Guida per capire (e amare) Undertale — Vol. II

Nella prima parte di questa guida, ho accennato a come il concetto di nemico (o, ancora meglio, di ostacolo) in Undertale sia declinato secondo coordinate del tutto diverse rispetto agli standard del genere (a cui potremmo, approssimativamente, ricondurre il lavoro di Fox, ossia il JRPG), e, sotto certi aspetti, rispetto agli standard del videogioco tout court. In estrema riduzione, l’obiettivo principale, in ogni produzione videoludica, è “superare l’ostacolo”: che si tratti di una piattaforma da saltare, di un autovettura in corsa, di un uomo che imbraccia un fucile, l’obiettivo è “dominare l’ostacolo e superarlo” per vincere (l’agognato you win).

Sin dalle origini, videogiocare ha significato vincere un ostacolo. Se sconfiggo le navicelle aliene, supero ciò che mi impedisce di arrivare al traguardo stabilito dal creatore dell’opera. La storia del videogame non è altro che un modulazione dell’ostacolo.

In un’intervista rilasciata da Toby Fox prima dell’uscita della sua opera d’esordio, lo stesso affermava: “Sento che sia importante rendere ogni mostro in qualche modo individuale. Se tu ci pensi, basilarmente ogni mostro negli RPG è uguale… Loro ti attaccano, tu ti curi, tu attacchi loro, loro muoiono. Non c’è alcun senso in ciò”.

Toby Fox e la sua “maschera di Emil”.

In un’altra intervista, concessa solo qualche mese dopo l’uscita di Undertale, sempre il nostro aveva modo di ribadire, a domanda circa il perché non fosse cosa comune nei videogiochi permettere di non uccidere nessuno, specie negli RPG: “Perchè è molto più complicato includere questa come una potenziale opzione. Inoltre, l’atto del danneggiare è normalizzato e ha molti modi inveterati per essere divertente. Semplicemente non puoi non farlo.”

A ben vedere, il discorso di Fox non sottende un superamento della dialettica dell’ostacolo, tipica del videogioco, ma un suo ripensamento: l’ostacolo non è semplicemente l’elemento che si frappone alla nostra vittoria, ma diviene un “problema” da comprendere e risolvere. L’irrigidimento in routine, in base alle quali in un determinato tipo di videogioco debbano compiersi certe azioni — “perché in un tps si spara e in un gdr si livella” — allontana il creativo da soluzioni che potrebbero essere più adeguate al senso che vuole trasmettere. Discutevo non molto tempo fa di come un gameplay piegato a soddisfare un’esigenza di “normalizzazione” agli standard di riferimento conduca inevitabilmente a un affievolimento della capacità del comparto ludico di essere funzionale allo scopo proprio: veicolare un suo significato.

Certo, farli pucciosi alcuni mostri favorisce un approccio più pacifico.

Toby Fox ha ben chiaro il fine cui deve volgere la sua opera, e il combat system è totalmente piegato a ciò. Cosa vuol dire affrontare un mostro in Undertale? Ritornerò sul significato etico in un prossimo volume, mi concentro ora sull’aspetto più ludico della battaglia, e su come questa sia molto più simile a un “dialogo” piuttosto che a uno scontro di forze brute. Dal momento in cui casualmente ci imbattiamo in un mostro, questo è portato spontaneamente ad attaccarci per difendersi — ricordo ancora una volta che i mostri sono infinitamente più deboli degli uomini e sono stati scacciati dalla superficie da quest’ultimi. Inizia, dunque, la battaglia, e in quel momento si presentano quattro opzioni a nostra disposizione: i classici “attaccare” e “oggetto” più due opportunità ben più curiose “act” e “mercy”. Mentre con le prime due possiamo ferire il nemico al fine di ucciderlo o utilizzare oggetti nell’inventario (cure o potenziamenti temporanei), le altre due possibilità rappresentano il tratto distintivo della “lotta” dell’opera di Fox. Attraverso “act” il nostro bambino ha la possibilità di relazionarsi con l’avversario, instaurando una forma di comunicazione che prende, volta per volta, le forme della consolazione, dell’incoraggiamento, dell’affabulazione, dell’intimidazione e via discorrendo; l’opzione “mercy” sancisce la scelta (resa possibile solo dopo una fase adeguata di “conoscenza” dell’altro mediante l’act) di risparmiare l’avversario — pur, si badi bene, non avendo alcun motivo “concreto” per farlo.

Sono molto variegate le opzioni derivanti dall’act, e tutte uniche in relazione al mostro che abbiamo di fronte.

