Ma perché nel 2023 ci sono stati così tanti licenziamenti?

Per il mondo dei videogiochi, il 2023 è stato un anno segnato da una grande contrapposizione. Da un lato, ha visto la pubblicazione di numerosi giochi accolti da un giudizio di critica e pubblico estremamente favorevole, molti più di quanti siano stati negli anni precedenti. Alcuni di questi sono gli ultimi rappresentanti di serie molto amate e apprezzate: è il caso, giusto per citarne qualcuno, di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom e di Super Mario Bros. Wonder, entrambi di Nintendo, di Street Fighter 6 e del remake di Resident Evil 4 di Capcom, e di Baldur’s Gate 3 di Larian Studios. Ci sono stati anche titoli che non contavano su un nome dalla tradizione ultraventennale, ma questo non ha loro impedito di ricevere un’accoglienza molto positiva: parliamo di giochi come Hi-Fi Rush di Tango Gameworks, di Lies of P di Round 8 Studio (una particolare rivisitazione in chiave steampunk della storia di Pinocchio), di Sea of Stars di Sabotage Studio e di Cocoon di Geometric Interactive, che sono solo i primi a essermi saltati in mente. In realtà la lista è parecchio lunga, ma già questi bastano per far passare l’idea: quest’anno è stato ricco di giochi di qualità.

La contrapposizione non riguarda i videogiochi in sé anche se ne è strettamente legata. Il 2023 è infatti stato allo stesso tempo un anno terribile per l’industria dei videogiochi. Ad oggi – e la lista è in continua esp— dicevo, in continua espansione – si stima che circa 7.800 dipendenti del settore siano stati licenziati. Un numero fuori dal comune per gli standard degli ultimi anni, e che include non solo chi lavora direttamente ai videogiochi (programmatori, scrittori, artisti eccetera) ma anche chi fa parte di tutto ciò che ruota attorno (QA, marketing, PR, localizzazione). Questa ondata di licenziamenti lascia ancora più perplessi se si pensa che quello dei videogiochi è un mercato enorme, che globalmente conta più di due miliardi e mezzo di giocatori e circa 220 miliardi di fatturato e per cui le previsioni sono di continua crescita. Chiaro, è importante fare distinzione fra la parte del mercato orientata ai dispositivi mobili, maggioritaria e che risponde a regole diverse, e quella orientata a console e PC casalinghi, più centrale per quanto riguarda questo articolo, ma il discorso non cambia: i videogiochi sono un business che fa girare un sacco di soldi. E capire cosa sia andato storto nel 2023 non è così immediato come potrebbe sembrare.

COSTI E BENEFICI

Partiamo con una importante parentesi: sviluppare un videogioco tripla-A – termine generico e non ben definito che nell’industria videoludica indica un titolo dai valori di produzione elevati – costa tantissimo. A differenza di quanto accade nel cinema, dove sapere quanto sono venuti a costare i film più famosi è ad appena una ricerca su Google di distanza, i produttori di videogiochi sono più cauti nel condividere questi numeri. Ma un recente leak ci ha permesso di venire a conoscenza del budget di due dei titoli più importanti pubblicati da Sony negli ultimi anni: The Last of Us Parte 2 è arrivato a costare 212 milioni di dollari, mentre Horizon: Forbidden West ne è costati circa 200. Con il lievitare dei costi e dei tempi di produzione, che per i tripla AAA generalmente richiedono minimo tre anni di lavoro ma spesso molti di più, aumentano anche i rischi in caso di fallimento commerciale e diventa più difficile avere un buon utile sugli investimenti. Una prospettiva sulla questione costi ci arriva da una mail spedita internamente da una personalità di primo piano dell’industria, il capo della divisione videoludica di Microsoft Phil Spencer, che sottolinea come i costi sempre più alti abbiano portato a conseguenze anche dal punto di vista creativo: “il tasso di rendimento di nuove IP a questi elevati valori di produzione ha portato a un’avversione al rischio connesso alla creazione di nuove IP da parte dei grandi publisher”, spingendoli quindi ad appoggiarsi sempre più a proprietà intellettuali preesistenti come Star Wars o Spider-Man.

L’aumento dei costi di sviluppo è un processo graduale, il cui motivo principale può essere individuato nella resa grafica sempre più realistica dei videogiochi di punta della varie piattaforme, scelta giustificata anche dalla volontà di avere un appeal che vada al di là del pubblico tradizionale, tramite la “cinematografizzazione” del comparto narrativo. Tendenza che si riflette anche nel coinvolgimento di volti noti del piccolo e grande schermo: emblematici sono i casi di Norman Reedus e Mads Mikkelsen in Death Stranding – Hideo Kojima non ha mai fatto mistero della sua volontà di unire videogiochi e cinema – e, più di recente, di Idris Elba in Cyberpunk 2077: Phantom Liberty.

