I doppia A salveranno il mondo

Indie, tripla-I, doppia-A, tripla-A e da poco addirittura quadrupla-A: la categorizzazione del videogioco in base agli investimenti fatti per la sua produzione si espande di giorno in giorno di nuove voci, nel tentativo di inquadrare le opere non più con la lente delle meccaniche o del genere narrativo di riferimento, ma anche e prima di tutto secondo il classico, e un po’ cafone, principio di “quanto vale”. Dico prima di tutto perché l’inquadramento in una categoria di valore economico porta con sé diversi aspetti più o meno impliciti o espliciti, alcuni dei quali quantificabili come la durata o il prezzo attesi, e soprattutto il rapporto tra questi, e la soglia minima di “grafica accettabile”, solo per citarne alcuni, e altri invece più relativi al valore intrinseco dell’opera, più o meno sperimentale a seconda del budget allocato e quindi più o meno utile al proprio status di sommelier del videogioco.

Sarebbe fuorviante dire che nulla di questo è vero, perché c’è della realtà anche in queste manichee generalizzazioni, ma credo sia cosa sana e funzionale al dibattito il tentativo di abbracciare la complessità, non con la volontà di sbrigliarne i nodi ma solo con l’intento di indicarli. Il mercato tripla-A, accusato di essere conservativo e privo di idee, sempre più prono a proporre sequel, spin-off, remake, remastered e riproposizioni di qualsiasi tipo prima di nuove IP o progetti coraggiosi, è così per un motivo preciso e la spiegazione è facilmente individuabile nel sistema economico in cui viviamo oltre che nelle abitudini di pubblico. Partendo dalle abitudini di pubblico, credo sia importante notare come il mercato dei videogiochi viaggi su binari paralleli che raramente si incontrano (Elden Ring è un buon punto di incontro): da una parte c’è il pubblico interessato al videogioco come linguaggio complesso, e dall’altra c’è quello che lo percepisce come un divertissement. Prendendo per semplicità i dati del 2021 di IIDEA è abbastanza facile notare, anche solo a partire dai principali canali attraverso i quali le persone si informano, quale delle due categorie sia più numerosa.

A un pubblico che ricerca il comfort della familiarità non si può chiedere di giocare un Kentoucky Route Zero senza addormentarsi, e ci tengo a precisare che questo non vuole assolutamente essere un giudizio di valore. In un qualsiasi linguaggio ci sono opere di diversa complessità e profondità, o più banalmente opere con obiettivi diversi. Non c’è errore nel preferire una cosa all’altra, ma c’è errore nel pensare di voler leggere un settore così complesso sotto la sola lente dell’hardcore gamer senza capire che la situazione è un pochino più articolata.

Si diceva quindi: la quantità di pubblico. La maggioranza di pubblico acquista pochi giochi l’anno, normalmente quelli con un marketing più aggressivo e quelli con cui ha familiarità. Questo pubblico deve o fidelizzarsi o rimanere fidelizzato per un motivo molto semplice: gli investimenti nei giochi AAA sono enormi. Gli studi coinvolti nella realizzazione di un singolo videogioco, tra outsourcing e studi interni, danno lavoro a una quantità enorme di persone, tra sviluppatori, artisti, reparto marketing, reparto commerciale e via dicendo. Non è possibile pretendere che gli investitori di questo tipo di prodotti si prendano il rischio di deludere un’utenza che vuole una cosa specifica, e poco male se è il gioco che è uscito l’anno prima con poche modifiche. Quando si parla di questo tipo di investimenti normalmente non si parla di opere, ma di prodotti. Gli appelli a smettere di comprare Call of Duty o qualsiasi altro franchise di questo tipo sono ridicoli per il solo fatto che evidentemente provengono da chi crede che la sua bolla social sia la realtà dei consumatori.

I videogiochi ad alto budget diventano di anno in anno più grandi, più estesi, più pieni di cose da fare per allungare il brodo, e di conseguenza anche più costosi. Il project management triangle spiega graficamente questo concetto:

Il triangolo si spiega in breve: delle tre voci ne puoi avere due soltanto. Il problema è che i videogiochi ad alto budget le vogliono tutte e tre. Dovendo così uscire spesso in tempi specifici (e basta pensare alle date di uscita annunciate anni prima e ai continui rinvii), con budget enormi ma comunque non infiniti e uno scope (la portata, l’estensione) di progetto sempre più esteso, è abbastanza chiaro che quello che normalmente viene sacrificato è al centro del triangolo: la qualità.