In questo modo lo scontro/incontro in Undertale diventa il pretesto attraverso cui il giocatore è spinto a intrufolarsi nell’individualità di quel singolo essere che si pone sulla nostra strada, al fine di sviluppare quell’empatia che è il presupposto logico e, al contempo, la conseguenza spontanea del “conoscere il prossimo”. Una delle opzioni, una volta selezionato act, è il “check”, con il quale la schermata non solo ci informa sulle caratteristiche “belliche” dell’avversario (i classici difesa e attacco), ma ci ragguaglia anche sulle peculiarità psicologiche e personali dello specifico mostro. È così che Fox riesce a rendere “unico” ogni mostro e, conseguentemente, innesca nel giocatore quel processo di immedesimazione che è tanto maggiore quanto è approfondita la conoscenza personale del soggetto — secondo una regola, che non può trovare approfondimento in questa sede, in base alla quale il conoscere è preordinato al processo di empatia. Sulla base delle informazioni ricavate, spetta al giocatore, che intende instaurare un legame con “l’ostacolo”, fare tesoro di queste e proporre “azioni” che abbiano la capacità di fare breccia nella corazza di diffidenza del mostro.

Il Check è l’ennesima finestra sull’interiorità di ciascun mostro.

Tuttavia un dialogo esige una circolarità che è data dal “botta e risposta” di due soggetti. In che modo il mostro comunica con il giocatore? In prima istanza mediante i classici baloon o frasi che appaiono sulla griglia di battaglia; ma soprattutto — ed è qui che si palesa la comunicazione videoludica dell’opera di Fox — attraverso l’atto stesso del difendersi del nemico.

L’aereo tsundere (sì, avete letto bene…) attacca con bombe e piccole aerei. Ma, in alcuni casi, questi aerei hanno un alone verde che ripristina vita se sfiorato. Proprio come una scontrosa tsundere che però, magari, se lambita mostra la sua vera natura…

Le fasi di difesa si svolgono in sezioni bullet hell in cui la rappresentazione dell’essenza del giocatore (il cuore) deve evitare dei proiettili che prendono, volta per volta, la forma e le modalità adeguate alla personalità e alle caratteristiche del singolo mostro. Se, ad esempio, affrontiamo Greater Dog, il nemico ci attaccherà lanciandoci contro l’onomatopea dell’abbaiare; o, ancora, attraverso la stilizzazione di un piccolo cagnolino che, volendo giocare gioioso, salta verso di noi (cioè, verso il cuore). Lungi dall’essere una mera re-interpretazione comica o “originale” del genere bullet hell, Fox utilizza la routine tipizzata (si torni a quanto detto sopra) piegandola al contesto di cui ha interesse. Ed è così che l’attacco del mostro diventa l’ennesima occasione in cui comprendiamo qualcosa in più dell’ostacolo, divenuto ora antagonista, e infine (se vogliamo) personalità risolta. Ma non finisce qui.

Il livello comunicativo dell’opera di Fox raggiunge il suo culmine (nelle fasi di combattimento) nel momento in cui l’attacco del mostro si modula sulla base delle nostre azioni e delle condizioni psicologiche dello stesso. Anticipando considerazioni che svilupperò una volta affrontato il tema “bossfight”, è incredibile come il designer sfrutti queste meccaniche al fine di condurre una narrazione che, comunemente, verrebbe veicolata tramite cutscene e dialoghi.

La bossfight di Toriel, affrontata in maniera pacifica. Uno splendido biglietto da visita del tipo di comunicazione che avremo in Undertale.

In una delle prime battaglie affrontiamo Toriel, un grosso e gentile mostro che vuole tenerci lontano dal nefasto destino riservato a tutti gli altri bimbi caduti nell’Underground, chiudendoci nella sua abitazione. Se forziamo la sua custodia, lei è costretta ad attaccare per fermarci; i suoi colpi ci procurano danno ma… se noi rifiutiamo di attaccarla per un numero congruo di volte o se lei ci porta vicino alla morte, improvvisamente i suoi “turni di attacco” diventano inusuali. Per quanto ci si sforzi di subire danno, ad esempio andando incontro ai suoi proiettili di fuoco, quest’ultimi eviteranno il “cuore”, come poli identici di una pila che si respingono: pur attaccandoci, Toriel non riesce a farci del male. Tutto questo è comunicato attraverso il videogioco, mediante le sue prerogative, forzando le “regole” di generi e meccaniche: ancora una volta, gameplay come mezzo di trasmissione di senso eletto.

Una triste Toriel evita di ferirci. Notare che, anche volendo, non potremmo incontrare la traiettoria di quei colpi.

I combattimenti di Undertale sono dunque l’espediente con cui viene erosa la “sinteticità” del nemico, che da semplice ostacolo che ci impedisce il raggiungimento di uno status (che è mera manifestazione dell’egoismo del dominio e dell’esaltazione di sé), diventa, invece, “un’alterità” con cui devono farsi i conti e di cui è nostra responsabilità decifrarne i pensieri. Il pregio enorme del videogioco di Fox consiste nell’aver calato in un ambito ludico questo processo di vicendevole comprensione di due esseri. Non si tratta semplicemente di attaccare ed evitare l’attacco; si tratta di interpretare l’altro e di essere interpretati dall’altro.

Leggi altri articoli da questa penna

Iscriviti alla nostra newsletter

Per aggiornamenti sulla nostra attività e consigli su contenuti di valore.
Niente spam, promesso!