Nonostante siano passati tanti anni dalla loro comparsa, i walking simulator generano ancora tantissime polemiche e scontri nel mondo dei videogiocatori: per alcuni sono a tutti gli effetti dei “non giochi”, mentre altri li ritengono semplicemente un modo alternativo di interpretare questo medium. Mettiamo da subito tutte le carte in tavola, io faccio fieramente parte della seconda categoria. Mi spingo oltre: sono un fan(boy) del genere. Difficilmente riuscirei a far cambiare idea ai detrattori, per cui quello che segue è dedicato in primo luogo a chi è interessato a questi famigerati “simulatori di camminata”. Cercherò di parlare di quelli che sono gli esponenti più rilevanti del genere, segnalando anche qualche perla meno conosciuta. L’ordine è puramente casuale e non ho la pretesa di essere assolutamente oggettivo o di avere una conoscenza onnicomprensiva, per cui è possibile che qualcosa mi sfugga.
Dear Esther
Partiamo con quello che è il gioco che, per usare un po’ di paroloni, ha definito il genere. Dear Esther nasce nel 2008 come mod per Half-Life 2, per essere poi pubblicato nel 2012 come prodotto a sé stante, sempre basato sul motore grafico Source. Il nostro anonimo protagonista si trova a esplorare una sperduta e desolata isola dei pressi alla costa scozzese mentre ascolta le lettere inviate da un uomo alla Esther del titolo. La narrazione è tutt’altro che lineare, essendo composta da una serie di frammenti che non riguardano solo la donna e le persone a lei collegate, ma anche alcuni individui che hanno messo piede sull’isola nel corso del tempo. Sta al giocatore provare a mettere insieme i vari pezzi. La conclusione non è necessariamente univoca, anche perché, nel corso dei vari playthrough, certi frammenti cambiano, offrendo prospettive diverse o addirittura alternative sullo svolgersi degli eventi.
Rispetto agli altri titoli di cui parlerò, questo è forse quello più “puro”, dove effettivamente, a parte camminare e usare la torcia per illuminare le zone buie, non si fa in sostanza niente. L’esplorazione è, nonostante le apparenze, del tutto guidata e priva di sostanziali biforcazioni. Eppure Dear Esther riesce a essere molto coinvolgente, complici delle musiche di tutto rispetto e un’ambientazione tratteggiata con estrema cura, dominata da paesaggi cupi, tristi e solitari, ma non per questo meno belli. È proprio la solitudine la sensazione che inevitabilmente proveremo, accompagnata da una montante apprensione; questa è scatenata non solo dal panorama, ma anche da una misteriosa figura che ci osserva da lontano, la quale non può in nessun modo essere raggiunta. Qual è la sua natura? Cosa rappresenta? A questa domanda, così come a molte altre, è il giocatore che deve dare una risposta.

Chiudo con una doverosa nota sulla traduzione italiana. Il gioco non ha mai ricevuto una traduzione ufficiale nella nostra lingua, ma ne è stata pubblicata una “amatoriale”, che si distingue per l’utilizzo di un italiano volutamente desueto; non sarà facilissimo da capire, ma si adatta alla perfezione al tono della vicenda. Non posso non fare i complimenti a chi si è dedicato a questo non facile lavoro.
Gli sviluppatori di Dear Esther si sono successivamente dedicati a un gioco affine, Everybody’s Gone To The Rapture, uscito prima su PS4 e, in un secondo momento, su PC. Purtroppo questo secondo lavoro non è riuscito a raggiungere le vette del precedente: nonostante il comparto tecnico sontuoso garantito dal CryEngine, la storia non riesce mai decollare veramente e il ritmo è davvero troppo lento anche per gli standard del genere.
The Stanley Parable
Ecco un’altra mod di Half-Life 2 promossa a gioco completo. Parlare di questo titolo è abbastanza complicato senza ricorrere a spoiler pesanti, ma qualcosa si può comunque dire. La vicenda ruota intorno a un impiegato che, trovandosi improvvisamente senza ordini da eseguire, decide di esplorare gli uffici dove lavora, scoprendo di essere completamente solo. Ad accompagnarlo c’è la classica voce narrante, che lo indirizza sul percorso da seguire per arrivare fino alla fine della storia.

