Night in the Woods: il fantasma della primavera

Night in the Woods è un’opera davvero densa di significati, tanto che non è facile capire da dove sia meglio cominciare per sbrogliare la matassa. Perché non partire dall’inizio? 

Da sempre nei platform, come in generale nei giochi a scorrimento orizzontale, si prosegue da sinistra verso destra. Forse dipende in parte dal fatto che, nelle lingue occidentali (ma anche in giapponese), la scrittura fluisce sul foglio da sinistra verso destra, creando un flusso ordinato sequenzialmente, temporalmente. Quale che sia il motivo, è una prospettiva codificata, naturale, fondamentalmente una “regola” implicita del game design, a cui solitamente neanche pensiamo. Certo, come tutte le regole, è fatta per essere infranta: non a caso Metroid con la sua prima schermata spiazzò tutti costringendo Samus/il giocatore ad andare a sinistra prima di poter proseguire a destra, codificando poi nel corso del gioco il concetto di “backtracking” come forma di avanzamento. Backtracking, ovvero tornare indietro.

Night in the Woods non è propriamente un platform — si salta, ma non è certo quello il focus — tuttavia la scelta della visuale a scorrimento orizzontale non è casuale. Come non è certo casuale il fatto che la prima volta che prendiamo il controllo della protagonista, Mae, dobbiamo muoverci da destra verso sinistra. Mae sta tornando nella sua città natale, Possum Springs. Da dove ancora non ci è dato saperlo, ma quel che è facile intuire è che il suo sia innanzitutto un ritorno al passato. Mae, insomma, sta tornando indietro. 

Night in the Woods: Mae torna a casa
Tornare indietro non è sempre facile.

Weird Autumn

Night in the Woods, d’altra parte, è un gioco che riflette continuamente sul passato e sulla nostalgia di esso, mescolando sapientemente diversi piani: individuale, politico, sociale, esistenziale. Un altro elemento che comunica chiaramente questo tema è la forte attenzione posta dal gioco sulle stagioni, in particolare sul fatto che il gioco si svolga nel corso dell’autunno. L’autunno è la stagione della decadenza, il momento dell’anno in cui le foglie appassiscono e cadono, simbolicamente associata a stati d’animo come nostalgia e malinconia. La nostalgia, in Night in the Woods come nella realtà, è al tempo stesso un comfort e una trappola. Il desiderio di un qualcosa che è stato – o forse neanche – e non è più, uno spettro che può essere paralizzante, impedire di guardare avanti. 

Come in un novello Shenmue bidimensionale, il gioco è strutturato in giorni: Mae – e quindi noi che la controlliamo –  inizia ogni giornata alzandosi dal letto nella sua cameretta, che ha ancora l’aspetto della stanza di un’adolescente. Se vogliamo possiamo controllare il portatile per rispondere a qualche messaggio o per fare una partita a Demontower (un videogioco nel videogioco), oppure possiamo scendere in cucina per chiacchierare con nostra madre prima di uscire di casa. Uscire per fare cosa? Boh.

Se proviamo ad andare verso destra, nei primi giorni troveremo la strada bloccata dai lavori e da un eloquente cartello “STOP”; ma anche successivamente, a lavori conclusi, non troveremo altro se non l’uscita dalla città, che non ci è concessa.
Non possiamo andare avanti, possiamo solo tornare indietro, verso Possum Springs.

Addentrandoci nella cittadina troveremo sulla nostra strada numerosi personaggi, alcuni che fanno semplicemente da sfondo, altri con cui se vorremo potremo interagire, a volte in maniera ricorrente giorno dopo giorno, o a giorni alterni, dando vita a quelle che in linguaggio videoludico potrebbero essere definite delle “sidequest”. All’estrema sinistra della città, dopo un parcheggio abbandonato, una recinzione ci impedisce di avventurarci verso un inquietante bosco. La sera, solitamente dopo delle sezioni che si svolgono in qualche location unica esterna alla città, torniamo a casa, possiamo salutare nostro padre e guardare con lui un po’ di TV, risaliamo in camera e ci infiliamo nel letto per dormire. Rinse and repeat. Siamo bloccati. 

