Perché amo i timer nei videogiochi

Tra i numerosi elementi che possono dividere nettamente gli appassionati di videogiochi, ci sono le sezioni a tempo. Una feature che m’è capitato più volte di vedere aspramente disprezzata da chi impugna il pad cercando principalmente momenti di relax a fine giornata, o vuole pianificare ogni mossa con la massima cura e tranquillità, colpevole di scaraventarlo fuori dalla sua zona di comfort — ovviamente quando inserita fuori dai classici contesti associati a essa, come le prove a cronometro nei giochi di guida.
Ma sono davvero tutta ‘sta tragedia? Una pressione esagerata per duri invasati? No, proprio no, anzi per me sono bellissime. E a un prezzo non eccessivo, possono donare davvero molto all’esperienza di gioco, in modi fin troppo sottovalutati.

L’effetto più ovvio e immediato di un ticchettio che ci avverte della nostra imminente disfatta è generare tensione, ma anche adrenalina. Sul finale di Resident Evil ci si ritrova a dover fuggire dal parco degli orrori che ci ha tormentato fino a quel momento prima che tutto salti in aria, con soli tre minuti a disposizione e una bestia enorme a bloccarci la via. Quei dannati secondi che scorrono inesorabili non stanno lì per rendere più difficile il boss finale, ma per indurre uno stato d’animo d’urgenza, inesorabilità, disperazione, facendoci calare ancora più intimamente nella parte del nostro avatar e rendendo la vittoria molto più sentita e memorabile.

Timer

Un diverso tipo di fretta è quello che ricerca invece Devil May Cry 3, nella missione “Hunter and Hunted”: Dante raccoglie un generatore d’energia, che lo potenzia sbloccando un Devil Trigger permanente ma al tempo stesso ne danneggia costantemente la salute. I nostri punti vita si trasformano quindi in un contatore, indicandoci quanto tempo ci rimane per riuscire a completare il livello e liberarci di questa benedizione e condanna. Stavolta le sensazioni date dall’ultimatum sono però molto diverse, non ci sono panico e ansia, solo un istintivo pigiare sull’acceleratore per volare attraverso i nemici, enfatizzando ulteriormente le caratteristiche della trasformazione, ovvero velocità e potenza. Ci si ritrova lanciati nella sezione più eccitante del titolo, rapiti da una foga delirante, trucidando chiunque si pari sulla nostra strada con un gusto mai provato nelle ore precedenti.

Uno dei timer più criticati è quello sfoggiato dai dialoghi di Alpha Protocol. Nel gioco di ruolo Obsidian si interpreta una spia, e in quanto tale si è spesso protagonisti di raggiri, doppi giochi, battaglie a colpi di one-liner, bluff, avance da parte di gatte morte. Decidere cosa dire, ma soprattutto come dirlo, diventa cruciale. Ma perché seguire lo standard degli scambi di battute continuamente messi in pausa dalle elucubrazioni del giocatore indeciso? Perché non dare continuità alla scena, calandoci a tutti gli effetti nei panni dell’agente segreto costretto a improvvisare e reagire d’istinto? E quindi ecco l’idea: la risposta dev’essere selezionata entro pochi secondi, distruggendo la tipica calma del momento e testando la nostra capacità d’adattamento e reazione. Un esperimento coraggioso e che m’è piaciuto moltissimo. E se il tempo a disposizione v’è sembrato troppo poco… beh, siete lenti. Iniziate ad anticipare i dialoghi leggendo i sottotitoli e saltando il parlato, come i videogiocatori seri (sì, anche e soprattutto in The Witcher 3).