Al primo giro pare tutto nella norma, ma c’è un twist: Stanley, o meglio, il giocatore che lo controlla può decidere di non ascoltare quanto detto dalla voce, attraversando per esempio una porta diversa da quella che gli è stata caldamente consigliata. Fare delle scelte “non previste” porta a situazioni via via più strambe e stranianti, con tanto di finali multipli, mentre la voce tenta disperatamente di rimettere le cose in ordine. Sembra una follia? Beh, tutto sommato lo è, ma non c’è niente di male. The Stanley Parable non è un semplice videogioco, ma sfocia nel vero è proprio meta-videogioco; il rapporto tra lo sviluppatore e il giocatore smette di essere mediato e si affronta il tema della libertà di scelta (o presunta tale) nel nostro medium con un piglio ironico e divertente, ma sempre interessante. Anche qui non si fa molto a parte camminare e interagire con un numero limitato di elementi, come leve e pulsanti.
Se vi piace lo stile di questa produzione, non posso che consigliarvene una per certi versi simile: Dr. Langeskov, The Tiger, and The Terribly Cursed Emerald: A Whirlwind Heist. Probabilmente ci vuole più tempo a leggere il titolo che a completarlo, dato che dura 20 minuti scarsi. Però è gratis e merita di essere giocato, quindi correte su Steam a scaricare questa piccola perla.
Faccio rientrare (forse un po’ forzatamente) nello stesso filone anche The Beginner’s Guide, che ci chiede di capire che tipo di persona è uno sviluppatore provando dei prototipi di gioco da lui creati.
Journey
Un deserto, una montagna all’orizzonte con una luce che brilla sulla cima, una strana figura ammantata di rosso che osserva quella luce, consapevole del fatto che quella sarà la sua destinazione finale. Con queste poche parole è possibile riassumere l’incipit dell’opera che ha lanciato thatgamecompany, la quale, dopo una lunga esclusiva su Playstation, è recentemente giunta su PC.

Spiegare Journey utilizzando il linguaggio tipico dei videogiochi è forse impossibile, la stessa forma scritta è probabilmente inadeguata a chiarire di cosa si sta parlando. L’unica soluzione è afferrare il nostro fidato pad e provare con mano questa esperienza.
Il nostro viaggio verso la cima della montagna è organizzato in livelli separati da caricamenti e sta al giocatore decidere se tirare dritto fino alla fine o se dedicarsi all’esplorazione, svelando i misteri nascosti nelle rovine di un popolo ormai scomparso. Anche dopo aver esplorato ogni anfratto difficilmente avremo un quadro completo; la storia di Journey è infatti criptica e aperta a diverse interpretazioni. Il nostro personaggio si muove aggraziato in ambientazioni invase da una stupenda sabbia dorata e utilizza un particolare suono per interagire e dare letteralmente vita a dei pezzi di tessuto, capaci di formare dei percorsi da seguire per poter proseguire. Ci si può anche librare sfruttando un qualche potere legato alla sciarpa indossata dal nostro avatar. Questo potere può essere potenziato trovando dei simboli luminosi sparsi per le mappe. Il fulcro del gameplay è riassumibile in queste poche righe.
Quello che non si può riassumere in poche righe sono le sensazioni che si provano mentre si è immersi in un mondo artisticamente perfetto e accompagnati dalla splendida colonna sonora orchestrale.
Journey non è necessariamente un’esperienza solitaria, se si è connessi a internet è infatti possibile incontrare altri giocatori. Ciò non trasforma la produzione in una vero e proprio gioco cooperativo; non c’è alcun modo di comunicare in maniera strutturata coi nostri compagni di viaggio, né è richiesta coordinazione o collaborazione per andare avanti. Si tratta in sostanza di condividere con altri l’esperienza.

Vi piace Journey ma preferite il nuoto alla camminata? Allora prendete in considerazione ABZU, non a caso realizzato da alcuni dei creatori del gioco di cui ho appena parlato. Tanti sono gli elementi simili: comparto artistico, musiche, un’antica civiltà caduta di cui scoprire la storia. Sarebbe però ingiusto e riduttivo considerarlo un semplice Journey negli abissi, sia per la totale assenza di una componente multigiocatore, sia perché la storia, che si fa portatrice di un forte messaggio ecologista, è di stampo più fantascientifico ed è narrata in maniera più diretta.
Qualche mese fa lo sviluppatore di Journey ha pubblicato un vero e proprio seguito spirituale che spinge ancora di più sulla condivisione dell’esperienza, Sky: Children of the Light. È un titolo free to play per adesso confinato sulle piattaforme Apple, ma è previsto il suo arrivo anche su Android, console e PC. Mi riservo di parlarne in un secondo momento, non essendo grande fan del sistema di controllo via touch.
The Vanishing of Ethan Carter
Il detective Paul Prospero si reca nella Red Creek Valley dopo aver ricevuto una lettera dal giovane Ethan Carter, scomparso nel nulla. Arrivato a destinazione, avrà a che fare con eventi apparentemente inspiegabili e con gli oscuri segreti della famiglia del bambino.