Night in the Woods, Mae dorme

Si viene così a creare una vera e propria routine, intenzionalmente monotona e stagnante. Gli sviluppatori sono stati bravi a creare l’illusione di un mondo che va avanti senza di noi (qui Scott Benson parla anche di come abbiano fatto in modo che le automobili che passano non si ripetano mai), indifferente alla nostra presenza. Così come Mae, che scopriremo molto presto essere tornata a Possum Springs dopo aver lasciato il college, il giocatore non ha veri e propri obiettivi nel suo girovagare per la città, se non il passare del tempo con i propri amici. Anche in termini di struttura narrativa, quello che si potrebbe definire “l’inciting incident” della trama accade praticamente a metà gioco. 

In tutto ciò, quasi nulla di quello che si può fare in città è obbligatorio per proseguire nell’avventura, che infatti ha una durata molto variabile in base a quanto il giocatore decida di esplorare, quanto scelga di interessarsi ai personaggi più o meno rilevanti che popolano Possum Springs. Quanto, insomma, decida di connettersi al mondo di gioco. 

Night in the Woods Gregg e Mae

Il ritorno di Mae nella sua città natale è agrodolce, un ritorno che sa di fallimento, in un luogo che al tempo stesso è l’unico a cui senta di appartenere eppure un luogo diverso da quello che ricorda, infestato dai fantasmi di ciò che è stato. Il mondo è cambiato attorno a lei, continua a cambiare, mentre Mae è bloccata nel mezzo, persa: gli adulti, genitori compresi, la trattano da ragazzina, mentre i ragazzini la distanziano in quanto non la vedono come una di loro. Persino i suoi amici d’infanzia – non certo senza problemi – stanno tentando di andare avanti, facendo i conti con le difficoltà poste dall’età adulta in una cittadina di provincia americana.

 D’altronde, un altro aspetto degno di nota di Night in the Woods sta nel modo in cui rappresenta tematiche relative alla salute mentale. Mae, Bea, Gregg e Angus, a dispetto dell’estetica cartoonesca e del loro essere animali antropomorfi, offrono un ritratto verosimile e sfaccettato del disagio psicologico in varie forme. Ognuno di loro, persino l’esuberante Gregg, nasconde un’interiorità problematica, complessa e non monocorde. Inoltre, il gioco sottolinea lucidamente il legame tra disagio individuale e sociale, rimarcando il ruolo patogeno del contesto e l’importanza di figure di supporto qualificate. È quindi indicativo della situazione fortemente degradata di Possum Springs il fatto che l’unico psicoterapeuta in città, il Dr. Hank, non sia neanche uno psicoterapeuta, ma semplicemente l’unico medico disponibile e che per questo fa un po’ di tutto. Male, naturalmente. 

Night in the Woods, Mae si guarda allo specchio

Die anywhere else

La vera forza dell’opera di Infinite Fall sta in effetti proprio nel fatto che non si limiti alla classica storia di “coming of age”, al dramma di una giovane adulta alle prese con la necessità di trovare un posto nel mondo, bensì che intrecci brillantemente il piano individuale con quello socio-politico. Possum Springs è una città che cambia, persino nel corso del gioco assistiamo alla chiusura di attività e all’apertura di altre, ma proprio come Mae è anche una città irrimediabilmente ferma nel passato. Più che cambiare, in effetti, sarebbe giusto dire che Possum Springs sia nel mezzo di uno strano e lungo autunno, in una lenta decadenza perpetua. 

Le decorazioni della parata primaverile chiuse in uno stanzino abbandonato a degradarsi sono simbolo di una città che sente che i suoi giorni migliori sono solo un ricordo. Un ricordo che va tenuto vivo ad ogni costo, tant’è che Possum Springs è impegnata in una costante glorificazione del suo passato: al centro della città si staglia un memoriale di guerra, mentre nei tunnel della vecchia metropolitana ormai allagata campeggia un murale commemorativo del florido passato da sito minerario della cittadina. Ogni anno, in ottobre, si tiene il festival di Harfest e in particolare una recita in cui viene celebrato il mito di fondazione di Possum Springs. 

Night in the Woods, decorazioni primaverili

La magnificazione del passato è l’oppiaceo che si oppone a un contesto odierno di forte degrado, in cui molte delle storiche attività locali sono fallite e sono state sostituite da punti vendita di enormi catene multinazionali, mentre il fulcro dell’attività economica della zona, ovvero le miniere, sono state chiuse lasciando moltissimi nella disoccupazione. La vecchia metropolitana allagata è percorsa da vaporetti che vanno in cerca di oggetti di valore nelle montagne di immondizia che riempiono i canali.

