La distanza tra videogiochi e fumetti

Una relazione a distanza

Quando mi è stato presentato l’argomento del mese la prima sensazione che mi è salita è stata la malinconia. Nonostante io sia un appassionato fruitore di universi narrativi che saltano tra differenti media, mi ritrovo purtroppo a constatare che i fumetti, specie quelli occidentale, tendono ad essere una bolla chiusa. Il che non è anomalo; il pubblico del fumetto è molto meno numeroso di quello del cinema e del gaming, nonché dai gusti molto più specifici. Non aiuta lo stereotipo popolare di considerare il fumetto come una cosa “da nerd”, un sottoprodotto della letteratura con minor valore artistico in partenza.

Ma benché venga spesso considerato come un sottoprodotto del libro, la realtà è più sfumata. Il fumetto è una forma d’arte indipendente che sarebbe esistita a prescindere da ogni altra e che da una certa prospettiva addirittura precede la letteratura d’intrattenimento. Tutto dipende ovviamente dalla definizione di partenza che gli si dà, definizione che è tuttora oggetto di discussione tra la critica di settore. Se consideriamo fumetto come “immagini in successione che raccontano una storia”, potremmo andare a ritrovarlo persino su antiche pitture rupestri. Ma per avvicinarci un po’ alla nostra epoca e a ciò che possiamo ritrovare dei fumetti nel media videoludico, facciamo che in questo articolo il fumetto è “immagini e segni in successione che raccontano una storia”. Sto scrivendo segni e non parole perché non è detto che essi vogliano rappresentare sempre conversazioni o qualcosa da leggere. A volte sono onomatopee volte a rappresentare suoni, altre volte sono linee cinetiche che simboleggiano la velocità di un’azione. Segni che non sono “dentro” la scena e non vanno letti, ma servono per meglio comunicare al lettore la situazione in corso. E cosa sono le parole se non segni che, in sequenza, ci danno una combinazione in cui riconosciamo un significato pronunciabile?

A volte le parole sono lunghi dialoghi tra i personaggi, a volte descrizioni più o meno estese, a volte sono ridotti al minimo come nelle storie di Tsutomu Nihei, lasciando che sia la narrazione ambientale a esprimersi. Ma nella percezione comune è difficile immaginare di sfogliare un fumetto senza una danza tra segni e disegni.

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Personaggi silenziosi, architetture incomprensibili. Blame! di Tsutomu Nihei è tutt’ora uno dei manga più criptici da affrontare.

Tra ispirazioni dirette…

Cos’ha a che fare questo con il gaming? Beh, posso dare due risposte radicalmente diverse a seconda se, al momento della domanda, sto giocando a un gioco occidentale o a uno giapponese. Nel primo caso direi un laconico “…quasi niente”. Nel secondo vedrei un movimento artistico entusiasta e neanche tanto di nicchia. Ho pensato a lungo ai motivi di questa differente vicinanza e non credo di averli mai capiti. Però posso condividere alcune impressioni a cui sono giunto. Penso che nel gaming giapponese i JRPG abbiano avuto un ruolo connettivo molto efficace tra manga, anime e videogiochi, tanto che non sarebbe strano trovare opere partite in un media e poi adattate nelle altre due forme.

Da dove viene questa connessione? Beh, prima di tutto da simili archetipi di storytelling. Se prendiamo la celebre saga di Persona di Atlus come riferimento troviamo moltissimi tratti comuni con altre storie nate dal Sol Levante. Studenti che loro malgrado si ritrovano in mano grandi poteri e responsabilità, pose molto espressive, momenti leggeri anche nel bel mezzo del dramma. Ma c’è di più: nei JRPG abbiamo sempre letto molto. Prima che arrivasse il voice acting ai personaggi li vedevamo esprimersi attraverso i loro balloon, in lunghi scambi di battute. E non contenti, quando in battaglia eseguivano attacchi speciali avremmo sempre visto il nome di questi all’inizio dell’azione. Ci sono queste improvvise esplosioni di energia, di atmosfera “anime” e quindi manga che vanno a inserirsi anche in scene che invece chiamerebbero un profilo più discreto.

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È un anime, un manga o un gioco?

C’è spesso un senso dell’epica comune tra tutti e tre i media, un tipo di storytelling che è immediato da adattare e da lì si tratta “solo” di trovare la formula di gameplay più adatta per renderlo giocabile. Il JRPG è un po’ il jolly in questo discorso, ma difficile non parlare anche di Hokuto no Ken, Dragon Ball, Naruto o One Piece, che si sono mossi tra picchiaduro, action e musou.

Ci sono addirittura mondi ex novo pensati in stile fumetto, come il recente, celebre Hi-Fi RUSH di Tango Gameworks dove persino lo schioccare le dita del protagonista si traduce in piccoli “snap” presso la sua mano. O il classico Okami di Clover Studio, che si muove tra le ispirazioni visive del mokuhanga, stile di stampa giapponese tramite legno e colori ad acqua tipica del periodo tra il sedicesimo e diciottesimo secolo.

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Una delle possibili interazioni in Okami era evocare le forze della natura attraverso decise pennellate da creare tramite gli stick analogici. Segni che evocano azioni.

…e altre più sfumate.

In occidente invece, fumetto, animazione e videogiochi si sono mossi indipendentemente, come tre solitari viaggiatori che soltanto raramente si sono incrociati per un occasionale tratto di percorso assieme. Possiamo per esempio ricordare gli intermezzi di Max Payne, soluzione che, appunto, viene adottata solo nei momenti in cui la trama procede. In gameplay c’è ben poco che possa richiamare agli elementi strutturali di un fumetto.

