Si rilassi e mi racconti tutto…
Se dovessi commissionare In Sound Mind del team israeliano We Create Stuff a un’intelligenza artificiale gli direi “Alan Wake x Psychonauts in prima persona. Con un po’ di Inception”. Un’esperienza horror stravagante, colorata, che a tratti va a sfiorare l’arte psichedelica, eppure al tempo stesso pregnante di dramma umano e temi delicati, nonché momenti tetri dove non viene esattamente voglia di correre in giro. Benché il gioco abbia anche delle fasi platform.
Non si capisce niente, vero? D’altro canto il Survival Horror è un genere molto ramificato. Comunque, come direbbe il nostro protagonista, partiamo dall’inizio. Ci svegliamo nel sotterraneo di un condominio, dove di solito risiedono la lavanderia, gli attrezzi del tuttofare di turno e i bidoni dell’immondizia. Un breve segmento per prendere confidenza con i comandi ed ecco che aggiustiamo l’ascensore per raggiungere il nostro studio al terzo piano, dove scopriamo che vestiamo i panni di uno psicologo, il dottor Desmond Wales. La nostra gatta parlante ci dà il benvenuto. Fin qui niente di necessariamente strano, chi vive con un animale domestico sa bene di averci fatto qualche conversazione nel corso della vita e sa che il compagno peloso ci ha pure dato dei feedback, con quegli amorevoli occhioni. Che però risponda letteralmente in parole umane udibili questo sì, è strano. So che c’è quella domanda: sì, potete accarezzare il felino.

Ma non è l’unica cosa inusuale: non c’è nessuno in giro, fuori c’è un’inondazione in corso e il condominio è disseminato di strane nuvole d’ombra e pozzanghere colorate. Inoltre, alcuni appartamenti emanano una intensa luce bianca. Non resta che dargli una cauta occhiata, forse hanno a che fare con il mistero. E in effetti, tali appartamenti sono quelli degli ex pazienti del nostro protagonista, quelli che, scopriremo, non è riuscito ad aiutare nonostante le migliori intenzioni.
Non ci sono idee migliori per la serata, quindi tanto vale ripercorrere le registrazioni delle varie sedute e rinfrescarci la memoria su cos’è andato male. Come una specie di cabina del Dottor Who, una volta selezionata la destinazione attraverso le cassette dei pazienti, l’ufficio “viaggia” in uno spazio al di là dello spiegabile, fino a raggiungere i luoghi dei vari traumi.
Dentro i ricordi
Il primo è un centro commerciale, unico grande attrattore di traffico in una cittadina altrimenti bucolica e tranquilla e la mente che riempie l’ambientazione è quella di una donna dalla forte agorafobia e paura del giudizio altrui. Molto simbolica a questo proposito è la prima “arma“ iconica che raccoglieremo, una grossa scheggia proveniente da uno specchio rotto. Potremo usarla come strumento offensivo, ma ancora più importante, come aiuto per l’esplorazione in quanto rivelerà oggetti e creature ostili attraverso le pareti, oltre a poter tenere a bada lo spettro tormentato della paziente che ci darà la caccia nel corso dell’esplorazione. Vedere il proprio riflesso infatti, la manderà in panico. A complicare le cose, sono gli “Inkblot”, nemici umanoidi ispirati al test di Rorscharch, che per fortuna sono però affrontabili con metodi convenzionali. Ad aiutarci invece, ci saranno dei timidi manichini che si muoveranno ogniqualvolta gli gireremo le spalle. Sshh, non fate troppe domande.

Ambientazione, trauma, nemico imbattibile, chiave che risolve la situazione. In soldoni questo è il pitch generale del gioco. Sono però le sue specifiche a farlo emergere nel panorama degli horror. Con la scusa di avere ambientazioni così oniriche gli sviluppatori hanno cercato un punto d’incontro tra il classico trope horror notte-torcia-solitudine-mostri con momenti pregni di colore. Persino nei momenti di ingresso nella location, dove saltiamo da una piattaforma all’altra per evitare l’acqua alta, possiamo volgere lo sguardo alla volta celeste per trovare le stelle colorate con i colori dell’arcobaleno. Nelle stesse ambientazioni capiterà spesso di finire in qualche spazio impossibile dove le leggi della fisica vengono sospese e le architetture evolvono in forme e colori incomprensibili.

