Nota: sono presenti piccoli spoiler di giochi risalenti a dieci o quindici anni fa.
Inizialmente questo articolo doveva avere un tono un filino più polemico. “Cultura pop giapponese sopravvalutata”, bla bla bla, questi concetti un po’ così, che fanno tanto Kotaku. Penso che sia infantile, guardo un filmato di gameplay di Final Fantasy VII Remake e automaticamente la mia mente va verso quella linea di pensiero — sicuramente fallace — per cui capriole improbabili ed esplosioni megagalattiche appartengono al reame del puramente adolescenziale. Assisto alle narrazioni tipicamente da shonen di titoli come Valkyria Chronicles e Sword Art Online, a base di abbondanti spruzzate di “potere dell’amicizia”, e provo un profondo senso di imbarazzo. Guardo l’esaltazione dell’esagerazione, dei personaggi che urlano stupiti manco avessero perso la madre, delle puntualizzazioni improbabili e degli eventi surreali che spesso sono presenti nelle narrazioni nipponiche con una faccia confusa, chiedendomi spesso il perché. Una domanda non rivolta esplicitamente ai tropi che caratterizzano queste produzioni — in larga parte originati dai differenti contesti sociologici e culturali di una determinata società — quanto a me stesso, per la pura e semplice curiosità di capire esattamente il motivo per il quale tale mentalità (e quindi tali opere) non riesce proprio a risultarmi digeribile.

Stavo utilizzando questo articolo proprio come “passeggiata introspettiva” per pormi delle domande riguardanti il mio astio e, come sono solito fare, volevo portare avanti degli esempi più consistenti di quelli dell’introduzione. Quindi ho iniziato a riflettere, e a ricordare quali fossero i miei ultimi contatti con i media giapponesi, non esclusivamente limitandomi ai videogiochi. Ho portato avanti Valkyria Chronicles come esempio di titolo rovinato dal suo essere tipicamente giapponese: mi dispiace, esiste un numero limitato di parti in un tank che riesco a tollerare e quel numero è esattamente zero. D’altro canto, ho anche pensato al mio affetto per Resident Evil e ho riflettuto sul fatto che senza quella scintilla nipponica presente nella saga probabilmente non avrei assistito a scene epiche come questa o a quel trionfo di fanservice che è Resident Evil 6. Si, è trash come lo può essere una puntata di Ciao Darwin, ma nel complesso fa ridere e per questo la perdono. Allo stesso modo, non sono un grandissimo fan dei cosiddetti “stylish action” alla Devil May Cry e Bayonetta, ma senza un Dante che rotea in aria sparando attraverso fette di pizza, oggi non avremmo avuto Nier: Automata e il suo brillante mix tra sparatutto a scorrimento e spadate giganti.

Non è questione di “maturità”, contrariando la mia affermazione introduttiva: esistono senza dubbio un sacco di produzioni mature — che siano videogiochi, cinema o letteratura — che trattano in maniera sensibile e accurata certi argomenti pur scadendo nello stucchevole o adolescenziale, che spesso risultano immediatamente distinguibili per quello che è palesemente uno “stile giapponese”. Uno di questi è Final Fantasy VI, titolo che — non senza motivazioni — viene spesso indicato come il migliore della saga e lo fa anche grazie a una narrativa stratificata, dove il focus sui personaggi e sui loro rispettivi viaggi risolutivi ha lo stesso risalto del resto della trama, facendo perdonare momenti senza contesto come questo. Per inciso, Final Fantasy VI è stabilmente uno dei miei giochi preferiti nella mia carriera ventennale da videogiocatore. Qualcosa dovrà pur significare.

Mi ritrovo quindi ad ammettere che forse il mio disgusto è più legato a una questione di qualità che di effettivo stile, a maggior ragione se penso a uno dei generi che meno apprezzo: le visual novel. Qui su Frequenza Critica ci siamo già ritrovati a trattare di questo argomento e personalmente lo faccio con un titolo che mi ha catturato come pochi altri prodotti di questo genere. Virtue’s Last Reward è una visual novel che colpisce fin da subito con la sua atmosfera ansiogena e il progressivo dipanarsi degli eventi che diventano via via sempre meno confusi, ma non per questo meno bizzarri. Un coniglio che parla, puzzle realisticamente irrazionali, situazioni che non stanno né in cielo né in terra, plot twist dal nulla che colpiscono dove meno li si aspetta: Virtue’s Last Reward è uno di quei giochi che ama prendere il cervello e rigirarlo come un cubo di Rubik, ma nel suo relativo contesto è tutto perfettamente sensato e funzionante. Così, mi sono ritrovato alle quattro del mattino con una PS Vita ormai scarica a ripescare la mascella da terra, e l’ho fatto attraversando un’avventura con dei personaggi che paiono usciti dalla peggiore parodia di Jojo.

Questo è quello che il Giappone sa fare meglio: farsi apprezzare, nonostante tutto.
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