Il 2019 videoludico penso sia stato un po’ per tutti “l’anno di Kojima”. Quando leggerete queste righe sarà l’8 novembre e molti di voi – come me – starete inserendo il disco di Death Stranding nella vostra console, curiosi di intraprendere questo viaggio per “riconnettere” il mondo. Dico che è stato l’anno di Kojima perché, al di là che vi interessi o meno Death Stranding, è innegabile che pochi giochi nel recente (ma anche meno recente) passato siano riusciti a catalizzare in questo modo l’attenzione mediatica, generando fiumi e fiumi di discussioni ben prima che ci fossero elementi concreti su cui basarle. Per me però il 2019 è stato l’anno di Kojima anche più che per gli altri, dato che, sulla spinta del fascino fuori dal comune che trasudava da ogni presentazione di Death Stranding, ho deciso di fare qualcosa che mi proponevo da tempo: recuperare tutta la Metal Gear Saga.
E così negli scorsi mesi mi sono immerso nel mondo creato da Hideo Kojima, partendo dai capitoli per MSX per arrivare al controverso The Phantom Pain, passando per l’immortale primo capitolo 3D, il visionario Sons of Liberty, il turbine di fanservice di Guns of the Patriots, il fumettoso Peace Walker e ovviamente il gioco di cui vi parlerò oggi, ovvero Metal Gear Solid 3: Snake Eater.
Premetto che da qui in avanti ci saranno, inevitabilmente, spoiler.

Se pescaste a caso un campione di videogiocatori e gli chiedeste “qual è IL capolavoro di Hideo Kojima?” tendenzialmente le risposte più gettonate sarebbero due: il primo MGS per PS1, oppure Snake Eater.
Metal Gear Solid nel lontano 1998 colpì il mercato videoludico come un fulmine a ciel sereno, rappresentando un passo importante nell’evoluzione del medium e proiettando il nome di Hideo Kojima tra i più celebri in circolazione.
Metal Gear Solid 3: Snake Eater arrivava sul mercato nel 2004 in un contesto ben diverso, principalmente perché veniva dopo uno dei titoli probabilmente più controversi di sempre, ovvero Sons of Liberty. Al netto di un enorme successo di critica e vendite, il secondo capitolo venne molto criticato per alcune scelte artistiche e di design che lo rendevano legittimamente indigesto a una buona fetta di videogiocatori, che avrebbero voluto semplicemente un seguito “classico” delle vicende di Solid Snake.
Lo dico chiaro e tondo: considero Sons of Liberty un capolavoro, uno dei videogiochi più affascinanti e degni di riflessione di sempre, e tuttora se dovessi dire quale sia il mio MGS preferito mi troverei in netta difficoltà a dover scegliere tra quest’ultimo e Snake Eater, nonostante il terzo capitolo sia superiore in molti aspetti.
Il punto, in ogni caso, è che dopo le polemiche relative al secondo capitolo Kojima, che probabilmente non avrebbe neanche voluto continuare la saga a quel punto, non si trovava in una situazione comodissima. Abbandonati quindi i tratti più “sperimentali” e folli, l’autore giapponese ha tirato fuori dal cilindro un titolo per molti versi più classico e che in qualche modo desse ai fan ciò che volevano, svincolandosi dal dare un seguito al finale di Sons of Liberty (cosa che avrebbe poi affrontato, con alterne fortune, nel quarto capitolo) con un prequel.
Niente più protagonista androgino, stavolta il giocatore è messo nei panni niente poco di meno che del “Legendary Soldier” Big Boss; niente più chiamate codec che spezzano il ritmo con discutibili conversazioni con un’irritante fidanzata, stavolta ci si trova davanti a un ritmo più sostenuto (quanto meno per la media dei MGS) e a chiamate codec per lo più opzionali con un cast di comprimari estremamente “likeable”; niente più pippotti pseudo-filosofici/sociologici e ardite trovate meta-ludiche, ma una storia dall’impatto più immediato ed esplicito.
Questo non significa che a Snake Eater manchi di profondità, anzi è proprio caratteristica principe dei titoli di Kojima la possibilità di fruirli a più livelli di lettura, aspetto in cui è semmai Sons of Liberty a fare parzialmente eccezione. Ma è innegabile che Snake Eater sia per molti versi il Metal Gear Solid più immediato e godibile.

