La comunicazione tra linguaggi
Non è strano nel mondo dell’intrattenimento digitale essere appassionati di più forme di arti visive e narrativa. Dopotutto si tratta letteralmente di creare nuovi mondi e di viaggiarci dentro. Ed ecco che inizia un desiderio dietro le nostre teste, un pensiero: “quanto mi piacerebbe un gioco ambientato in questo universo”. Poi la mente scorre tutti gli adattamenti da altri media più o meno discutibili da cui siamo passati e lo seppelliamo subito, ma non credo di sbagliare se dico che qualsiasi giocatore vorrebbe un gioco ben fatto e dal gameplay ben progettato in un mondo cinematografico che gli è piaciuto. Quello che mi piace chiamare “il gioco che non è ancora successo”.
Dobbiamo affrontare subito l’elefante nella stanza: far comunicare differenti media tra di loro non è affatto semplice, anche quando sembra che i punti in comune siano molti. Prima di tutto è importante che tra gli addetti ai lavori ci siano fan dell’opera originale, che la abbiano se non capita, almeno letta/vista/giocata, che partano dalle stesse informazioni dei fan che certamente andranno a vedere gli adattamenti, cosicché, fedeli o divergenti che siano, saranno almeno opere consapevoli.

Questa è una situazione che si può risolvere facilmente, è sufficiente coinvolgere consulenti dal media originale, fruirne in prima persona e confrontarsi. C’è però qualcosa che invece è irrisolvibile, un problema strutturale: quello dei tempi. Nei videogiochi siamo noi a decidere quando la situazione procede. Non importa quanta buona volontà abbia un eventuale regista che volesse adattare per il grande schermo Resident Evil 2, quando arriverà il momento di riproporre l’atrio ogni cosa che può fare sarà sbagliata. Tutti noi sappiamo cosa abbiamo fatto esattamente in questo atrio, quali porte abbiamo osservato per prime, se abbiamo salito le scale da destra o da sinistra, quanto abbiamo apprezzato l’acustica che riflette l’ampiezza della stanza. Nel mio caso ho camminato lentamente per 15 minuti abbondanti, affascinato dal contesto di avere una stazione di polizia costruita dentro un’ex galleria d’arte. La musica, l’atmosfera, l’illuminazione nel remake mi avevano completamente assorbito. O che dire di quando entriamo nell’ufficio S.T.A.R.S.? La musica si fa nostalgica e misteriosa, Claire ha assolutamente qualcosa da cercare qui. Indizi, ricordi, risposte. E i giocatori che sono passati dai capitoli precedenti sanno esattamente a chi appartiene ogni singola scrivania. Anche qui, quanto tempo abbiamo passato in questa stanza? Cosa siamo andati ad osservare per prima cosa? E con quale personaggio?
Un film e un videogioco non avranno mai gli stessi tempi
Il problema dei tempi si ripercuote anche nella direzione opposta, nell’adattare da film a gioco. Come ci dimostrano molti adattamenti videoludici del passato, la soluzione più semplice è ricalcare gli eventi del film in questione e tentare di uscire quanto più a ridosso di esso possibile. Ma come si stira una storia lunga 2 ore fino a ricavarne 6-8? Semplice, inventando di sana pianta segmenti aggiuntivi tra un momento cardine e l’altro e rielaborando in forma giocabile le scene fondamentali. Peter Jackson’s King Kong di Ubisoft Montpellier è un perfetto esempio di questo approccio, che pur personalmente avendolo apprezzato, se ne uscì con alcune trovate interessanti. La totale assenza di HUD, il pulsante apposito per controllare le munizioni rimaste con il personaggio che lo dirà ad alta voce, i compagni che ci zittiranno se lo faremo in un momento furtivo, la dinamica del fuoco. Tutte situazioni che nel film non si presentano e dal quale era difficile pensarci un first person shooter. Eppure eccolo qui. Gli eventi sono gli stessi del film, ma il come si presentano e la distanza tra di essi sono ampiamente reinterpretati, creando a tutti gli effetti una versione alternativa e quindi la domanda: “ma mi è piaciuto di più il film o il gioco?”. Ironico che 2 opere così collegate tendando a portare una scelta di preferenza.

