Voglio bene a People Can Fly. Un affetto sbocciato tanti anni fa con Painkiller e proseguito molto dopo con Bulletstorm, lo sviluppatore polacco mi aveva colpito per il suo modo di pensare gli sparatutto e vederlo fuori dalla scena per così tanto tempo non mi faceva ben sperare. L’annuncio di Outriders aveva quindi fatto drizzare le mie orecchie, ma devo ammettere che ho seguito lo sviluppo con un interesse relativamente basso, per due motivi. Il primo è che, molto banalmente, i capoccia originali di People Can Fly hanno abbandonato lo studio durante la loro breve intesa con Epic Games per andare a fondare The Astronauts e annunciare Witchfire, un titolo che personalmente sto aspettando come la venuta del Signore. Il secondo motivo è che Outriders sembrava avere tutte le carte in regola per essere l’ennesimo Game as a Service, andando ad affollare ulteriormente un parco titoli che richiede davvero fin troppa dedizione per quello che deve fare.
People Can Fly ci tiene a rassicurare che non è questo il caso e che il gioco è da intendersi completo e concluso, ma le similarità con Destiny sono abbondanti. È vero, non ci sono le microtransazioni e l’opera può essere goduta totalmente in solitaria, ma è comunque necessario essere connessi ai server di gioco in qualsiasi momento e sono già previsti contenuti aggiuntivi nei prossimi tempi. In futuro vedremo come si evolverà sotto questo aspetto.

Ad ogni modo, che lo si voglia definire un GaaS, un live service, un looter shooter o altro, per quanto mi riguarda Outriders è uno sparatutto e tanto mi basta per approfittare della sua inclusione al lancio sul Game Pass e provarlo sulla mia Series S, palesandosi fin dal principio nella sua interezza. Il gioco infatti è uno sparatutto in terza persona con elementi GDR, dal livello del personaggio e i rami delle abilità al bottino generato proceduralmente e la progressione determinata dalle statistiche.
Esattamente come per un Destiny, un Anthem o un The Division, l’azione si svolge in delle aree esplorabili totalmente prive di interazioni al di fuori dei combattimenti, salvo per l’occasionale barile esplosivo piazzato in giro e l’interruttore per accedere all’area successiva — sia esso un pulsante da attivare o una barriera da sfondare poco importa, tanto la solfa è sempre la stessa dal primo minuto di gioco. Ed è proprio questa struttura a compartimenti stagni che mi ha fatto alzare un sopracciglio, e sempre lo farà finché il genere lanciato da Bungie non deciderà di cambiare: perché l’unica offerta di questi giochi è relegata solo ed esclusivamente ai combattimenti?

Prendiamo ad esempio Anthem, quello che oserei definire l’emblema dei looter shooter fallimentari: abbiamo a disposizione una tuta dalle abilità straordinarie, che possiamo usare per volare in giro in ambientazioni vaste che hanno chissà quante cose da dire… ed è tutto un diorama statico. Lungo la strada si incontrano solo ed esclusivamente creature presenti unicamente per fornire al giocatore un bersaglio a cui sparare e fermarsi saltuariamente a tenere premuto un tasto per raccogliere qualche risorsa che può essere ottenuta in ogni caso smontando due delle migliaia di armi lasciate dai nemici. Non si può distruggere nulla, non si può muovere nulla, non ci sono interazioni con altri personaggi che non conducano unicamente al combattimento, le uniche possibilità di scoperta per il giocatore sono le casse da cui ottenere del bottino generico e — se proprio lo sviluppatore si sente creativo — le note per leggere informazioni sul mondo o sulle vicende, e subito il concetto di “show, don’t tell” vola via dalla finestra.

Ho citato Anthem come esempio, ma queste considerazioni si possono benissimo fare anche per Outriders, la cui maggiore differenza col gioco di Bioware consiste nel mettere da parte il vuoto open world in favore di una struttura a livelli sequenziali, tra i quali ci si può spostare liberamente tramite l’utilizzo del viaggio rapido. Che sia aperto o chiuso poco importa: il mondo di gioco serve solo a fornire aree per i combattimenti e le missioni secondarie non cambiano minimamente questo aspetto; al contrario, si svolgono esattamente allo stesso modo di una qualsiasi missione principale. Non dico che ogni titolo debba avere la stessa complessità di Fallout: New Vegas o Red Dead Redemption 2, ma sono sicuro che sia possibile trovare una via di mezzo che consenta al giocatore di variare la stessa solfa già vista in tante altre produzioni similari e offrire comunque quell’esperienza di farming e crescita della build tipica di questo genere.