Uno dei motivi principali per cui Metal Gear Solid 3 è il più apprezzato da moltissimi fan è che rappresenta un netto passo in avanti per la serie da un punto di vista “ludico”. Rispetto agli angusti corridoi di Shadow Moses e alla asfissiante circolarità della Big Shell, la regione di Tselinoyarsk offre una varietà di ambientazioni nettamente superiore e aree tendenzialmente ben più ampie. Al tempo stesso Snake Eater introduce per la prima volta nella serie quell’approccio parzialmente sandbox, caratteristica che troverà poi la sua massima espressione in The Phantom Pain (solo quella, tristemente), che dà al giocatore una certa libertà nello scegliere tra le numerose possibilità di approccio.
La telecamera alle spalle, a dire il vero introdotta nella versione Subsistence, bilancia la maggior ampiezza delle aree e la rinnovata vista delle guardie consentendo di fare a meno del Soliton Radar, mentre il sistema di camouflage introduce un elemento di mimetizzazione perfetto per il setting naturale. L’ecosistema di flora e fauna che abita le location oltre che sfondo si fa elemento di gameplay, infondendo al gioco una venatura survival e costituendo esso stesso mezzo offensivo, dal momento in cui si può utilizzare del cibo andato a male per intossicare i nemici, o lanciargli contro dei serpenti velenosi.
Fa la sua comparsa il celebre CQC, ormai tra gli emblemi della serie, che consente tra le altre cose di interrogare i nemici per scoprire la posizione dei suoi compagni o di particolari oggetti, o frequenze radio per annullare le allerte o per chiamare attacchi aerei. Si possono distruggere dei magazzini in determinate location per ridurre le scorte dei nemici in aree successive, o far saltare in aria un elicottero che sarebbe poi venuto a importunarci.
Insomma, le possibilità sono davvero tante e il risultato è un gameplay ben più dinamico rispetto ai primi due MGS.
Anche le boss fight, altro elemento che ha da sempre caratterizzato la serie, godono di una qualità media fuori dal comune e costituiscono la proverbiale “ciliegina sulla torta”, una torta davvero ricca. In particolare non posso non citare lo scontro tra cecchini con The End, probabilmente la miglior boss fight stealth mai fatta, che sfrutta tutte le meccaniche del gioco per offrire un combattimento lungo e libero che prende luogo in più aree interconnesse.

Se è vero che un’altra caratteristica inconfondibile della produzione di Kojima è il costante riferimento a elementi di “cultura pop” e principalmente a fonti cinematografiche, le radici di Snake Eater vanno senza dubbio rintracciate nel filone degli “spy movie” di Bondiana memoria, come si capisce già dallo splendido main theme.
C’è tutto: la guerra fredda, il russo cattivo, la femme fatale dai vestiti succinti e le forme in evidenza, l’agente triplogiochista, e si potrebbe continuare.
Lungi dall’essere banale però Kojima rimescola questi elementi e li marchia con la sua precisa impronta stilistica, utilizzandoli per raccontare una storia avvincente e che a un livello di lettura più profondo nasconde tematiche rilevanti, in continuità con quanto visto nei precedenti capitoli.

Snake Eater oscilla costantemente tra toni seriosi e leggeri. Da un lato abbiamo poteri soprannaturali, quel mix di ridicolaggine e trovate over-the-top tipicamente giapponese e varie tipologie di comic relief (come lo smodato interesse di Snake per la commestibilità di qualsiasi cosa veda). Dall’altro c’è la descrizione minuziosa di un contesto socio-politico semi realistico pieno di riferimenti storici, eventi drammatici e riflessioni sulla guerra, la pace e la relatività del concetto di “nemico”.
Un momento prima si stava evitando lo sguardo di una guardia chiudendosi in una scatola di cartone, o si assisteva a Revolver Ocelot che per chiamare la sua unità simula il miagolio di un Ocelot stesso, mentre un momento dopo si sta risalendo per un torrente nebbioso attorniati dagli spettri dei nemici che abbiamo ucciso durante il gioco, in una delle migliori rappresentazioni videoludiche degli orrori della guerra.
Metal Gear Solid non è una serie nuova a tematiche impegnate, che hanno spaziato dai condizionamenti genetici a quelli ambientali e al controllo delle informazioni, ma la critica alla guerra ha sempre avuto un posto speciale al suo interno, immancabile praticamente in ogni capitolo.
Snake Eater è per certi versi un titolo intimista, una storia di crescita e formazione di un soldato che deve affrontare le sfaccettate emozioni che si provano sul campo di battaglia, per poter infine capire quale sia il suo scopo, la sua visione del mondo.
È anche un titolo che vuole trasmettere un messaggio fortemente attuale, che Kojima continuerà a sviluppare nei capitoli successivi della serie e, con tutta probabilità, anche in Death Stranding.

Il momento della morte di The Boss è in assoluto il momento pivotale della Metal Gear Saga, il punto da cui idealmente tutto prende avvio, e mi piace pensare che in fondo sia anche la radice e la sintesi del messaggio di Kojima.
The Boss si sacrifica per il suo ideale di pace, in un mondo devastato dalle guerre, dopo aver realizzato che, in fondo, “la Terra di per sé non ha confini” e che “politica, economia, corsa agli armamenti – sono tutte arene per una competizione senza senso”.
Come suggerito in questo interessante articolo, è possibile vedere un “ponte” tra le riflessioni di Sons of Liberty, Neon Genesis Evangelion e quello che sembra volerci raccontare Death Stranding sull’importanza della comunicazione e della collaborazione tra esseri umani. Ma è altrettanto possibile vederne uno tra quel campo di fiori bianchi, che tragicamente si tinge di rosso come se la natura stessa sanguinasse insieme a The Boss, e il mondo devastato dal “Death Stranding”.
In un mondo – e stavolta parlo di quello vero, dove viviamo tutti i giorni – in cui si continuano a ergere muri, forse Kojima sta cercando in tutti i modi di insegnarci il valore della connessione.

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