Difficile non pensare anche alla prima fase dei supereroi Marvel: c’è stato un momento storico in cui se un film d’azione con i mantelli arrivava al cinema c’era una certa probabilità che a breve sarebbe arrivato anche il videogioco correlato. Iron Man, Hulk, Thor e Captain America hanno avuto tutti quanti i rispettivi adattamenti, ma purtroppo si sono rivelati giochi uno più dimenticabile dell’altro. Con l’eccezione di Cap che racconta eventi diversi, il vincolarsi in modo così forte a un singolo film significa condividerne il destino. Se avrà successo il tie-in si potrebbe prendere la sua fetta. Se il film si rivelerà deludente il gioco partirà già zoppo, pure se dovesse essere un prodotto di qualità. Ma in tutti i casi, man mano che l’entusiasmo per il film scende, scenderà anche quello per il gioco.
Come rispondere quindi al desiderio di far giocare i fan del film X nel loro mondo preferito, staccandosi quel tanto che basta dal film per poter camminare, riuscire o fallire con le proprie gambe? Ma non così tanto dal sentire la storia del film troppo distante, fino a questionare persino perché il gioco ha quel titolo? C’è un approccio che prova a dare una risposta. Faremo un percorso un po’ contorto ma seguitemi, vi prometto che ha un lieto fine.
Un altro approccio
La prima premessa di chi fa adattamenti di questo tipo è l’umiltà: l’umiltà di essere arrivati dopo, l’umiltà di riconoscere che il gioco che sta facendo esiste grazie a qualcun altro che ha battuto la strada, l’umiltà di creare situazioni che non devono contraddire quanto avviene nell’opera principale. La seconda è la creatività perché è proprio quando arrivano i limiti, quando si mettono i paletti, che essa viene stimolata al massimo. In un processo creativo ideale tali paletti sono inseriti dall’autore stesso. Qui la differenza è che sono stati stabiliti da qualcun altro, mettendo i creativi nella situazione di dover creare qualcosa con limiti che non necessariamente apprezzano. Ma il loro rimane un lavoro di creazione e quindi un lavoro di arte.

Di cosa sto parlando? Di quello che da qui in poi chiameremo “adattamento satellite”. Del gioco che riconosce gli eventi del film, ma racconta un’altra storia, con magari anche altri personaggi, nello stesso universo. Gli eventi del film sono accaduti, stanno accadendo o accadranno e il gioco li riconoscerà come veri. E proprio questo gli darà la base solida per raccontare la propria storia. Sto parlando dell’avventura grafica di Blade Runner di Westwood Studios, dove nei panni di un altro cacciatore di replicanti alle prese con il suo lavoro, sentiamo nominare Deckard di quando in quando. O di Enter the Matrix di Shiny Entertainment, dove vediamo che non era solo l’equipaggio capitanato da Morpheus a farsi il mazzo. O di Tron 2.0 di Monolith Productions, che reinterpretava in chiave FPS con elementi adventure la realtà informatica del primo leggendario film.
Adattamenti che fanno innovazione. È possibile?
Credo di sì e ho portato con me un trio che credo sia arrivato dove è arrivato perché si è vincolato ai film e non nonostante. Tron 2.0 di Monolith Productions rinuncia persino a fare le “cose cool” quando avrebbe potuto: le corse con i motocicli vanno ancora soltanto per linee rette mantenendo l’estetica minimale. Il mondo non è techno-dark come tentò di proporre Tron Legacy, ma anzi è coloratissimo, quasi stancante alla vista. Il resto del gioco vede l’intero universo attraverso il filtro informatico, cosicché le armi sono “primitive” che possiamo farci comparire o scomparire in mano in modo diegetico, mentre le modifiche ad esse sono “subroutine”. Gli abitanti di quel mondo non vivono vite, bensì cicli di sistema. C’è persino un sistema di gestione dell’inventario in cui dovremo scegliere quale equipaggiamento comprimere per poterlo portare con noi. E speriamo di restare nelle grazie del Kernel…
Il film dà la chiave di lettura a un gioco che ne fa la sua stessa personalità e il bello è che proprio per questo è unico. Non c’è un gioco che propone un’esperienza simile a quella di Tron 2.0. Questo approccio garantisce il successo? Assolutamente no. Enter the Matrix non fu esente da critiche e sempre restando sul tema informatico, Tron Evolution di Propaganda Games, il tie-in di Tron Legacy, non ebbe fortuna. Sebbene sia a sua volta un adattamento satellite si è rivelato un gioco derivativo e con poche idee, a riprova che il talento degli sviluppatori è comunque essenziale per la riuscita del progetto.

