Come si definisce un gioco old school? È una questione meramente temporale o ha a che fare con le sue meccaniche e col modo in cui queste sono invecchiate? Secondo alcuni ci sono determinate produzioni che non invecchiano mai, mentre altri non sono dello stesso avviso. Qualunque sia la vostra risposta, è senza dubbio vero che oggi l’idea di fps old school è abbastanza cementificata nell’immaginario collettivo: si tratta di una produzione, solitamente indipendente, che si ispira ai classici degli anni ’90 sia dal punto di vista del gameplay che dell’estetica, utilizzando direttamente motori grafici del periodo più o meno aggiornati (GZDoom) o mischiando tecnologie moderne e aspetto pixeloso.
Il mercato indie è stato invaso da questo tipo di produzioni, che hanno finito per oscurare quasi tutte le alternative, ed è meglio non parlare di quello AAA, ormai fossilizzato su CoD e poco altro (principalmente ibridazioni). Ci siamo un po’ dimenticati delle altre concezioni di sparatutto, di quel periodo d’oro a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo durante il quale ogni nuovo fps era eccitante e diverso dagli altri. Senza andare troppo indietro nel tempo, ecco una breve lista degli shooter più importanti arrivati nel 2007: Halo 3, Half-Life 2: Episode Two, il primo Modern Warfare, Crysis, S.T.A.L.K.E.R., BioShock. Niente male, eh?
Oggi possiamo dirci fortunati se esistono uno o due giochi capaci di occupare le nicchie più piccole: Selaco e Trepang2 sono ad esempio attesi con trepidazione dai fan di F.E.A.R., mentre Ready or Not ha raccolto con successo l’eredità di S.W.A.T. e degli sparatutto tattici (scusatemi se non considero tale Rainbow Six: Siege).

Sono passati quasi 25 anni dell’uscita del primo Half-Life e, seppur l’influenza del gioco Valve e del suo seguito sia stata notevole, è molto difficile trovare quel tipo di esperienza riproposta in chiave moderna. In parole povere: quello degli “Half-Like” è un sottogenere mai nato veramente. A dire il vero, anche mettendo da parte Alyx, esiste qualcosa a livello di realtà virtuale, ma l’ambito è troppo marginale per avere rilevanza nel discorso.
Tutto questo per dire che, nonostante tutto, qualche eroico sviluppatore ha avuto il coraggio di rifarsi all’epopea di Gordon Freeman, e questo è lo sviluppatore dietro a Industria.
Non mi nascondo, devo ringraziare l’analisi di Digital Foundry per avermi fatto scoprire Industria, che fino a quel momento era passato sotto il mio radar. L’eccezionalità di Industria deriva anche dal fatto che il gioco indie di Bleakmill sfrutta l’Unreal Engine 4 per offrire un aspetto grafico che, almeno di primo impatto, sembra essere quello di una produzione con un budget ben superiore, con tanto di implementazione piuttosto efficace del ray tracing. Non è tutto oro quel che luccica chiaramente, ma per adesso preferisco lasciare gli aspetti più tecnici da parte.
Industria si ispira a Half-Life in un numero pressoché infinito di modi, a partire dalla sua introduzione. Come Valve insegna, l’intera avventura si svolge in prima persona, senza filmati o cambi di prospettiva, e si apre con una sezione quasi da walking simulator, che si prende tutto il tempo necessario per delineare storia e atmosfera, senza necessità di sparare un colpo. Il punto di partenza è Berlino Est il 9 novembre 1989 (vi dice qualcosa?), ma ben presto la protagonista, Nora, si ritrova catapultata in un universo alternativo alla ricerca del compagno e collega Walter. Hakavik, la città dove si svolge la vicenda, è protagonista come lo era City 17 a suo tempo; qui i riferimenti architettonici e culturali guardano soprattutto all’Europa settentrionale, ma non mancano un pizzico di Praga e rimandi a Berlino stessa, il tutto mischiato con un po’ di steampunk che fa tanto Dishonored (su cui ha lavorato l’art director di Half-Life, quindi tutto torna). Non aspettatevi un centro abitato pullulante di vita però, perché Hakavik, dopo essere stata attaccata da dei misteriosi robot, è stata evacuata ed è diventata una desolante città morta. Di fatto durante lo svolgimento degli eventi incontriamo un solo personaggio, Brent, forse l’ultimo abitante rimasto, che viene presentato in un modo sostanzialmente identico a Padre Grigori, giusto per continuare a evidenziare la fonte di ispirazione.