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A volte un limite temporale può manifestarsi in tutta la sua forza anche senza essere una vera minaccia. La richiesta di Fallout è chiara quanto vaga: trovare un nuovo chip di controllo per l’impianto di depurazione dell’acqua e salvare così il proprio Vault, entro centocinquanta giorni. Data la natura aperta del titolo (che potete approfondire qui), per evitare ripetuti game over e frustrazione Interplay ha concesso un limite molto abbondante, che si può addirittura estendere nel corso la partita, rendendo quasi impossibile giungere a fallimento per causa sua. Tuttavia, il giocatore alla prima partita non sa quantificare ciò che gli viene richiesto. Quant’è difficile trovare un chip? Quante cose può fare e vedere in centocinquanta giorni? L’esplorazione della zona contaminata è quindi arricchita da valutazioni continue, alla ricerca di un bilanciamento tra il seguire le vicende secondarie in cui ci imbattiamo e individuare una pista che porti al nostro obiettivo principale. Il timer non è pressante, ci lascia spazio, ma non può essere ignorato e detta ogni nostra considerazione. Anche se si tratta solo di uno spaventapasseri. È qualcosa che aggiunge molto all’esperienza, purtroppo raramente visto negli open world, di solito in balia del sempreverde paradosso “il mondo sta per finire, ma prima passerò settimane a cazzeggiare in lungo e in largo”.

Altri giochi non sfruttano il timer per mettere pressione durante una fase o per un obiettivo in particolare, ma lo rendono parte integrante del design e delle meccaniche lungo tutta la partita. The Legend of Zelda: Majora’s Mask è uno di quelli che più di tutti ha un rapporto viscerale con lo scorrere del tempo. Un cataclisma è in arrivo, ed esattamente dopo tre giorni in-game, ovvero cinquantaquattro minuti reali, sarà tutto finito. Link deve quindi salvare la situazione entro questa scadenza, attraversando contenuti in grado di far durare la partita almeno venti ore. Ovviamente il trucco sta nell’iconica ocarina del tempo, dritta dritta dal precedente capitolo della saga: grazie a essa, potremo riavvolgere il nastro ogni volta che sarà necessario e ricominciare dall’inizio, cancellando quanto accaduto nel frattempo ma forti di nuove conoscenze, alcuni strumenti acquisiti in modo permanente, abilità che aprono a diverse scorciatoie per accelerare la navigazione tra gli scenari. Scopriremo inoltre che a seconda di trovarci nella prima, seconda o terza giornata, di notte o meno, ci saranno numerose differenze nell’ambiente e i suoi abitanti, legando vari eventi a momenti particolari. Il tempo non è più quindi solo un limite e una minaccia distaccata e intoccabile, ma un’entità con varie sfumature, un vero e proprio elemento strategico da gestire, sfruttare a nostro vantaggio, manipolare a piacimento riavvolgendo, rallentando o accelerando il suo flusso. Il controllo è passato in mano nostra, con un’inventiva ed efficacia davvero magnifiche.

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Concludo con un’ultima applicazione dei timer che mi diverte sempre molto, ovvero il loro utilizzo per testare a fondo la nostra competenza. Quale modo migliore per mettersi alla prova e verificare fino a che punto si è interiorizzato un gameplay, se non eseguendone passaggi complessi nel minor tempo possibile? Un sfida prima di tutto con noi stessi, per saggiare la nostra abilità e sentirci padroni del gioco. The Witness ad esempio, dopo averci istruito con cura per diverse ore, ci pone di fronte una prova finale apparentemente brutale: risolvere una lunga sequenza di enigmi casuali (quindi YouTube non vi salverà, furbetti) in pochi minuti. Un grande fastidio, incompatibile con la premessa stessa di un puzzle game, che dovrebbe lasciarci liberi di riflettere con calma, giusto? E invece, proprio per il peculiare design ideato da Jonathan Blow e la capacità di insegnarci a ragionare seguendo i suoi schemi, il suo linguaggio, tutto risulta estremamente onesto e soddisfacente. Anche per merito dell’elegante rappresentazione del countdown: le note di un pezzo classico in filodiffusione, che inizialmente ci cullano, rilassano, ispirano… per poi aumentare di ritmo e intensità man mano che si avvicina la scadenza, in un crescendo che accompagna la nostra euforia nella corsa verso la vittoria.

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