NARRATIVE CONTRASTANTI

Ma torniamo alla questione licenziamenti. Quando emerge la notizia del ridimensionamento interno o della chiusura di uno studio di sviluppo, due sono le narrative che vanno per la maggiore fra i videogiocatori. La prima tende a concentrarsi sulla – vera o presunta – incompetenza degli sviluppatori e sulla scarsa qualità dei loro giochi, o sull’incapacità di andare incontro ai desideri dei giocatori. L’altra, invece, guarda più in alto, alle executive board accusate di avere il profitto come unico impulso per le loro decisioni, e alla loro incapacità di assumersi davvero la responsabilità di un progetto andato male. In entrambi i casi, si tratta di narrative che contengono un fondo di verità. È quasi superfluo specificare che fare giochi brutti e che non generano profitto (tramite l’acquisto diretto o le microtransazioni) non sia la migliore strada per garantire il perdurante successo di uno studio di sviluppo; tanto per fare un esempio di un paio di anni fa, è il caso di V1 Interactive, che dopo aver passato cinque anni a lavorare a Disintegration si è vista costretta a chiudere i battenti a poca distanza dal lancio del gioco, rivelatosi un insuccesso commerciale (Marcus Lehto, boss dello studio e co-creatore di Halo, in compenso è caduto in piedi). E anche a puntare il dito contro le C-suite non è detto che si sbagli: nel messaggio in cui il fondatore e CEO di Epic Games Tim Sweeney ha comunicato il licenziamento di 830 persone, circa il 16% dei dipendenti della compagnia, ha anche ammesso che “ultimamente, abbiamo speso più di quanto incassiamo”. Parte di queste spese sono legate alle varie battaglie legali che Epic ha deciso di intraprendere, ultima delle quali quella contro Google.

Giusto per non dimenticare a che punto siamo arrivati.

Da sole, queste due spiegazioni però non sono sufficienti a giustificare l’ondata di licenziamenti che, da inizio 2023 fino ad oggi, ha investito il settore. Per meglio capire a cos’è dovuta bisogna fare qualche passo indietro, fino al 2020, l’anno in cui il Coronavirus è diventato familiare anche all’Europa e all’America, e in cui i settori produttivi di tutto il mondo hanno dovuto rallentare. Non tutti, però: per l’industria dell’intrattenimento, videogiochi inclusi, il fatto che milioni di persone dovessero passare settimane chiuse in casa ha portato a un’esplosiva crescita del fatturato. A confermare questa tendenza ci pensa un recente articolo di Gamesindustry, che evidenzia come rispetto al 2019, la quantità di giochi venduti fu significativamente più alta, anche tenendo conto del trend dell’industria, crescente già prima di quella data. Naturalmente, con il 2022 l’effetto della pandemia ha iniziato a esaurirsi e il trend si è normalizzato. Gamesindustry cita dati basati sul mercato inglese, ma in Italia la situazione si è sviluppata in modo simile, come possiamo vedere dall’annuale rapporto di IIDEA, l’associazione italiana di sviluppatori di videogiochi: nel 2020, il giro d’affari è stato di 2.179 milioni di euro (+21,9% rispetto al 2019); nel 2021, di 2.243 milioni di euro (+2,9% rispetto al 2020); nel 2022 siamo arrivati a 2.200 milioni di euro, un calo dell’1.2% rispetto al 2021.

L’improvvisa ascesa dell’interesse per i videogiochi ha portato con sé maggiori investimenti nel settore e una volontà di espansione di molti protagonisti più e meno grandi, sia tramite assunzioni che tramite acquisizioni di studi già esistenti. In questo senso, particolarmente eclatante è stato il caso di Microsoft, che nel gennaio 2022 ha comunicato di aver dato il via al processo di acquisizione di Activision-Blizzard-King, un affare portato a termine solo lo scorso ottobre e che è costato al colosso della tecnologia 69 miliardi di dollari. Non si tratta in ogni caso dell’unica acquisizione avvenuta di recente; la lista è davvero lunga, ma ci tengo a segnalare in particolare l’acquisizione di Zynga da parte di Take-Two Interactive (12,7 miliardi di dollari) e quella di Bungie da parte di Sony (3,6 miliardi di dollari). Naturalmente, questa volontà di espansione ha dovuto scontrarsi con la decrescita a cui il mercato è andato incontro in seguito al boom del 2020, e non tutti gli attori sono arrivati adeguatamente preparati a questo sviluppo. Ma anche questo basta solo in parte a spiegare l’ondata di licenziamenti.

