Heal e la dimensione della memoria

La scelta di narrare una vicenda secondo la prospettiva di un uomo in età avanzata è sempre una decisione foriera di implicazioni. Ciò è dovuto alla necessità di soprassedere rispetto alla prassi narratologica di svolgere un racconto proiettato al futuro, ripiegando, invece, il cono di visione verso un presente che si fa tuttavia specchio di un “passato che ritorna”.

Se, dunque, a essere invalso è il leitmotiv del protagonista che forgia il proprio futuro — forgiatura che spesso si approssima a un processo di conquista e dominio di un “proprio spazio nel mondo” (in tutte le poliformi e innumerevoli versioni, dall’eroe che sbaraglia forze avverse per raggiungere uno status quo, al personaggio che semiotizza la realtà circostante) — viceversa, una narrazione ricondotta al point of view di un individuo che ha già conquistato un personale avamposto nel mondo (o, magari, non ha mai avuto possibilità di farlo), segna inevitabilmente uno spostamento prospettico.

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Sorge allora l’esigenza, da parte del narratore, di “spostare il corpo” del proprio racconto da un futuro “che si sta costruendo ora” a un passato che “si fa in questo momento”. Ciò comporta che il protagonismo di un personaggio avanti con gli anni è totalmente radicato in un antefatto che ritorna nell’attuale, rivestendolo di senso, come un’onda proveniente da una tempesta in mare aperto che si infrange sulla spiaggia.

Questo ritorno al passato vale secondo due direttrici. Da un punto di vista narrativo, il fruitore può esperire quel passato in maniera diretta, ripercorrendone gli snodi in prima persona; oppure può rinvenirne le geminazioni in un racconto che cronologicamente posterga quegli accadimenti, ma di fatto ne è una rimodulazione postuma. Invece da un punto di vista, per così dire, esistenziale, un protagonista giunto alle soglie estreme del proprio corso ha, anche inavvertitamente, lo sguardo volto alle spalle; anche quando corre in avanti.

L’antefatto (ante-factum, ciò che precede lo svolgersi dell’azione drammatica) diventa dunque — in una prospettiva comunque piegata all’adesso secondo il piano temporale del racconto — la vera diegesi, il fatto, ma rimodulato secondo gli esiti che si sono già riverberati nell’adesso. In altre parole, un racconto della terza età, anche quando volto a un’ipotetica “quarta età”, è sempre e comunque situato nel foro soggettivo di un essere che ha già vissuto la sua lotta. La memoria svolge un ruolo centrale.

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In “Una Storia Vera” (The Straight Story, di David Lynch), Alvin, 73enne, compie la sua personale (e finale) impresa. Ma anche in questo caso, non si tratta che di fare i conti con il proprio passato.

Quanto espresso poc’anzi trova un’esemplificazione quasi didascalica nei lavori dello sviluppatore canadese Kan Gao. I due videogiochi (più “l’intermezzo” A Bird Story) che compongono l’universo narrativo della Sigmund Agency, To the Moon e Finding Paradise, si radicalizzano sul concetto di un passato, divenuto memoria, che informa il presente. Compito dei protagonisti dei predetti videogiochi è navigare nella memoria del paziente, allo scopo di modificare la percezione del passato personale secondo i desiderata del morente. Un passato che, privato della sua dimensione positivisticamente fattuale e reso fluido dall’incontro-scontro con l’egoità di chi lo ha esperito (avvicinandosi a quell’erlebnis husserliano), diventa il terreno di scontro in cui si svolge la narrazione di Gao.

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Finding Paradise, 2017, Kan Gao.

I protagonisti si “teletrasportano” in un mondo di mezzo, che c’è (in quanto accaduto) e non c’è (in quanto situato nei recessi della mente del paziente), con la facoltà di modificare quella materia. Cosa c’è di più espositivo di quanto abbiamo riferito in premessa? Un antefatto che si fa materia del decidere “attuale”, diffondendo i suoi effetti su un presente già dato: solo una rielaborazione della memoria, luogo di confine per eccellenza (fra la realtà e la fantasia), può produrre effetti nell’adesso.

In Heal, ultimo lavoro di Jesse Makkonen, già autore degli stimati indie horror Distraint 1 e 2, il passato e la sua elaborazione mnemonica diventano una prigione per il suo vecchio protagonista. L’opprimente sensazione di non avere altro orizzonte che quello racchiuso nei “simboli” (una realtà semiotizzata, per l’appunto, ossia uno spazio ora riconoscibile e proprio) che troneggiano nella sua memoria viene trasmessa, nell’avventura grafica dello sviluppatore finlandese, sia mediante suggestioni visive e acustiche, sia mediante la necessità di risolvere puzzle per poter “valicare una soglia”.

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Una certa estetica, nonché l’utilizzo del sonoro, possono ricordare uno dei più preziosi esponenti del genere survival horror dell’ultimo periodo, Detention, di Red Candle Games.