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L’atmosfera noir di Max Payne dà il meglio negli intermezzi.

C’è poi un Mirror’s Edge che ha fatto il percorso inverso: partendo dal gioco con cutscene in stile animato culmina poi con un fumetto prequel che studia le origini della distopica, patinata, apparentemente perfetta città in cui si ambienta il gioco.

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Il particolare stile grafico di Mirror’s Edge si presta bene a interagire con la carta stampata.

…poi? Certo, ci sono state numerose graphic novels volte a promuovere giochi a ridosso della loro uscita raccontando eventi periferici alla vicenda principale, tra Assassin’s Creed nel mercato mainstream e un Remothered nel sottobosco indipendente, ma rimangono esperimenti piccoli, spesso neppure noti a buona parte degli utenti che sono passati dal gioco e pure lo hanno apprezzato. Ma soprattutto non trovo i fumetti nei suddetti giochi. Per quanto io possa voler bene a opere come Marvel’s Guardians of the Galaxy e ai Batman Arkham, che hanno di fumettoso? Condividono i personaggi e l’universo narrativo di quel fumetto, ma cosa c’è del fumetto in quanto linguaggio espressivo?

Mi devo sforzare per trovare ibridazioni dirette tra le due arti, tanto che l’esempio principe che posso trovare, di gioco che realmente prende lo stile e la storia di un fumetto pre-esistente e che ci infila dentro un gameplay è XIII, sviluppato nel 2003 da Ubisoft Paris. Con i suoi alti e bassi e un recente remake sviluppato da Tower Five e Playmagic che tende a ripeterli (e secondo alcuni pareri, a peggiorarli), rimane un’esperienza unica che integra spesso e volentieri persino le vignette proprio per esaltare i momenti più dinamici e rapidi. La staticità della vignetta per rappresentare il movimento, con tutti i trucchi grafici del caso. Le armi producono le classiche onomatopee e nei momenti stealth persino rompere una sedia in testa a un nemico ignaro produce la tipica esplosione cinetica accompagnata da un epico suono di legno rotto. XIII è un adattamento che va fino in fondo nell’abbracciare il suo materiale d’origine e proprio per questo, purtroppo, rimane unico. Ma non fraintendetemi, sebbene aiuti moltissimo, non basta mettere un filtro in cel shading e qualche onomatopea per parlare di un adattamento vincente, e non è nemmeno detto che l’adattamento sia l’unica formula ideale. Nel caso di XIII ha funzionato bene perché la storia del fumetto calzava come un guanto per trarne delle sequenze action tutte da giocare, ma c’è di più.

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Come se la situazione non fosse abbastanza chiara, a XIII piace esprimersi anche con le onomatopee.

Abbiamo detto che a caratterizzare il fumetto sono sequenze di immagini e segni in sequenza e nel comporle è importante pensare anche al limite fisico del media, ossia lo spazio disponibile. E quindi all’impaginazione. Sarà una pagina da sei vignette della stessa dimensione? Tre vignette standard e una allungata per esaltare un momento in particolare? Una singola colossale vignetta che occupa l’intera pagina, necessaria per rappresentare molti personaggi in un solo momento o un’ambientazione enorme? Lo spazio che divide le vignette è importante tanto quanto le vignette stesse, aggiungendo un altro livello di scrittura. Non si tratta più solo di “mostralo, non dirlo”, ma anche di “non mostrarlo, implicalo.” Lo spazio così limitato rispetto a una tela o a un’inquadratura di un film rende necessario al fumettista continui ragionamenti di sottrazione. Non si tratta di rendere ogni vignetta una composizione dettagliata e barocca, quanto piuttosto di inserirvi tutti gli elementi necessari al lettore per capirne la situazione e la spazialità, in modo che egli possa “proseguirla” oltre i bordi grazie alla propria immaginazione.

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Le tavole di Dylan Dog si muovono spesso in mondi onirici, proprio come il loro protagonista.

Senza questi pensieri compositivi stiamo ancora parlando di fumetti? E se un gioco basasse il suo intero concept sull’interazione tra vignette, possiamo parlare di gioco a ispirazione fumettistica? Sì, penso che dopo questi ragionamenti Gorogoa rimanga un gioco difficile da analizzare, ma che un possibile punto di osservazione sia proprio il suo uso delle vignette. Non ci sono balloon, non ci sono segni per come li abbiamo intesi sinora. Ci sono però diverse immagini su schermo e l’interazione tra le stesse è la chiave del gameplay. Non solo è possibile muoverle nelle varie posizioni della pagina virtuale, ma anche osservarle in profondità, applicando il concetto delle tre dimensioni a un metodo che convenzionalmente si riferisce al disegno e alla stampa, e quindi bidimensionale.

Dove ci sta portando questo svarione? Non lo so, ma quello che sento è che fumetti e videogiochi non si siano ancora mescolati per davvero nel mondo occidentale, ma che si siano a malapena parlati. E che uno degli stimoli più interessanti al riguardo provenga proprio da Gorogoa, che non ha corrispettivi in altri media e la cui vicinanza ai fumetti è una mia personalissima interpretazione. Ma penso che il suo studio sull’avere diverse immagini su schermo interattive tra di loro non sia da sottovalutare.

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In Gorogoa non possiamo interagire con nulla se non con le vignette.

Nel mentre, il futuro sta per consegnarci un nuovo gioco di Hellboy da parte di Upstream Arcade, che ha perlomeno l’intenzione di raccogliere lo stile visivo introdotto dall’autore Mike Mignola. Chissà che un dialogo più marcato tra videogiochi e fumetti non si intensifichi anche in Occidente, un giorno.

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