A Possum Springs, la magnificazione del passato è l’oppiaceo che si oppone al degrado odierno

Un tempo punto di passaggio, Possum Springs ha visto la sua economia venir strangolata anche dalla costruzione di un’autostrada che circonda la città come un serpente, cosa testimoniata dall’enorme parcheggio ormai inutilizzato che giace ai suoi margini insieme a uno dei tanti edifici abbandonati. In tutto questo, i giovani – almeno quelli che se lo possono permettere – scappano via in cerca di condizioni migliori, mentre chi resta è costretto a sopravvivere tra stipendi da fame e spese insostenibili, facendo lavori alienanti, privi di potere contrattuale. 

Sono – purtroppo – temi familiari e facilmente comprensibili a chiunque viva nella società capitalista odierna, ma Night in the Woods è un gioco fortemente radicato nel contesto statunitense e in particolare nella cosiddetta “Rust Belt”, dove sono cresciuti due dei tre autori del gioco (Scott Benson e Bethany Hockenberry). La “cintura di ruggine” è quella zona del nordest degli Stati Uniti che nell’ultimo secolo è passata da una fase di forte boom economico, essendo il cardine dell’industria manifatturiera americana, a una fase di profonda crisi e declino che perdura ancora adesso, con caratteristiche non dissimili da quelle descritte a proposito della fittizia Possum Springs. 

Night in the Woods, poesia Selmers

Gli autori, lungi dal romanticizzare il boom economico come un’utopica età dell’oro in cui tutto andava bene, ne affrontano invece la portata problematica e soprattutto i rischi di un nostalgismo acritico. Emblema di questo nostalgismo è innanzitutto il consiglio cittadino di Possum Springs, disperatamente alla ricerca di modi per rendere la città nuovamente appetibile e attrarre così investitori, visti come la panacea di ogni male. Insomma, poco ci manca che esclamino “Make Possum Springs Great Again”; e poco importa se per inseguire questo miraggio un senzatetto è costretto a stare al gelo e poi ad andar via dalla città: d’altronde ospitarlo nella chiesa potrebbe essere cattiva pubblicità per la cittadina. 

Non solo questo approccio è decisamente poco etico, manca del tutto il bersaglio. Il gioco non si nasconde dallo schierarsi politicamente, sottolineando non soltanto come l’età dell’oro non tornerà, ma che anzi non è mai stata d’oro. I meccanismi che producono il degrado attuale sono gli stessi che hanno prodotto il benessere precedente, e ogni diritto è stato conquistato con le unghie e…con i denti (wink wink per chi ha giocato e sa). 

Al centro di tutto questo marasma: un buco. 

Night in the Woods, sogno di Mae

Da qui in avanti dovrò per forza di cose citare eventi che fanno riferimento al finale di Night in the Woods, quindi siete avvisati. 

At Night, in the woods

Il buco al centro di tutto è un po’ il fulcro gravitazionale intorno a cui convergono tutti i fili tematici del gioco. Ma cos’è questo buco? Innanzitutto, il buco è concreto: la città sta letteralmente sprofondando, lentamente, nelle strade e nelle campagne si aprono voragini a causa delle vecchie gallerie minerarie abbandonate e plausibilmente maltenute. L’elemento allegorico è piuttosto palese: il sistema ha scavato, sfruttato, preso ciò di cui aveva bisogno e abbandonato la zona appena c’è stata la possibilità di avere manodopera a costo più basso altrove, costruendo una gloriosa e transitoria illusione su fondamenta vuote. Sul nulla. 

Il buco rappresenta però anche altro. Nella seconda metà di Night in the Woods, dopo aver assistito a un rapimento, Mae e i suoi amici vanno a caccia di quelli che lei crede essere dei fantasmi. Guarda caso, i luoghi in cui si ritrovano per cercare indizi sono tutti luoghi con un forte legame col passato: un cimitero, ovviamente, ma anche una società storica e un parco in cui permangono tracce calcaree di un tempo in cui la collina era sommersa. Alla fine i fantasmi si rivelano essere tutt’altro che paranormali, bensì un culto di vecchi nostalgici che vogliono riportare Possum Springs all’antico splendore (anche qui gli echi trumpiani non sono flebili). 