Ed è ancora meglio quando il film e il videogioco hanno personalità in comune negli studi di sviluppo. Chronicles of Riddick: Escape from Butcher Bay di Tigon Stusios e Starbreeze Studios è un perfetto esempio di una sinuosa danza tra film e gioco. In una galassia sconfinata, un ricercato dal passato misterioso viene continuamente braccato da cacciatori di taglie. La sua capacità dalle origini non chiare è di poter vedere al buio. Il prezzo è di venire accecati dalla luce se non indossa occhiali oscurati. La sua situazione gli impone di agire in modo furtivo. Stop, il pitch di una potenziale esperienza videoludica è già pronta. Partendo da qui il gioco racconta l’evasione dal famigerato carcere di Butcher Bay facendo un po’ di chiarezza anche sulla backstory degli occhi luminosi che il protagonista si ritrova.
Che dire invece di Alien Isolation di Creative Assembly? Dopo molti tentativi derivativi e per certi versi ovvi di proporre un gioco sullo xenomorfo, Isolation finisce per essere il primo che ha ascoltato il primo film e il primo ad essere diventato un classico che non invecchia. Dal primo film prende in prestito l’estetica, l’impreparazione dei protagonisti, introducendo persino tecnologia dai film successivi (il celeberrimo rilevatore di movimento). Ma tutto ciò danzando con le suggestioni del film e non soltanto usandoli come scalino. In effetti proprio il primo film dà l’input narrativo: nei panni di Amanda Ripley, figlia della protagonista del primo Alien, stiamo ancora cercando di venire a patti con il fatto che la madre è dispersa/morta. Ad un certo punto arriva la comunicazione che la scatola nera della Nostromo, la nave sulla quale Ellen Ripley lavorava, è stata recuperata e trasportata sulla Sevastopol, il più vicino avamposto abitato. Purtroppo non è l’unico extra arrivato a bordo…
Nel corso del gioco avremo modo di riconoscere numerose citazioni dal film, ma anche nuove storyline di approfondimento create ad hoc. Ad esempio verremo a scoprire di più sugli androidi e sulle lotte corporative nei loro riguardi. Scopriremo che l’LV-426 è ancora meta di viaggiatori spaziali. Verremo a sapere che la Weyland-Yutani ha concorrenza. Comprenderemo che quasi tutti gli animali retrocedono al fuoco… finché non si abituano.