In ogni caso, se mezzo articolo è dedicato esclusivamente alle mie lamentele da boomer è per via dei limiti imposti dalla necessità di scomodare l’aritmetica, obbligando il giocatore a dover strutturare la sua esperienza di gioco attorno ai numerini del personaggio, e contestualmente togliendo valore alla sua abilità strettamente manuale. In realtà, messo da parte questo aspetto, Outriders è uno sparatutto più che competente. Anche se il tutorial lo fa sembrare un Gears qualsiasi in cui è necessario l’utilizzo delle coperture, l’approccio è al contrario quello di un più classico run ’n’ gun, in cui ci si butta nella mischia bloccando i proiettili con la faccia e si fa a pezzi chiunque ci si pari davanti nel minor tempo possibile prima di venire soverchiati.
Le abilità delle quattro classi coprono grossomodo gli stessi ruoli presenti in altri giochi (supporto a distanza, tank, incantatore e assalto) e il sistema di salute prevede regole leggermente differenti in base alla classe per recuperare punti vita, ma generalmente l’idea è che il miglior modo per curarsi le ferite è di infliggere quanti più danni possibile, combattendo furiosamente senza bloccarsi dietro un muretto. Tant’è che i nemici esibiscono notevoli capacità nel mettere pressione a un giocatore eccessivamente cauto: restare troppo tempo in copertura significa farsi arrivare una pioggia di granate e le unità più pesanti hanno il compito di avanzare inesorabilmente sparando a tutta forza per stanarci.

Proprio questo approccio a testa bassa consente a Outriders di mettere da parte i dubbi di quegli sporadici momenti dove non si combatte, vuoi perché c’è il filmato espositivo di turno, vuoi perché si perde tempo nei menù per la gestione del personaggio e la forgiatura. Gli scontri hanno un ritmo notevole e l’utilizzo delle abilità in maniera creativa in tandem con le mod — fornite dall’equipaggiamento di fascia rara o superiore — consente al giocatore di personalizzare l’approccio in maniera estensiva e senza troppi limiti. Ed è così che, una volta ottenuto un equipaggiamento abbastanza decente, mi sono ritrovato con un personaggio in grado di teletrasportarsi alle spalle dei nemici per colpirli a corta distanza con un fucile a pompa, che in aggiunta evoca fulmini e i cui colpi letali incendiano i bersagli circostanti, mentre l’armatura conferisce un bonus alla resistenza per ogni nemico afflitto da uno status.
Le combinazioni possibili per ogni classe sono sconfinate e la forgia consente di modificare gli attributi di ogni pezzo dell’equipaggiamento per venire incontro a ogni tipo di build, in modo da non dover per forza sacrificare un buon loot solo perché non possiede le mod giuste o perché è di livello troppo basso per risultare efficace.

Tutto l’aspetto di potenziamento e personalizzazione è il punto in cui People Can Fly crede davvero, che ahimè implica anche alcune limitazioni di fondo: prima su tutte la necessità di bloccare la progressione dietro alle statistiche, a prescindere dall’effettiva abilità del giocatore. Intendiamoci: non sarebbe stato meglio offrire quello che un DOOM sa fare di più sfruttando l’ottimo sistema di combattimento e abilità e rimuovendo la progressione di livelli e statistiche, anche solo per offrire un ventaglio di armi che non spari sempre allo stesso modo?
A parte le mod — che comunque possono essere scambiate nella forgia — due fucili della stessa categoria e variante si comportano esattamente alla stessa maniera, con l’unica differenza data dal valore del dps. Stesso dicasi per la corazza, le cui proprietà possono essere modificate a piacimento salvo per il valore di difesa aggiuntiva offerto al personaggio: così facendo tutto ciò che distingue i pezzi è la resistenza che forniscono e all’aumentare del livello del mondo diventa molto facile morire in un singolo colpo da un attacco non visto. Ok, ci sono dei bonus passivi casuali e alcune limitazioni alla forgia che rendono inevitabilmente necessaria la ripetitiva ricerca del drop ideale, ma tutto questo sistema aritmetico alla fine risulta superfluo quando la capacità di mirare, muoversi e schivare gli attacchi era già sufficiente a fornire una sfida adeguata e un gameplay convincente, magari lasciando intatto il sistema di mod e gli alberi delle abilità.

Quello che sostanzialmente trattiene ancorato al suolo Outriders è insomma l’ossessione moderna nel fornire per forza un’esperienza — falsamente — longeva, in cui si spendono quaranta ore a svuotare ogni angolo del gioco con una varietà praticamente assente; per poi arrivare al post-endgame in un ciclo infinito in cerca di risorse e bottino. In questo caso, i contenuti che ci aspettano dopo i titoli di coda risiedono nella modalità Spedizioni: in pratica bisogna affrontare delle mappe completamente uguali tra di loro (e per estensione identiche a quello che già si fa nella campagna) facendo progressivamente salire il livello di sfida per ottenere ricompense di pari livello. Anche in questo caso, aldilà del numero nettamente maggiore di nemici da affrontare, non c’è niente che sfrutti davvero le meccaniche di gioco e l’azione è ripetitiva esattamente come si presenta fin dal primo minuto della campagna.

Outriders non è un brutto gioco, questo sia chiaro. Trovo solo sprecato il ritmo furioso delle sparatorie e un intelligente sistema di danni se poi avviene tutto in stanze chiuse e statiche, con un level design che non fa nulla per valorizzare le abilità di movimento a disposizione del giocatore e senza offrire nient’altro che dei bersagli a cui sparare. Sono sicuro che molta gente troverà attraente il loop che si va inevitabilmente a formare in questo genere, alternando le sparatorie alle visite in negozio e nella forgia per tirare sempre più in alto tutti i numerini; io invece avrei personalmente preferito un’esperienza più condensata, con una campagna più dinamica e capace di offrire situazioni diversificate. Ma questa è solo una preferenza personale, dettata dall’impossibilità di poter dedicare così tanto tempo in un gioco che in fondo non si impegna poi così tanto nel ricambiare.
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