Night in the Woods, il culto

Il soprannaturale, in ogni caso, fa capolino eccome in un finale che per molti ha rappresentato un cambio di tono repentino, ma che invece trovo si inserisca perfettamente nel contesto del gioco costituendone la naturale conclusione tematica. Il culto si riunisce attorno a un vero e proprio buco senza fondo, nel quale pare celarsi una divinità lovecraftiana chiamata “Black Goat” (probabilmente un riferimento alla “Black Goat of the Woods”, anche detta Shub-Niggurath, dello stesso Lovecraft), che promette prosperità a Possum Springs a patto di essere nutrita con sacrifici umani. Ovviamente, sempre per restare in tema con l’allegoria politica, il culto decide che il modo migliore per nutrire questo pozzo senza fondo di paura, angoscia e spaesamento è dargli in pasto gli ultimi, i dimenticati, quelli che a detta loro non mancheranno a nessuno e che tanto non avrebbero concluso nulla nella vita. 

In uno dei ricorrenti incubi che viviamo nei panni di Mae ogni notte, ci troviamo a interagire con una entità cosmica dalle sembianze feline, che dichiara lapidariamente la non esistenza di un significato nell’universo, men che meno di un Dio. Siamo atomi, e i nostri stessi atomi non sono interessati alla nostra esistenza. Alla fine anche l’ultima foglia cadrà, tutto sprofonderà nel buco al centro di tutto e sarà dimenticato. Il buco è un simbolo dell’entropia, della mancanza di senso, dell’angoscia esistenziale data da un universo freddo e indifferente, della sensazione di non avere più un posto nel mondo. In questo senso è davvero al centro di tutto, la metafora unificante che accomuna Mae, il culto e Possum Springs stessa, tutt’altro che una svolta dissonante nella narrazione.

Night in the Woods, incubo di Mae

Il giorno dopo questo incubo, se ci rechiamo in chiesa, Mae cerca di avere rassicurazioni dalla pastora K; non ricevendone, ma anzi scoprendo che lei stessa talvolta nutre dei dubbi, va su tutte le furie. È il crollo delle grandi e rassicuranti impalcature di senso che caratterizza la nostra epoca, tra cui la religione come l’ordine sociale, che lascia gli individui in uno stato di confusione e angoscia. È da questa angoscia che trae nutrimento la metaforica “Black Goat”, portando Mae nei suoi episodi di depersonalizzazione/derealizzazione a vedere il mondo e le altre persone come “solo forme”, come gli ammassi di pixel del videogioco a cui stava giocando la prima volta che le successe. Senza significato, quindi sacrificabili. Esattamente come per il culto. 

A salvare Mae dal baratro, almeno temporaneamente, sono i rapporti che ha stretto, le persone con cui ha scelto di connettersi: Gregg, Angus, Bea. Con chi passare il proprio tempo, e di conseguenza con chi legare di più, è del resto l’unica scelta realmente significativa che il gioco ci concede di fare, nel mezzo di opzioni di dialogo per lo più cosmetiche se non proprio atte a sottolineare la nostra mancanza di controllo. Lo spazio nero tra le stelle, come viene rappresentata la Black Goat nel suo faccia a faccia con Mae, può essere terrificante e farci sentire isolati. Ma come le stelle possono connettersi e formare costellazioni, lo stesso vale per noi. 

Night in the Woods, notte stellata con Angus

Le stelle sono un aspetto su cui Night in the Woods pone spesso l’attenzione, a partire dalla loro presenza sullo sfondo in ognuno degli incubi di Mae. Sia nelle conversazioni col signor Chazokov – che possiamo raggiungere sul suo tetto ogni due giorni per cercare costellazioni col suo telescopio – sia nella serata con Angus al parco, emerge come le stelle possano rappresentare proprio quel pattern di significato che sembra sfuggirci. Nel buio della notte nei boschi, le stelle forse possono essere la luce che ci guida. Ognuna singolarmente è un puntino isolato nel buio nero pece dello spazio profondo, ma connettendole con le altre possiamo creare delle forme a cui attribuire un senso. Nonostante intrinsecamente le costellazioni non abbiano alcun significato, come probabilmente tutto il resto dell’esistenza, possiamo essere noi a dargliene uno. 

We’re good at drawing lines through the spaces between stars like we’re pattern-finders, and we’ll find patterns and we like really put our hearts and minds into it and even if we don’t mean to. So I believe in a universe that doesn’t care and people who do.

Angus
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  • Luca “Hayabusa” Sapora

    Ossessivo compulsivo cronico, perennemente combattuto tra la voglia di approfondimento e lo sconfinato backlog, che sembra solo crescere.

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