Non è un caso, allora, che tanto per la paletta cromatica utilizzata quanto per le sonorità lugubri, Heal evochi uno scenario orrorifico, in cui lo spavento lascia lo spazio a una continua pressione emotiva e psicologica, che striscia sotterranea stimolando i centri empatici del giocatore ed evocandogli associazioni mentali riconducibili al lutto, al dolore, alla disperazione. Lungi dall’essere un’avventura horror, il videogioco di Makkonen riesce tuttavia a incupire e suscitare ataviche sensazioni di scoramento rispetto a una realtà che si presenta come senza via di uscita.

Ma da cosa fugge l’anziano signore? O meglio, da dove non riesce a fuggire? Se il passato diventa il playground in cui l’esistenza dell’individuo si ripete in un circolo senza fine — la memoria dunque come luogo in cui si viene assorbiti rivivendo continuamente il passato, un gorgo oscuro da cui non si riesce a uscire, come ci ha mostrato mirabilmente un recente vessillo dell’industria videoludica — allora la memoria è il terreno di battaglia in cui l’individuo compie la propria personalissima impresa. Anche per Heal entra in funzione un sincretismo temporale, grazie al quale la lotta (come La lotta è denominato uno dei sette capitoli di cui è composto il videogioco di Makkonen) trasla in un passato che tuttavia diviene attuale, tanto per il giocatore che lo vive quanto per il soggetto impersonato, che lo avverte come presente, hic et nunc, nella sua coscienza.

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Ecco che allora l’ausilio che presteremo al vecchio, simbolicamente attraverso la risoluzione di pannelli di enigmi, consiste nella sopraffazione dei propri ricordi. La memoria acquisisce ora la fisionomia di uno spazio originariamente ostile (in quanto vergine), oggettivizzato per mezzo della significazione di enti (di ambienti, abitazioni e tane ha parlato recentemente Francesco Toniolo nelle nostre pagine). Una realtà personale che tuttavia, divenuta refrattaria alle incursioni di una realtà esterna troppo difficile da accettare (o magari semplicemente non più accessibile, come anche potrebbe dirsi di Heal), si trincera intorno a quei “segni”. In questo modo i ricordi, gli oggetti che li compongono, le sensazioni a essi legate, assurgono a “idolo”, totem, simbolo: la definitiva cristallizzazione di un’esistenza racchiusa in un proprio spazio ieratico, puntellato da altari di esperienze vissute. Un mondo in cui gli altri non sono che riflessi, privi di ogni volizione e valore originario; un mondo in cui tutto è morte.

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Nel 2010, al 63° Festival del Cinema di Cannes, veniva presentata in concorso la nuova pellicola del cineasta sud-coreano Lee Chang-Dong, Poetry. Si tratta di un’opera dalla straordinaria delicatezza, narrata con la solita perizia di scrittura e di messa in scena del regista, e riguardante la vicende di un’anziana signora, la cui esistenza è racchiusa fra il dover badare a uno scapestrato nipote (che vive con lei, loro due soli) e il lavoro part-time di colf con il quale manda avanti la baracca. Avverte però l’esigenza di dare forma a un desiderio di espressione che sente dentro: vuole usare la parola, pertanto va a un corso di poesia. Nel frattempo, sono proprio le parole che cominciano a venir meno: scopre di avere la Sindrome di Alzheimer.

Nel ritratto di questa splendida donna, Lee Chang-Dong utilizza il contrasto fra questa anima candida e un ambiente governato dalla grossolanità dello sguardo (imbellettatosi dietro atteggiamenti di maniera), per mettere in scena il valore del sacrificio morale, rappresentato dalla spontaneità dell’afflato artistico. Ancora una volta è una narrazione con le spalle volte all’avvenire, l’anziana signora ripercorre talvolta il proprio passato, ne cerca dentro l’ispirazione per la sua poesia, il suo sguardo è proiettato verso un presente che è già morto (la sua attenzione è rivolta al nipote senza speranza, la sua mente al destino di una ragazza, già deceduta); in questo orizzonte frastagliato, le parole, che via via diminuiscono, rappresentano l’ineffabilità di un mondo che lei non riesce più a capire. E l’unico linguaggio che forse può “dire qualcosa” è quello poetico, nel reame dell’indefinito.

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In Heal, l’obiettivo costante è varcare una soglia.

Immerso nelle ombre che occupano la propria memoria, il protagonista di Heal sembra riscuotersi unicamente alle note di un pianoforte. Una melodia che forse trova le sue radici nel passato, forse una semplice ancora gettata nel maelstrom dei suoi ricordi oscuri: in ogni caso, un non-detto. In Heal, il reale si presenta come un avvicendarsi di immagini; il riferito (inesistente al di fuori della parte finale, dove però trova giustificazione) cede il posto all’avvertito — venendo bandita qualsiasi forma di comunicazione verbale.

In questa “foresta di simboli”, allora, non può che essere il gesto artistico, il più insondabile dei “nostri problemi vitali”, a figurarsi come la cura dell’uomo. Similmente alla protagonista di Poetry, la quale avverte che solo mediante un linguaggio a-logico può “dire qualcosa”, Makkonen fa in modo che sia la musica, uno dei modi con cui il Mistico comunica, a fungere da lanterna con cui l’anziano signore può districarsi dai fantasmi della sua memoria. In fondo, anche quando non ci rimane che il ricordo di un mondo che non esiste più, le parole non servono.

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