ECONOMIA DI GUERRA

Potrà forse sembrare strano, ma il prossimo punto è legato all’invasione russa del suolo ucraino, che ha preso il via nel febbraio 2022. Per l’industria dei videogiochi, l’acuirsi di questo conflitto iniziato nel 2014 non è stato privo di conseguenze: l’Europa dell’est è infatti ormai da qualche tempo uno scenario molto prolifico per quanto riguarda la produzione videoludica. Fra gli studi coinvolti direttamente dagli eventi bellici, possiamo ricordare GSC Game World e Frogwares, entrambi con sede a Kyiv. I due studi hanno rilasciato dei video che spiegano come gli attacchi russi abbiano causato rallentamenti nel processo di produzione dei loro videogiochi, rispettivamente S.T.A.L.K.E.R. 2: Heart of Chornobyl e Sherlock Holmes The Awakened. Anche studi non coinvolti direttamente hanno deciso di dire la loro, con le importanti prese di posizione di alcune grandi compagnie: Nintendo, Epic e Activision hanno deciso di cessare la vendita dei loro prodotti sul territorio russo, ed EA ha annunciato che il suo FIFA 23 non avrebbe incluso né squadre russe né la nazionale russa.

In maniera meno diretta, la guerra russo-ucraina, con la conseguente limitazione dell’esportazione di grano e di gas, ha avuto conseguenze sull’economia occidentale, esacerbando la crescita dell’inflazione che già aveva preso il via in seguito agli stimoli all’economia distribuiti da vari stati per aiutare la ripresa post-Covid. Il cosiddetto caro-vita non è andato solo a colpire le famiglie, ma anche i costi sostenuti dalle imprese; in particolare, il rincaro dei prezzi dell’energia non è certo andato a favore di un’industria ad alta informatizzazione come quella dei videogiochi. In aggiunta, l’aumentare dell’inflazione ha spinto le istituzioni bancarie ad adottare misure come l’aumento dei tassi d’interesse. Particolarmente rilevante è il caso statunitense, visto che molti dei più grandi studi di videogiochi hanno sede proprio lì. È il caso di Microsoft e di molte delle sue sussidiarie (in particolare Bethesda e Activision-Blizzard), di molti studi interni di Sony (come per esempio Naughty Dog, Sony Santa Monica, Insomniac Games), di Epic Games, di Electronic Arts e di Rockstar Games. E negli USA i tassi d’interesse della Federal Reserve hanno raggiunto i livelli più alti degli ultimi 15 anni. Perché questo è importante? Semplificando di molto la questione, quando i tassi di interesse sono bassi prendere in prestito denaro “costa” meno, e quindi anche le imprese sono incentivate a espandersi; quando i tassi si alzano, le imprese tendono ad agire in maniera più conservativa, cercando di limitare le spese. E uno dei modi più rapidi di limitare le spese è, da sempre, licenziare personale.

È importante tenere a mente che questo riassunto, per quanto provi a dare una visione d’insieme, non è una spiegazione esaustiva. Esistono casi particolari, come quello dell’holding svedese Embracer Group, che in seguito alla mancata entrata in porto di un’iniezione di capitale da due miliardi di dollari da parte dei fondi d’investimento sauditi si è trovato alle strette ed è corso ai ripari con tagli e ridimensionamenti, portando fra le altre cose anche alla chiusura di Volition, studio autore di Red Faction e Saints Row; e fra chi di recente ha lasciato il posto c’è anche Egil Strunke, Chief Operating Officer di Embracer. O quello di Mimimi Games, piccolo studio di sviluppo tedesco che dopo aver pubblicato tre giochi molto apprezzati da pubblico e critica (Shadow Tactics, Desperados III, Shadow Gambit) ha chiuso citando, fra gli altri motivi, lo stress dovuto alla continua ricerca di finanziamenti. Ma nel complesso l’immagine è chiara: usando un linguaggio che farebbe infuriare il morettiano Michele Apicella, quella che l’industria videoludica si è trovata di fronte è una vera e propria tempesta perfetta. Una serie di cause, alcune già da tempo presenti al suo interno e altre esterne e imprevedibili, che hanno portato all’ondata di licenziamenti senza paragoni nella storia recente che abbiamo visto durante quest’anno.

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  • Marco "Brom" Bortoluzzi

    Vive in mezzo ai monti del Trentino, brontola un sacco, però alla fine non è cattivo, sul serio. Basta che non parliate male di Borderlands in sua presenza.

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