto ai tempi di Max Payne, al quale sono piacevolmente affezionato, quanto dopo aver giocato diversi anni fa Alan Wake, in occasione del collaudo della mia vecchia HD6850. Il connubio di elementi cinematografici in perfetto stile “cult movie” e la direzione Lynchiana di un plot che potrebbe tranquillamente essere stato scritto da Stephen King mi aveva decisamente impressionato, nonostante (come già abbiamo avuto modo di far notare) il titolo presti il fianco a diverse critiche piuttosto incisive.
Ciononostante, Remedy riesce sempre a intrigarmi con le loro produzioni e ho avuto la terza conferma un paio d’anni fa, quando giocai Quantum Break diversi mesi dopo l’acquisto, dopo averlo ingiustamente relegato a raccogliere polvere nella mia libreria virtuale.

Quando era ancora una esclusiva Microsoft, Quantum Break si fece notare più che altro per la dichiarazione di intenti degli sviluppatori, che volevano fondere in maniera netta e brutale due medium per certi versi piuttosto simili: videogiochi e serie TV. Il risultato, sebbene non perfetto e limitato da esigenze di budget, mi ha lasciato ben sperare che eventuali titoli simili possano ripercorrere i suoi passi, magari riuscendo ad aggirare alcuni dei grattacapi che Remedy ha incontrato nel percorso di sviluppo. Non starò qui a spiegare esattamente in cosa consista il gioco e in che direzione si muova la trama (potete leggere il mio commento personale sul profilo Steam per questo), mentre invece mi voglio focalizzare su quello che ha reso Quantum Break — ai miei occhi — un titolo speciale nel suo essere perfettamente ordinario.
In primis, è difficile non restare coinvolti nello svolgersi degli eventi che accompagnano il giocatore nell’avventura: viaggi temporali, una megacorporazione disposta a tutto pur di arrivare all’obbiettivo, i classici paradossi tipici di una trama di questo genere e un cast di personaggi discretamente delineati e recitati da attori non esattamente sconosciutissimi nel campo delle serie TV. Il mix di questi elementi aiuta a realizzare un plot un po’ più stratificato del solito e i tanti collezionabili sparsi in giro permettono di approfondire meglio quelli che sono i retroscena della storia. Quantum Break è quel classico titolo che si apprezza di più ammirando i dettagli sparsi per i livelli e in questo senso gli sviluppatori non hanno fatto mancare nulla.
Per carità, non stiamo parlando di una produzione rivoluzionaria: al contrario, i buchi di trama abbondano quando si mettono in mezzo le fratture spazio-temporali, sebbene nel complesso la storia sia perfettamente godibile e tutto mantenga una certa coerenza fino alla fine. Cosa che diventa palese se si segue con attenzione le puntate della serie TV.

La serie TV, preferisco metterlo in chiaro fin da subito, sembra una di quelle miniserie budget di Netflix, realizzate in ambientazioni prive di comparse, con effetti speciali abbastanza raffazzonati e una palese mancanza di fondi. Il risultato è… mediocre, se vogliamo parlare prettamente di tecnica cinematografica, ma ho apprezzato lo stesso il tentativo: si vede che hanno messo cura nello sfruttare bene tutto quello che avevano a disposizione e l’esperienza degli attori ha fatto sì che le puntate non siano uno strazio da guardare. Anzi, a un certo punto devo ammettere che mi sono ritrovato a desiderare una stagione più lunga, in modo tale da dare spazio a tutte quelle che sono le sfaccettature del setting utilizzato. Da questo punto di vista hanno aiutato certamente regia e fotografia, che dettagliano il dipanarsi degli eventi in maniera azzeccata.
Nonostante i suoi limiti, questa è forse la caratteristica che più mi ha fatto impazzire, in senso buono si intende. Gli spazi esterni vuoti, le inquadrature ravvicinate, i costumi palesemente improvvisati, tutto lascia trasparire un’atmosfera un po’ bizzarra, come se qualcosa in quel mondo non stia propriamente al suo posto. È come guardare un film amatoriale: il risultato è chiaramente differente dal solito cinema a cui siamo abituati, ma è interessante guardare l’insieme e apprezzarne le differenze.

Non cito Naughty Dog a caso quando dico che i due team di sviluppo hanno diversi aspetti in comune: la volontà di inserire una componente puramente cinematografica all’interno dei loro titoli, la capacità di dirigere i filmati tra un livello e l’altro in modo tale da raccontare una storia coinvolgente e lo sfruttamento di tecniche normalmente utilizzate sul grande schermo per veicolare espressioni ed emozioni. Potrei pure azzardare un “Naughty Dog fatti da parte” in quanto, sebbene non allo stesso livello tecnico, Remedy ha il potenziale che basta per narrare una storia in maniera magistrale, nonché la capacità di offrire questi elementi su una base piuttosto regolare. Control ha infatti riscosso una calorosa accoglienza da parte della critica (qui trovate le lodi del nostro Dyni), sebbene anche questo titolo abbia qualche incertezza (e abbiamo parlato anche di questo). Nonostante manchi quella caratteristica mania di perfezionismo tipica di Naughty Dog, il team finlandese è perfettamente in grado di centrare il bersaglio, come dimostrano lo status di cult di Alan Wake e l’impatto che ebbe Max Payne parecchi anni fa sul modo di veicolare una storia in ambito gaming.
Il punto a cui voglio arrivare è che Remedy per me rappresenta quel tipico appiglio al quale posso comodamente affidarmi quando voglio sperimentare qualcosa di un po’ più particolare del solito polpettone d’azione, restando perfettamente conscio che il loro portfolio non è costellato da capolavori indiscussi. Ma in tutta onestà, se il risultato è buono e complessivamente funziona, perché rinunciarci?
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