Il circolo vizioso del mercato videoludico

Siamo andati a sbattere. Con il senno di poi era prevedibile perché il mercato videoludico, come qualunque altro mercato, segue le leggi della domanda e dell’offerta: parliamo dei videogiochi sulla base di quelli che già conosciamo; come se non riuscissimo a trovare un modo di parlare di quei videogiochi nuovi. In un uroboro commerciale e comunicativo, i nuovi videogiochi vengono presentati in riferimento ad altri già noti perché altrimenti non riusciremmo a parlarne

Si chiedono giochi nuovi e quando arrivano vengono descritti come “Souls-like” o “l’unione fra Pokémon e League of Legends” o ancora il “Destiny di Azienda X”: così si crea, di fatto, un recinto entro cui quello che è già noto, in un certo senso, è accettabile e quello che è nuovo non è veramente nuovo, ma è solo qualcosa che va assimilato al vecchio per poter essere interpretato, persino capito. Ne consegue una distorsione evidente: la richiesta – per certi versi la necessità – di esperienze nuove; ma quando arrivano non si riesce a capirle.

Il tema di questo circolo vizioso sta emergendo – ne hanno parlato Keith Stuart sul Guardian e Kate Gray su Nintendo Life – e riguarda tanto le grandi produzioni quanto quelle più piccole. Non è un caso che alcuni dei nuovi giochi presentati dalle grandi aziende si assomiglino o ricordino qualcosa di già visto: è più facile attecchire sulle persone portando loro qualcosa di familiare; qualcosa con cui possono già sentire un legame prima ancora che quel dato videogioco arrivi sul mercato (e che quindi, tendenzialmente, compreranno più facilmente).

Tale meccanismo produttivo e commerciale è così radicato al punto che ci sono storie di aziende che hanno cambiato i loro progetti per seguire la scia di un videogioco ha avuto successo per prenderne ispirazione. Dal punto di vista dell’informazione, allo stesso tempo, è più facile attirare l’attenzione delle persone paragonando qualcosa di nuovo a qualcosa di già noto.

Un sistema che viene rotto in modo evidente quando è il momento di raccontare esperienze che è difficile costringere in un genere o un qualsiasi altro recinto: Death Stranding di Kojima Productions, secondo me, è un esempio di questo tipo di esperienze.

NON È SOLTANTO MARKETING

C’è un altro livello del discorso.

Se vogliamo intendere il videogioco come un linguaggio, allora i giochi nuovi possono essere interpretati alla pari di dialetti o gesti nuovi: per capirli proviamo a riportare il tutto a una dimensione già nota, già conosciuta, già esperita. Che già sappiamo, in un certo senso, che non può nuocere. Mi spiego meglio.

Se il videogioco va inteso come un’esperienza a due vie – dal giocatore al videogioco e dal videogioco al giocatore – allora è chiaro che la persona di fronte allo schermo è soggetta a una serie di stimoli che possono anche metterla in difficoltà; rasentare, persino, una sessione di psicanalisi per il tipo di attività così identificativa che una quota di videogiochi può arrivare a stabilire insieme con chi ne fruisce. In altre parole, la condivisione di una parte di sé con il videogioco è essenziale per stabilire il contatto. E quante persone sarebbero disposte a condividere una parte di sé, magari molto intima, con una persona estranea?

Paragonare il nuovo al già noto diventa uno scudo per difendersi da emozioni ignote

Quando ciò viene applicato al videogioco, ecco, quindi, l’esigenza di predisporre quel piano emotivo, sensoriale e intellettuale che rappresenta uno scudo per difendersi da emozioni ignote e che possono anche destabilizzare perché, appunto, mai provate prima; possono far scoprire parti di sé che non conoscevamo o che, al contrario, credevamo granitiche e invece non lo sono.

I videogiochi sono uno specchio: e a volte riflettersi in uno specchio può anche fare paura. Perché quello che credevamo di sapere, magari, in realtà, non è; ciò che volevamo evitare ci si para di fronte e ci costringe a una scelta: affrontarla o spegnere il videogioco e lo schermo. Anche per questo credo che, alla fine, finiamo per raccontare i videogiochi seguendo dinamiche comunicativa già note: per trovarci di fronte a pensieri già fatti, emozioni già sentite, sentieri già percorsi; e quindi, sapere che non avremo paura. O che se l’avremo, possiamo superarla: perché già precedentemente è stata superata.

Il circolo vizioso di cui ho parlato nasce da esigenze di marketing e di comunicazione. Per altro, riportare qualunque dimensione, qualunque prodotto a qualcosa di già noto è probabilmente il meccanismo mnemonico e di studio più comune che c’è. Comprendiamo meglio ciò che riusciamo a scomporre in parti già note perché il nostro cervello archivia quelle informazioni più facilmente.

Nei videogiochi – e in qualunque altra esperienza narrativa, sensoriale, interattiva – significa anche, però, evitare l’ignoto per paura che tale ignoto possa inglobarci e risputarci fuori diversi da come eravamo prima. E questa cosa – questa analisi introspettiva – può fare paura.

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  • Massimiliano Di Marco

    Scrivo di tecnologia, digitale e videogiochi. Di giorno sono giornalista per DDAY.it e di notte scrivo e registro cose per Insert Coin.

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