Poco male però, perché la qualità per il pubblico di riferimento è diversa da quella che forse potremmo ritenere oggettiva di un’opera completa e complessa. Anche qui, nessun giudizio di valore.

C’è anche da notare che quando sul mercato tripla-A si sono affacciati prodotti più complessi lo hanno fatto sacrificando una delle tre voci del triangolo (The Last Guardian ad esempio con i suoi biblici tempi di sviluppo, o Metal Gear Solid V dove si è sacrificata una porzione del racconto), e quasi sempre la reazione di pubblico è stata tiepida. Pensiamo ad esempio a Death Stranding, un gioco con un budget enorme che, probabilmente sacrificando i tempi di sviluppo, esce e si rivela essere un’opera eccezionale e complessa… ma delude molti. Questo perché il pubblico di riferimento che era stato agganciato dall’ottimo marketing non era soltanto quello giusto per il gioco.

I GIOCHI DI RUOLO, GENERE PIÙ POPOLARE DEI NOSTRI GIORNI

Se guardiamo al mercato AAA contemporaneo, tutto è un po’ un RPG: dallo sparatutto al normale gioco di avventura, qualsiasi produzione ad alto budget incorpora elementi da gioco di ruolo. Nel momento in cui i giochi devono diventare più estesi, e magari introdurre elementi estetici o comunque che ben si sposano con sistemi di microtransazioni, il gioco di ruolo è il genere che concede più possibilità di questo tipo. Ovviamente si parla di RPG non in senso stretto, ma semplicemente di tutte quelle meccaniche di micro management che storicamente si incontravano soltanto nei giochi di ruolo.

Questo tipo di prodotti ha per forza di cose uno scope di un certo livello: la grande epica fantasy o sci-fi, ma anche la rappresentazione storica, hanno bisogno di estensione anche solo per necessità di world-building. The Witcher 3 non sarebbe credibile in una mappa più piccola, dovendo rappresentare diverse nazioni, così come Skyrim (intesa in questo caso come regione di Tamriel) non potrebbe sembrare così “reale” se non fosse così estesa.

Se quindi è scontato che un gioco di ruolo debba essere esteso, sembra anche scontato che debba rispondere alle esigenze di mercato tipiche di un tripla-A, dovendo soddisfare una certa fetta di pubblico che è l’unica abbastanza ampia da permettere di giustificare gli investimenti fatti. Se possiamo individuare il grande passaggio dell’RPG da genere di nicchia a genere di massa con Oblivion e la sua pubblicazione su console, è evidente come il successo di Skyrim, The Witcher 3 o Fallout 3 sarebbe stato imprevedibile diversi anni fa, quando Morrowind, The Witcher o Fallout 2 erano giochi per hardcore gamer. Allo stesso tempo è evidente come il pubblico di riferimento dei titoli appena citati sia piuttosto diverso da quello di Baldur’s Gate 3, Divinity: Original Sin o Greedfall.

Se però Bethesda è riuscita in qualche modo a mantenere a fuoco la sua visione del gioco di ruolo, il resto dell’industria (sia occidentale che orientale in questo caso) sembra faticare a trovare una quadra nel tentativo di sviluppare un RPG trasversale che possa però ancora dirsi un RPG. È evidente con le ultime pubblicazioni di Bioware (dove per ultime intendo tutto quello che è uscito post Dragon Age: Origins), ma anche guardando a The Witcher 3. Il linguaggio del gioco di ruolo ha smesso di essere quello dell’interpretazione del personaggio per favorire la grande narrativa popolare, le storie epiche di ampio respiro con personaggi carismatici che bucano lo schermo e le “scelte mature” che difficilmente sollevano una questione rilevante e spesso si riducono nell’essere più o meno accomodanti nei confronti delle richieste dei personaggi secondari, o nello scoprire poi che l’NPC che sembrava essere malvagio aveva in realtà le sue ragioni. Il gioco di ruolo, dovendo come detto rispondere a determinate esigenze, sembra avere intrapreso la “via Playstation” del gioco cinematografico, che è tutto l’opposto di quello che di caratterizzante c’è in un RPG.

Il linguaggio del gioco di ruolo ha smesso di essere quello dell’interpretazione del personaggio per favorire la grande narrativa popolare

Lo dico di nuovo: anche in questo caso non c’è un giudizio di valore. The Witcher 3 è uno dei miei giochi preferiti della scorsa generazione, ad esempio. È però innegabile che CD Projekt RED abbia scritto una grande avventura più che un grande gioco di ruolo. Il percorso di Geralt è predefinito, e il gioco è scritto perché ci si comporti in un certo modo. Se poi si vuole rispondere male a tutti si può fare, ma il gioco non è pensato con quella finalità. È più un rispondere correttamente o meno, che libertà di interpretazione. Si potrebbe obiettare che il personaggio di Geralt è un personaggio preciso e quindi sia corretto che non si abbiano troppo margini di interpretazione, ma comunque non si tratta di un gioco di ruolo.

