Chi ha approcciato un corso di una qualsiasi arte di scherma dopo essersi emozionato di fronte a un film o a un videogioco è certamente andato incontro a una sorpresa: si parla molto di postura, linee, angoli e quasi mai di combo. La prima lezione è somigliata di più a un libro di geometria che non alle acrobatiche del ninja di turno. Facilmente ci si appassiona lo stesso, ma il primo scoglio è senz’altro la decostruzione delle proprie convinzioni. Arriva presto la comprensione che molti prodotti fantasy o di ispirazione storica non si sono presi libertà solo nel modificare gli eventi, nell’inserimento di potenti demoni e ardite romance, ma anche su come le armi si muovono, con buona pace al loro peso e talvolta anche alle leggi della fisica. Ovviamente ogni gioco ha obiettivi diversi e un attaccamento dogmatico alle regole della scherma realistica avrebbe tagliato le ali a molte opere che hanno come punto forte la spettacolarizzazione, il senso di potere, il premio in punteggio e graduatorie, il carico di adrenalina da consegnare al giocatore facendogli superare sfide impensabili.
Dall’altro lato, però, capisco bene anche chi chiede almeno dei tentativi di trasporre duelli più autentici, raccogliendo l’ambiziosa eredità di quel Bushido Blade di Lightweight che nel 1997, più avanti dei suoi tempi, tentò di stabilire le linee guida per dar vita a scontri più verosimili.

Un’altra mentalità di combattimento, basata su focalizzati silenzi e non su musica galvanizzante, su avversari che si prendono sul serio e non si scherniscono, su precisi attacchi e non su spettacolari movenze; i duelli potevano essere risolti persino con un singolo, ben mirato colpo. Le arene non erano solo sfondi per dare un contesto al combattimento, bensì spazi tridimensionali in cui, volendo, era possibile mettere anche molti metri di distanza tra gli sfidanti e creare danni collaterali con i nostri attacchi. Al tempo fu memorabile vedere canne di bambù venire affettate dai nostri fendenti andati a vuoto.

L’ambizione era effettivamente più avanti della tecnologia disponibile; il livello di concentrazione tra due praticanti di scherma reale è tale che anche un minimo movimento di polso può essere decisivo e in questo senso il volume poligonale che la PS1 concedeva aveva dei limiti, ma questo non impedì di creare un intero gioco focalizzato sull’onestà di un combattimento con le lame. Una volta feriti a un braccio eravamo meno convinti con i nostri attacchi, se feriti a una gamba avremmo passato il resto dello scontro a zoppicare, quando non addirittura in ginocchio. Ma il danno portava anche un obbligato cambio di strategia: l’avversario era costretto a venirci a prendere. Non potendo inseguire, saremmo stati ad attendere, vigili, con tutta la concentrazione sulla nostra guardia. Sì, perché c’era pure differenza tra guardia alta, media e bassa, creando una tesa situazione in cui si era sempre a un attacco di distanza dalla vittoria, in cui persino un avversario ferito non era da prendere sottogamba. Anzi.
Con il tempo vedo che l’esperimento non viene più esplorato se non da un sequel, e che al netto di precisi omaggi marziali in taluni giochi, il mondo dell’intrattenimento videoludico è andato tendenzialmente nella direzione opposta dello spettro autenticità <-> finzione. Fioriscono barre di energia e barre secondarie di ogni sorta, ottenere la combo numericamente più alta diventa una sfida retribuita in punti con cui acquisire ancora più combo, c’è competizione nel creare le situazioni più galvanizzanti. Da un lato ne capisco i motivi e non disdegno a mia volta esperienze più arcade, dall’altro alzo il sopracciglio quando parlando con altri appassionati emerge l’automatismo secondo il quale un approccio realistico non è divertente, o non è “figo”.

A questo punto va a intuizione che Kingdom Come: Deliverance è uno dei miei giochi preferiti di sempre e anche oggi gli trovo qualcosa da dire. Durante la progettazione gli sviluppatori si sono rivolti a storici professionisti per tratteggiare ogni aspetto della produzione con la massima coerenza possibile ed è così che abbiamo a disposizione Fechtbuch, un intero documentario su scuole di scherma storica. Nessuna di queste insegna il doppio salto, ma c’è ugualmente molto materiale da cui un coreografo può attingere. Ovviamente poi starà al suo giudizio decidere di quanta realtà ha bisogno per supportare la fantasia a cui sta lavorando.
Ma dove porta tutto questo preambolo? Andiamo subito al punto: gli eredi di Bushido Blade sono in arrivo. Ben 2: il primo di cui parliamo è Hellish Quart dello studio polacco Kubold.

