Il fallimento come stile di vita

Esattamente, perché dovremmo avere paura di perdere se fallire porta con sé crescita, cambiamento e resilienza? In questo pezzo cercheremo di interpretare il fallimento come un rifiuto della padronanza, una critica all’evidente connessione, nel capitalismo, fra successo e profitto, come un discorso contro-egemonico sulla sconfitta.

Most computer gamers use the save game to maximize their playing ability. Anytime something goes wrong, they return to a saved game and replay it until they get it right. The final history of their game looks like an endless streak of lucky breaks and perfect choices. […] You will never see some of the most interesting aspects of the game unless you play through your mistakes. […] You may be surprised by what happens next.

Nel manuale di The Elder Scrolls 2: Daggerfall, Bethesda lasciò questo messaggio per incoraggiare lɜ giocatorɜ a non seguire la strategia del “replay the save game”, ovvero quella dinamica che porta moltɜ videogiocatorɜ a non continuare una sessione di gioco, dopo un primo fallimento – che non significa per forza morire, magari potrebbe significare anche solo essere spottati da un nemico su Metal Gear Solid – e piuttosto caricare i dati del salvataggio precedente per riprovare la stessa sessione, cercando di farla alla perfezione. Perché questo è ciò che ci ha da sempre richiesto la società capitalista. L’essere sempre perfettɜ, non fallire mai, provare frustrazione verso il fallimento e verso noi stessɜ.

Jesper Juul, nel suo “The Art of Failure: an essay on the pain of playing video games”, ci parla di quanto lui ami i videogiochi, e di quanto allo stesso tempo odi il fallimento, che è intrinseco all’interno dei videogiochi stessi. Ci descrive, quindi, quello che viene chiamato Paradosso del Fallimento:

  1. Generalmente evitiamo il fallimento;
  2. Quando giochiamo, noi incontriamo il fallimento;
  3. Continuiamo a cercare giochi e a giocarli, anche se questi ci portano a provare qualcosa che normalmente eviteremmo.

Dagli albori dei giochi, la dinamica di morire, e di conseguenza fallire, è rimasta quasi sempre la medesima: schermo nero, pochi secondi e rifai lo stesso procedimento, semplicemente cercando di farlo meglio così da non perdere. Dinamica in netta contrapposizione al mondo reale che, invece, non permette mai di rifare una stessa sequenza esattamente uguale alla precedente. La dimensione che si crea quando si gioca, il famoso cerchio magico, diventa quindi un safe space per sperimentare il fallimento nel modo più sicuro possibile. In modi che la nostra società performativa non ci permette di fare, che è uno dei motivi, se non quello principale, per il quale aneliamo il fallimento all’interno dei giochi.

I diversi outcome di una dinamica di gioco si trovano all’interno di un Failure Spectrum, termine coniato da Tom Francis. Lo spettro del fallimento, ovvero l’intervallo di stati tra il successo perfetto e il fallimento totale, si trova all’interno di quasi tutti i videogiochi mainstream, semplicemente alcuni spettri sono più generosi di altri. Un (buon) game design dovrebbe permettere allɜ giocatorɜ di potersi riprendere da un primo fallimento. Subire avversità ti porta a cambiare i tuoi obiettivi in modo tale da permetterti, dinamicamente, di cercare di riacciuffare la vittoria. Un ottimo approccio per continuare a far fallire unɜ giocatorɜ senza che diventi frustrante è quello di provare a far diventare il fallimento tanto interessante quanto il successo.

Subire avversità ti porta a cambiare i tuoi obiettivi in modo da permetterti, dinamicamente, di riacciuffare la vittoria

Quando giochiamo ai titoli mainstream, ormai ci aspettiamo il fallimento, ci aspettiamo ostacoli che provino a farci fallire, ma per fortuna oggigiorno esistono comunque una miriade di giochi, soprattutto nel panorama indie e queer, che non contemplano più ostacoli fini a se stessi, che hanno, quindi, il solo scopo di far fallire lɜ giocatorɜ, ma che siano intrinseci nella narrazione dell’esperienza. In Non-Binary di owof games, ad esempio, gli ostacoli crescono di pari passo con l’aumentare degli stereotipi di genere che vengono affibbiati allɜ protagonista, ed essere colpitɜ da un ostacolo significa percepire quanto una parola fa male, non significa perdere health point. In Non-Binary non si perde mai, i finali sono sempre positivi e di scoperta di sé. Il fallimento è stato inteso come negazione di sé stessɜ, negazione di ciò che si è in realtà, ma poiché il mondo è pieno di storie queer intrise di sofferenza e dolore, lɜ sviluppatorɜ hanno deciso che c’era bisogno di una power fantasy che ricordasse che non c’è mai un tempo giusto per scoprirsi.