Già nelle opere Bethesda, potendo interagire come si vuole con qualsiasi oggetto o PNG del mondo di gioco, le possibilità si ampliano, facendo di Skyrim un RPG che funziona molto meglio nella narrativa emergente e nel gameplay emergente che non in quello che si trova sui binari posati dagli sviluppatori.

doppia a

Lo stesso Mass Effect, probabilmente la saga sci-fi più apprezzata dal pubblico (e forse anche l’unica space opera tripla-A), inizia con un primo capitolo dal sontuoso world building con buone meccaniche RPG per finire già dal secondo capitolo a essere l’ennesimo TPS con le coperture e un cast di personaggi “memorabile”.

Probabilmente l’elefante nella stanza in questo caso è Cyberpunk 2077, con i suoi otto anni di sviluppo e la sua martellante campagna di marketing che prometteva un vero gioco di ruolo, con libertà di interpretazione, fazioni, una storia matura in un universo cyberpunk e un mondo credibile e immersivo (immersivo è la parola che più di ogni altra va a braccetto con gli RPG), il tutto condito da meccaniche da immersive sim calate all’interno di un contesto open world. Ecco, ricordate il triangolino di prima? la parte di “scope” gli è probabilmente sfuggita di mano – e forse anche quella di “time”. Questa non vuole essere l’ennesima critica a Cyberpunk 2077, se ne è parlato tanto e io ne ho già scritto qui, ma credo che l’esempio sia importante per capire quale direzione cerca di intraprendere il mercato nel tentativo di aumentare sempre di più le dimensioni dei propri progetti, cercando di rivolgersi alla più ampia platea possibile perché questo è l’unico modo per portare avanti lo sviluppo di opere così ambiziose, per poi trovarsi con risultati deludenti. Non videogiochi brutti in senso stretto, ma cose che vorrebbero fare tutto senza riuscire davvero a fare bene niente, con una direzione convulsa che non riesce ad avere chiaro quale sia lo scopo ultimo del gioco se non farci investire decine e decine e decine di ore a ripetere attività su mappe artificialmente enormi.

CI SALVERANNO I DOPPIA A

Forse ho tratteggiato uno scenario desolante. La realtà è che se andiamo a guardare nelle produzioni meno note, c’è molto di cui essere contenti. La volontà di scrivere quanto state leggendo nasce dalla mia seconda partita a Greedfall, che con tutte le sue piccole ingenuità reputo essere uno degli RPG più interessanti usciti negli ultimi anni. Lo sviluppatore, Spiders, non è certo alla sua prima esperienza, ma è probabilmente al primo titolo che si può dire veramente riuscito.

Greedfall è un gioco che vale la pena giocare perché, contrariamente ai suoi fratelli più danarosi, è un gioco che ha ben chiaro in mente quali sono i suoi obiettivi e come portarli avanti, e sicuramente anche in virtù del suo pubblico di riferimento non ha bisogno di riempire il tempo di gioco con migliaia di quest superflue e un mondo di gioco artificialmente espanso. Non prova neanche più di tanto a rendere appetibile il suo sistema di combattimento, che nonostante sia fondamentalmente action con la pausa tattica richiede una certa dose di pianificazione, contrariamente alla maggior parte – se non tutti – dei tripla A sopra citati.

doppia a

Si allontana anche dagli stilemi dell’high fantasy o della fantascienza per esplorare qualcosa di nuovo, ovvero la conquista delle Americhe declinata però in chiave fantastica, con una mitologia di sottofondo che strizza l’occhio proprio a una certa tradizione magica americana. Mettendo inoltre il giocatore nei panni di un diplomatico, si distanzia dal racconto dell’eroe per metterci tra le mani una missione di diplomazia, di pacificazione della difficile situazione di convivenza tra le istanze politiche dei conquistatori, divisi tra chi vorrebbe portare la sua fede agli eretici nativi e chi cerca risposte scientifiche, e i nativi, che da un giorno all’altro hanno visto lo straniero tecnologicamente più avanzato piombargli in casa.