Laddove la narrazione di Half-Life era abbastanza lineare, Industria cerca di costruire una storia misteriosa dove a ogni risposta corrispondono due nuove domande e si succedono eventi apparentemente incomprensibili, tra giganteschi esseri che intravediamo camminare in lontananza, intelligenze artificiali impazzite e momenti onirici. Spunta insomma fuori anche un seconda grossa fonte di ispirazione: le stramberie di David Lynch. Il tentativo di tenere alta l’asticella è apprezzabile, ma forse sarebbe stato meglio puntare su qualcosa di più semplice, perché Industria riesce a suscitare tantissimo la curiosità ma non a soddisfarla completamente nel suo finale, un po’ frettoloso e astruso; il gioco termina fin troppo brutalmente e avrebbe avuto bisogno di una durata maggiore per tirare per bene le fila del discorso. Può darsi che l’intenzione dello sviluppatore fosse proprio quella di lasciare spazio all’interpretazione dei giocatori (qui per esempio si trovano diverse speculazioni interessanti), ma è più probabile che siano mancate le risorse o il tempo per mettere tutti i tasselli al loro posto.
La città morta di Hakavik trasmette un senso di desolazione e isolamento che passa anche attraverso il sonoro
Ho parlato di esperienza in stile Half-Life, ma cosa significa? Qualcuno ha coniato il termine atmospheric shooter per indicare questa interpretazione del genere. Si tratta di un gioco lineare molto incentrato sulla narrazione e dal ritmo abbastanza lento, dove le sparatorie sono controbilanciate da fasi esplorative e di risoluzione di enigmi ambientali, spesso e volentieri a base di fisica. Esplorazione e narrazione sono due facce della stessa medaglia: se gli eventi principali sono spiegati nelle conversazioni via radio tra Nora e Brent, per scoprire i numerosi retroscena e gli eventi antecedenti bisogna andare a caccia di un discreto numero di documenti disseminati per i livelli, componente che avvicina il gioco anche a BioShock. Durante le nostre peregrinazioni siamo accompagnati da un senso di desolazione e isolamento che è anche sonoro, ottenuto con un sapiente uso dei suoni ambientali e attraverso una colonna sonora eterea a base di sintetizzatore e toni bassi, con parti vocali che ogni tanto fanno capolino per sottolineare i momenti più intensi.
Nonostante l’azione non sia predominante, sarebbe ingiusto dire che Industria si dimentica di essere uno sparatutto. Non ci sarà la Gravity Gun, certo, e le armi sono appena cinque, ma non le ho affatto disprezzate. Per ovvie ragioni non si poteva non partire con quella corpo a corpo: dopo il piede di porco e la chiave inglese qui è il turno di un ben più minaccioso piccone. A questo seguono i classici del genere: pistola, mitraglietta, fucile a pompa e fucile da cecchino, ognuna ispirata a strumenti realmente esistenti (la mitraglietta sembra uno strano Sten col caricatore obliquo ad esempio). Niente di sorprendente quindi, ma fanno tutte il loro sporco lavoro e hanno un feedback dei colpi più che buono, cosa da non dare per scontata in un gioco a basso budget e tutto sommato focalizzato su altro.
La nostra voglia di violenza digitale si sfoga non su esseri viventi, ma su robot dall’aspetto… industriale, che, pur presentando diversi aspetti, si comportano sostanzialmente in due modi diversi: o ci attaccano a testa bassa o ci sparano da lontano. Tra quelli che caricano a testa bassa ci sono anche dei simpaticoni a due zampe maniaci dell’autodistruzione, una tipologia di avversario che penso sia stata messa al bando dalla Convenzione di Ginevra. Ammetto candidamente che l’intelligenza artificiale e i combattimenti in generale non sono il punto forte di Industria, ma in un gioco che dura quattro ore scarse sono un buon accompagnamento e mai un peso, anche per via di una difficoltà tarata abbastanza verso il basso. Almeno quando le cose funzionano come dovrebbero.

L’ambito in cui Industria non tiene assolutamente il passo con le produzioni più blasonate, e pure con tanti altri indie a dire la verità, è proprio quello della pulizia tecnica. Certo, belli i riflessi e tutti gli altri orpelli, ma il costo di cotanta bellezza a livello di prestazioni è molto salato. Come tanti altri giochi basati sull’Unreal Engine, Industria stuttera come non ci fosse un domani e ha diverse sezioni, in particolare quelle all’aperto, che usano in maniera spropositata la CPU ammazzando il frame rate; in questi casi è davvero complicato stabilizzare gli FPS, anche mettendo tutto al minimo.
Fioccano poi i crash e i bug, come certi comandi che a un certo punto smettono di rispondere; inoltre esplorando certi ambienti si notano facilmente dei “buchi” da cui si può osservare l’esterno della mappa e anfratti neanche troppo nascosti dove l’illuminazione è completamente sbagliata. Non ho avuto modo di provare la versione console, che magari se la cava un po’ meglio, ma su PC bisogna avere un minimo di pazienza.
Non mi sento di essere troppo cattivo per il semplice fatto che parliamo di un lavoro svolto principalmente da due persone e soprattutto perché in questi ultimi mesi sono arrivati sul mercato giochi in condizioni anche più disastrose, nonostante investimenti multimilionari, rinvii a pioggia e campagne pubblicitarie faraoniche. Bisogna lodare Bleakmill per il coraggio mostrato e per la volontà di risolvere quanti più problemi possibili dopo il lancio, nonostante dietro non ci sia un publisher enorme. Mi tocca pure tessere le lodi dell’UE4, perché oggi è forse l’unico motore che permette anche allo sviluppatore più piccolo di sfruttare le tecnologie grafiche più moderne senza impazzire. Da quanto dice Digital Foundry, attivare il ray tracing e le varie forme di upscaling (DLSS, FSR, XeSS) è semplice quando spuntare un casella.

Industria è una produzione per molti versi grezza e incompleta, ma è una lettera d’amore di due ragazzi nei confronti di un certo modo di intendere lo sparatutto che non può e non deve passare inosservata. Solo dei veri appassionati potevano decidere di puntare su una concezione così lontana dei gusti della massa, in più cercando di dare al loro lavoro un’estetica assolutamente distintiva e di livello.
Se periodicamente vi immergete in Half-Life e magari non avete la possibilità di acquistare un visore per la realtà virtuale per giocare a qualcosa come Boneworks, dategli una possibilità. Chissà che quel finale tronco non dia in futuro il via a qualcosa di ancora più bello.
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