Sebbene gli adattamenti satellite abbiano dimostrato di avere molto potenziale videoludico, non sembrano però avere altrettanto riscontro commerciale, tanto che sinora abbiamo parlato fondamentalmente del passato. L’ultimo esperimento recente in tal senso è stato Terminator Resistance dello studio polacco Teyon. Gli stessi dello sfortunato gioco di Rambo, che salteremo in acrobatica perché quello è un tie in che riprende praticamente tutto dai film, senza risultare interessante in nulla. Come per Alien invece, questo satellite che è Resistance preferisce concentrarsi sui primi due film, senza tentare di tirare fuori qualcosa dai convoluti episodi successivi. È ormai noto infatti che più un franchise storico si prolunga, più è facile deviare così tanto dalla storia originale fino al non avere senso, quando non nel contraddirla, a volte persino volutamente. Quando una serie arriva ad avere più di quattro film è inevitabile trovare discussioni su fino a quale capitolo valga la pena seguirla. In questi casi solitamente il punto d’incontro è che i primi film sono quelli belli ed è in questa zona franca che si concentra lo studio di Varsavia. Va detto che rispetto ai salti di coraggio dei 3 giochi su cui ci siamo concentrati, Teyon ha voluto proporre un’esperienza dal gameplay più convenzionale, ma ciò non mi ha tolto una sensazione: le persone dietro a questo gioco hanno visto i primi due film, li hanno amati e hanno studiato fotogramma per fotogramma i brevi segmenti ambientati nel futuro di Skynet.
Teyon decide di raccontarci le prime fasi della guerra contro Skynet, ed è evidente come gli sviluppatori abbiano studiato fotogramma per fotogramma i film
Facendo tesoro delle suggestioni visive del futuro oscuro raccontato da Kyle Reese, che tra l’altro incontreremo nel corso del gioco, gli sviluppatori mostrano le prime fasi della guerra. Il momento in cui le armi da fuoco tradizionali nemmeno scalfiscono la corazza dei T-800 trasformando il gameplay in un nascondino dalle tinte quasi horror. Il momento in cui la ricerca dei fucili fasati al plasma diventa l’assoluta priorità della resistenza. Il momento in cui il T-850 Infiltrator fa la sua prima comparsa, instillando nei ribelli la paura dei propri compagni. E infine un altro avvenimento che non svelo perché sarebbe spoiler gravissimo. Quello che voglio dire è che Terminator: Resistance avrebbe potuto giocare sul nuovo, avrebbe potuto inventare moltissimo grazie alla sua ambientazione solo brevemente accennata nei film a cui si riferisce. Tuttavia sceglie invece di “non inventarsi niente” e di creare piccoli eventi che vanno a collocarsi nella trama macro originale, approfondendola, ma senza mai contraddirla. Una storia che non serve alla fruizione dei film, ma che per taluni fan appassionati può essere una deliziosa ciliegina sulla torta: la possibilità di vedere di più di quel mondo. Proprio QUEL mondo.

Per proseguire la filosofia proprio Teyon ha in questo momento in produzione Robocop: Rogue City. Anche qui ci sono pochi dubbi su dove hanno piazzato i paletti. Pur avendo avuto a disposizione un reboot dal design più slanciato e cool, l’agente Murphy che vediamo qui è quello classico, pesante, cromato, che si muove in quella Detroit precedente agli smartphone dipinta da Paul Verhoeven. Non è chiaro se ci sarà un film in particolare a cui il gioco si riferirà e lo dico, aver visto nel trailer così tanti combattimenti e così pochi momenti di indagine mi ha lasciato freddino. I film contemplano anche momenti ironici in cui la natura di metà macchina, metà uomo, tutto poliziotto dell’agente Murphy viene fuori e spero ci siano anche momenti più calmi e investigativi.

Ma sto divagando. Ci sono molti altri giochi che potrei menzionare tra un Gollum di prossima uscita che di certo suscita la mia curiosità e un molto discusso Hogwarts Legacy, ma il punto a cui volevo arrivare con questa nostalgica pappardella è che il rispettare il materiale sorgente è un limite. Certo, è ovvio. Ma è un limite che aiuta, che dà basi sulle quali costruire. Il world building è già bello pronto, con le sue regole e i suoi punti fermi, ma all’interno di quel box si può ancora fare moltissimo e i giochi di cui abbiamo parlato lo dimostrano. Si possono trovare soluzione estetiche, narrative e di gameplay innovative e/o singolari proprio sulla base di quanto già c’é, continuando a costruire insieme facendo sinergia tra i media. Invogliando i fan dei film ad avvicinarsi a un gioco che “non glielo rovini”, così come chi parte dal gioco a recuperare le vecchie pellicole, favorendo così un incontro intergenerazionale e transmediale, una discussione condivisa su quell’universo. Adattare l’inadattabile? Sono d’accordo sulla difficoltà della sfida. Ma proprio per questo è interessante.
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