Si riesce così a plasmare un racconto in cui è possibile scegliere tra chi parteggiare, e in cui i rapporti con i nostri compagni di squadra, ognuno di diversa estrazione, risentiranno fortemente delle posizioni che decideremo di prendere durante il corso dell’avventura. Quello che però è più interessante in Greedfall è l’ottima amalgama che viene a crearsi tra missioni principali e secondarie, il confine tra le quali sfuma a tal punto che non si riesce più a dire se si sta seguendo la main quest oppure un incarico datoci da uno dei nostri compagni di avventura. Il tutto con mappe sì estese, ma mai sterminate nelle quali è necessario camminare ore per riuscire a sbloccare ogni segnalino con un punto interrogativo.

Vi ho parlato qui di Greedfall perché è quello che ha spinto me a riflettere su questa situazione, ma lo scenario delle produzioni più limitate è estremamente variegato e pieno di titoli di valore. Alcuni dei quali spesso non bene accolti dalla critica anche perché non rispettano determinati standard settati appunto dal grande RPG ad alto budget. Abbiamo quindi oltre a un problema di standard, anche un problema di analisi in molti casi.

Un altro esempio virtuoso è Elex, giunto recentemente al secondo capitolo, in cui i veterani di Piranha Bytes riescono a creare un mondo fantascientifico post apocalittico in bilico tra la scienza più sfrenata e il ritorno al medioevo, in cui i rapporti tra le fazioni oscillano costantemente a seconda delle nostre scelte. Oppure Divinity: Original Sin, che ha di fatto ripensato il sistema di combattimento a turni creando un sistema di reazioni elementali e interazioni con l’ambiente in grado di rendere ogni battaglia un piccolo capolavoro di gameplay emergente.

doppia a

Quello che è importante notare è come la limitazione di budget e tempo, e quindi anche di prospettive di vendita, spinga sovente gli sviluppatori a concentrarsi su alcuni aspetti e a rendere questi aspetti perni del gameplay, dei veri unique selling point per dirla come gli esperti di marketing. Questo spinge le community ad affezionarsi a un modo specifico di fare RPG, ed è evidente la passione quando si fa un giro sulla pagina Facebook di Elex e si leggono i commenti. Gli Elex hanno entrambi circa 65% di recensioni positive, su Metacritic, se prendiamo quelle della stampa.

Ovviamente questo non significa che gli RPG con budget limitati siano tutti bellissimi e perfettissimi mentre quelli con investimenti maggiori siano giochi orribili. I vari Elex o Greedfall hanno la loro buona dose di problemi, e certamente su certi aspetti avrebbero giovato di qualche investimento in più. D’altra parte però sono anche titoli che riescono ad avere delle identità più marcate rispetto al cyberpunk tutta estetica e poca sostanza di Cyberpunk 2077, un gioco che ha comunque la sua buona parte di problematiche.

LA CORSA AL BLOCKBUSTER

Senza voler suggerire soluzioni credo sia utile riflettere quindi su cosa comporti il voler sempre crescere dell’industria del videogioco. Chiaramente la crescita costante è una condizione che ritroviamo in qualsiasi realtà industriale, ed è un problema insito nel nostro sistema economico. Nel caso in analisi però a risentirne è la qualità dei prodotti, anche se probabilmente la maggioranza di pubblico non percepisce la tendenza come una diminuzione qualitativa quanto un’estensione delle loro serie preferite. Fino a che non gli vengono a noia, così che le aziende debbano ripensare l’intera serie da capo e ricominciare a costruire fino all’infinito, fino alla successiva saturazione.

Individuare una colpa è un esercizio di stile in questo mercato e in questa epoca, perché il reparto marketing fa da padrone in qualsiasi settore e anche l’informazione deve seguire i trend di interesse di pubblico, a loro volta stimolati dai reparti marketing. Ritagliare spazi per comunicare che c’è tanto altro da giocare, tanti altri prodotti di qualità che varrebbero l’investimento (il nostro) più dell’ennesimo tripla A non è semplice quando si devono far quadrare i conti. È però necessario almeno eticamente, soprattutto se si vuole intraprendere un ruolo attivo di educazione dell’utenza, facendo il nostro per parlare di videogiochi come un linguaggio oramai maturo.

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  • Luca Marinelli Brambilla

    Direttore Editoriale di Stay Nerd dal 2018. Laureato in Editoria e Scrittura dopo la triennale in Relazioni Internazionali, decide di preferire i videogiochi e gli anime alla politica. Da questa strana unione nasce il suo interesse per l'analisi di questo tipo di opere in una prospettiva storico-politica. Tra i suoi interessi principali si possono trovare i Gunpla, il tech, la musica progressive, gli orsi e le lontre. Forse gli orsi sono effettivamente il suo interesse principale.

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