Lo provo e riconosco quell’ambizione del ’97, evoluta con la tecnologia e pronta a riportare le sensazioni di un reale duello a fil di spada. Nel momento in cui scrivo la modalità storia è ancora bloccata, ma c’è modo di riconoscere attraverso personaggi e ambientazioni la collocazione storica est europea e di provare la modalità allenamento.

Ogni personaggio è legato alla sua arma di fiducia, dallo stocco che ha quel centimetro di lunghezza aggiuntivo alle più curvilinee sciabole, passando per un sempreverde spadone a due mani. Come da buonsenso, i personaggi terranno la lama tra loro e l’avversario e una buona postura di guardia ha la funzione di proteggere in molte direzioni con minimi aggiustamenti. Per farla breve, se stiamo fermi abbiamo tutto sotto controllo a meno che l’avversario non ci carichi come un toro. L’unico modo per uscire da questo stallo è muoverci a nostra volta, usando tutta la nostra intuizione per cercare le linee scoperte dell’avversario e al tempo stesso proteggere le nostre. È frequente infatti che i duelli finiscano in pareggio, che un subdolo gioco di polso dell’antagonista ci raggiunga nello stesso momento in eravamo riusciti in un affondo. Quello che Hellish Quart riesce infatti a mostrare sono i dettagli delle armi in questione: i personaggi ne useranno ogni caratteristica, traendo vantaggio da lama, lunghezza, curvatura, impugnatura. Quando tutto dipende da un errore non si dà per scontato nulla.
Sono rimasto piacevolmente colpito e di certo sarò lì all’uscita della versione completa.

Il secondo erede è Die by the Blade del team slovacco Grindstone. Lontano dalla sobrietà storica di Hellish Quart, questo titolo sceglie invece un archetipo più tipicamente videoludico, il futuro prossimo dominato da megacorporazioni con quella punta di cyberpunk. Del resto, pericolosi guerrieri d’arma bianca fanno parte della naturale popolazione di questo genere, come ci dimostrano proprio Cyberpunk 2077 o per restare in tema di one hit kill, Ghostrunner.

Il gioco è tuttora in sviluppo e anche in questo caso vi sono esperti di arti marziali a supportare il motion capture, portando anche qui l’attenzione sull’autenticità e sulla naturale biomeccanica del corpo umano.

L’opulenza visiva prodotta da ambientazioni immaginifiche e dalle scie cinetiche dei nostri fendenti non deve quindi distrarci dal punto: un combattimento autentico è intenso, breve, e può concludersi persino con un singolo attacco. Proprio come in Bushido Blade, gli sviluppatori stanno pensando di implementare un sistema di danni al corpo che probabilmente infliggerà dei malus in caso di attacchi non letali, ma il gameplay sarà sempre focalizzato su quella tensione originale.

Probabilmente torneremo nel dettaglio su questi due ambiziosi progetti quando usciranno nella loro forma completa. Per adesso non posso che gioire nel veder tornare questa visione realistica, sperando che torni per restare.
Ma è possibile trasportare questo tipo di autenticità anche in giochi che non sono incentrati sull’1vs1? Possiamo veramente proporre a un giocatore, pur se esperto, una situazione in cui deve affrontare N avversari senza (o concedendo pochissimi) errori? Sì, penso che sia possibile, e ragionando a maglie molto larghe possiamo in realtà trovare singoli elementi di questi concetti nei più differenti titoli.
Dello storicamente accurato Kingdom Come abbiamo già parlato. Il distopico Ghostrunner rinuncia alla barra dell’energia e propone futuribili katane che non lasciano scampo, facendo dell’one hit la natura stessa del suo gameplay. The Mark of Kri viaggia nel fantasy nel 2002, ma rinuncia a barre speciali e superpoteri, piantando l’azione di spada saldamente a terra. I Soulslike, ormai diventato un genere a sé, mettono nella situazione di non sottovalutare neanche il più umile avversario, pena sonori schiaffoni sin nelle fasi iniziali.
E in tutto ciò non c’è ovviamente nulla di male in un Kratos che invece ne deve incassare proprio tante prima di andare al tappeto e che prende a calci i giganti. Ma ho spesso un prurito pensando alla scherma nel mondo dell’intrattenimento e che vi posso dire… penso che finzione e autenticità potrebbero parlarsi molto di più e spero che questi due progetti riaccendano un dialogo rimasto silenzioso per tanto tempo.
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