The Vanishing of Ethan Carter cammina sulla sottile linea che divide il walking simulator dall’avventura grafica in prima persona. Certo, si cammina parecchio e il comparto narrativo ispirato alle opere di Lovecraft è predominante, ma c’è anche un gameplay ben presente, che richiede un minimo di impegno. Prospero è infatti chiamato non solo a risolvere alcuni enigmi, ma anche a sfruttare i suoi poteri paranormali per ricostruire la linea temporale di alcuni eventi, fondamentali per capire cosa è successo nella valle prima del suo arrivo. È stata anche inserita una sezione stealth dalle forti tinte horror, che prevede il game over in caso di fallimento.
Il gioco è strutturato come un vero e proprio open world e permette un certo grado di libertà nella scelta di dove recarsi, pur nei limiti imposti dello sviluppo della storia. I ragazzi di The Astronauts hanno deciso di non prendere per mano il giocatore, che non ha a disposizione indicatori da seguire e deve capire autonomamente le meccaniche (io stesso ammetto di aver avuto qualche difficoltà inizialmente). Niente di trascendentale, sia chiaro, ma si tratta di caratteristiche che rendono Ethan Carter un gioco più “completo”.

Tutto questo ha come collante un comparto tecnico a dir poco sontuoso, che ha poco da invidiare a produzioni ben più blasonate e costose. Merito dell’Unreal Engine e della tecnica della fotogrammetria, che permette di dare alle ambientazioni un aspetto ultra-realistico, in particolare per quanto riguarda gli elementi naturali.
What Remains of Edith Finch
Siamo in mezzo a un fitto bosco, davanti a noi si staglia una casa un po’ sbilenca, che ricorda vagamente la Tana vista nella saga di Harry Potter. È la casa della famiglia Finch. Edith Finch, 17 anni e ultimo (o forse no) membro in vita della famiglia, ha deciso di tornare nel maniero dopo tanti anni di assenza per scoprire le storie degli altri membri della dinastia, tutti morti in circostanze tragiche. Unico strumento a sua disposizione è una misteriosa chiave consegnatale dalla madre.
Volete sapere il resto? Qui trovate la mia recensione.

Vari ed eventuali
Ecco un’ulteriore carrellata di giochi a cui dedicherò meno spazio, dato che, pur senza essere necessariamente brutti, sono comunque meno meritevoli di quelli appena descritti.
Proteus
Qui ci troviamo davanti a un prodotto estremamente minimale, vista la grafica Lo-Fi e la durata molto limitata. Il fulcro di Proteus non è tanto l’esplorazione di una misteriosa isola generata proceduralmente, quanto la musica dinamica che ci accompagna mentre passeggiamo per l’ambientazione attraversando le quattro stagioni. Siamo davvero ai limiti della pura esperienza contemplativa.
Virginia
Un altro gioco dove la musica, registrata dal vivo dall’Orchestra Filarmonica di Praga, giganteggia. Si tratta di un thriller in prima persona fortemente influenzato da serie televisive come Twin Peaks e X-Files. La particolarità sta nella scelta di raccontare l’intera storia con un montaggio prettamente di stampo cinematografico, ma senza alcun dialogo. La volontà di osare è apprezzabile, ma ritengo il risultato finale troppo spesso confuso.
Gone Home e Tacoma
Li metto insieme, nonostante abbiano presupposti ben diversi. Il primo non è altro che una storia d’amore raccontata attraverso l’esplorazione di una casa durante gli anni ’90, il secondo è invece ambientato nel futuro, a bordo di una stazione spaziale sull’orlo della catastrofe. Devo ammettere che i due giochi dello sviluppatore Fullbright non mi hanno mai entusiasmato, ma non sono comunque da buttare.
Firewatch
Il gioco di Campo Santo può contare su un bel comparto artistico, un’atmosfera coinvolgente e un rapporto tra i due protagonisti (tutto via radio) ben delineato. Peccato che la trama principale, dopo aver sapientemente costruito un senso di inquietudine e mistero, si perda completamente nell’atto finale, rovinando un’opera che aveva i presupposti per confrontarsi ad armi pari con i mostri sacri del genere.

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