La situazione si accompagna a uno stile di movimento del personaggio quasi “arcade”. Agile, veloce e potenziabile attraverso farmaci dai nomi molto giocondi come Fastonyde che incrementa la velocità e Detectodyne che invece ci aiuterà a meglio eludere i nemici, Desmond è un personaggio atletico e pieno di risorse. Il feeling del corpo del personaggio non è pesante e realistico come quello di un Amnesia Rebirth, quanto piuttosto quello di un Half-Life. Il nostro psicologo si rivelerà inoltre abile con le armi. Scopriremo presto che affari loschi erano in atto nel condominio e man mano che sbloccheremo vari strumenti di accesso potremo esplorarne ogni anfratto.
Il condominio diventa quindi l’hub centrale dal quale si dirama tutto, con l’ufficio a fare da rifugio sicuro presidiato dalla gatta. Ogni altra ambientazione viene elaborata partendo dalle registrazioni delle sessioni con Desmond e definiscono la personalità e il trauma del paziente in questione. Per ognuna di queste sessioni saremo inseguiti da un nemico imbattibile finché non sarà risolto appunto l’elemento scatenante del suo problema. Il senso delle azioni di Desmond è proprio risalire a questi punti d’origine. Se non per aiutare i pazienti, quantomeno per riuscire a redimerlo dall’aver fallito con loro. E per riuscire a capire cosa sta accadendo nel mondo reale, perché anche Desmond è vessato a sua volta da qualcuno, il misterioso agente Rainbow.
Il cugino strano della famiglia horror
Non mancano citazioni più o meno evidenti ai grandi fratelloni del genere survival horror, dal ritrovamento di documenti firmati da un tale S. Hill, a puzzle fognari che richiedono l’utilizzo di una manovella, fino a un paziente in particolare il cui trauma ha a che fare con un faro e l’oscurità. Tuttavia il gioco riesce comunque a ricavarsi un’identità tutta sua grazie al suo già menzionato approccio leggero al peso e movimenti del personaggio, nonché alla direzione artistica. Forse da questo lato sarebbe stato ancora più interessante rinunciare interamente ad avversari e armi, diciamo, convenzionali, per concentrarsi sui vari strumenti di accesso che hanno differenti livelli di complessità. La scheggia di vetro può tagliare, tanto quanto rivelare oggetti che esistono su un piano esistenziale alternativo se visti di riflesso. Una strana pillola fucsia può fare da momentaneo booster di velocità, tanto quanto diventare esplosiva se interagisce con un liquido in particolare. Una radio modificata può captare segnali e hackerare pannelli, tanto quanto “sfasare” i nemici facendoli letteralmente sparire, previa aver trovato la loro frequenza. Dinamica questa, che nemmeno viene menzionata dal gioco e che ho trovato per caso passando al setaccio il condominio.

Il gioco lascia molte porte aperte per un sequel, nel quale mi auguro vada con molta più fiducia in sé stesso dentro le idee che lo rendono diverso. Quando prova a fare il convenzionale diventa, beh, un gioco convenzionale. Ma quando accede alla sua stravaganza, al suo stile “punk”, alla sua giocabilità fluida sia nell’azione che nei puzzle, alle sue canzoni scritte appositamente per i personaggi e che esistono diegeticamente ingame (allerta spoiler, ma aiuta a capire in un attimo il gusto artistico del gioco), In Sound Mind è un gioco che arriva con una proposta tutta sua. Una proposta tematicamente potentissima eppure dalla giocabilità e dalla cifra estetica molto approcciabili.
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