Una schermata di Non-Binary

Susanne Vejdemo, nell’articolo “Play to Lift not just to lose, spiega come nei LARP (Live action role play) giocare per perdere è una tecnica usata da unɜ giocatorɜ per creare una migliore situazione di dramma cercando di non vincere, ovvero lasciando che il proprio personaggio perda. È una tecnica utilizzata in stili di gioco collaborativi piuttosto che competitivi. Molto spesso questa dinamica porta a far sì che unɜ giocatorɜ, per creare dramma, decida di “perdere”, ad esempio per far sì che lo sporco segreto che il suo personaggio doveva nascondere venga scoperto. Conseguentemente potrebbe succedere che la persona venga messa in un angolo, non partecipando più attivamente al gioco. A quel punto, però, il contratto sociale con le altre persone che stanno partecipando al LARP, farà sì che lɜ giocatorɜ che si è immolatɜ, venga riportatɜ all’interno del dramma, perché la responsabilità della “commedia” – intesa come atto recitativo – è condivisa. Questo è ciò che porta il fallimento: collaborazione.

Come dice Jack Halberstam nel suo “L’Arte Queer del Fallimento“, in determinate circostanze fallire, perdere, dimenticare, disfare, annullare, sfigurare, non sapere, possono essere modi di stare al mondo più creativi, più collaborativi e più sorprendenti. Infatti, per le persone queer il fallimento può essere uno stile o un modo di vita, in netta opposizione agli scenari di successo basati sull’idea di provare e riprovare: se il successo richiede così tanto sforzo, potrebbe darsi che il fallimento, in fin dei conti, sia più semplice e offra un altro tipo di ricompense.

Lɜ game designer hanno creato un intero genere di videogiochi attorno al concetto di fallimento, giocando sul fatto di cambiare l’immaginario classico del “successo = vittoria” per farlo diventare “fallimento = vittoria”. I roguelike sono composti da un insieme di livelli generati proceduralmente – ciò aiuta ad attenuare molto la sensazione fastidiosa del prova e riprova sempre la stessa cosa – e il protagonista soffre di morte permanente, il che significa che, dopo la sconfitta – qualunque cosa si intenda per sconfitta – ricomincerà da capo da un punto di partenza predeterminato, che dà allɜ giocatorɜ quella familiare sensazione di ritorno a casa. Vengono definiti roguelike i giochi che non hanno upgrade persistenti alla morte del protagonista. Vengono, invece, definiti roguelite quei videogiochi che permettono allɜ giocatorɜ di potenziarsi permanentemente dopo ogni run.

Quest’ultimo sottogenere fa sì che la persona giocante non senta di aver sprecato tempo – risorsa fondamentalmente nella nostra società capitalista – perché associa i suoi gesti all’apprendimento tangibile di qualcosa e di conseguenza sente che le sue probabilità di successo aumentano dopo ogni tentativo. Se ci facciamo caso, questo tipo di esperienza videoludica è l’opposto della teoria del flow di Mihaly Csikszentmihalyi. In un gioco con un flow classico, la challenge e le skill crescono assieme per far sì che il gioco si discosti costantemente da una condizione di noia o di frustrazione. Nel flow dei roguelike e dei roguelite, invece, il gioco inizia con il valore di challenge al massimo per poi, col passare del tempo, diventare sempre più facile, man mano che le skill dellɜ player aumentano e che le morti si susseguono. I roguelite, quindi, permettono di accumulare lentamente potere, non contando solo ed esclusivamente sulle abilità di partenza del player.

Con questo tipo di approccio videoludico andiamo a trovare delle falle nella teoria del pensiero positivo dei giorni nostri. Il pensiero positivo, come dice Barbara Ehrenreich in “Bright-Sided“, è un delirio di massa che nasce col desiderio di credere che il successo premi le brave persone e che ogni fallimento sia solo la conseguenza di un atteggiamento sbagliato, e non di condizioni strutturali della società. Quando finalmente riconosciamo che la nostra società ha delle falle, smettiamo di insistere sul fatto che il successo dipende unicamente dal duro lavoro e smettiamo di pensare che il fallimento è sempre e solo colpa del singolo individuo.

Schermata di game over di Hades

Quando infatti giochiamo a un roguelite, sappiamo perfettamente che è il videogioco ad essere “sbagliato”, è il videogioco a costringerci al “fallimento”, quindi, anche se finiamo le nostre run da sconfittɜ, lo facciamo con uno spirito che non è più quello di frustrazione o di sofferenza, ma con la consapevolezza che fallire fa parte del gioco, fa parte del cambio di paradigma da pensiero positivo a pensiero negativo. L’obiettivo del pensiero negativo è proprio quello di perdere la strada e, anzi, essere pronti a perdere molto di più. L’approccio, infatti, che ha utilizzato Jack Halberstam per scrivere “L’Arte Queer del Fallimento” è proprio quello di smarrire la propria strada nei territori del fallimento, della distrazione, della stupidità e della negazione, andando a tentoni, improvvisando, cercando di non essere all’altezza delle aspettative che sono state decise dalla società performativa capitalista: così facendo troveremo un modo diverso di dare significato alle cose, un modo in cui nessunǝ verrà lasciatǝ indietro.

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