Quando nel 1985 Super Mario ha impresso la sua orma profondissima sulla storia dei videogiochi ha contribuito a dare un’immagine ben precisa alle aspettative del pubblico nei confronti dell’approccio al medium. Non se l’era certo inventato Miyamoto, ma da Super Mario in poi abbiamo imparato tutti che la progressione all’interno dei videogiochi è da sinistra verso destra. A sinistra c’è quello che già si conosce, a destra ciò che va scoperto. È un concetto semplicissimo, a maggior ragione per tutti quelli che provengono da un background culturale per cui la scrittura stessa si articola allo stesso modo seguendo la stessa direzione; un concetto tanto semplice da essere diventato una regola non scritta del game design tradizionale.
Quando il floppy di Metroid approda all’interno dei Famicom Disk System giapponesi, nel 1986, cambia tutto. L’ambiente alle spalle del protagonista sullo schermo è buio, minaccioso e ostile. Ad accogliere il giocatore non ci sono i simpatici nemici del regno dei funghi di Super Mario ma delle bestie decisamente più strane e pericolose. Sembra Alien. A dirla tutta Metroid è Alien, o quantomeno così doveva essere nella mente di Yoshio Sakamoto quando è subentrato alla direzione del progetto sotto la supervisione di Gunpei Yokoi. Che Metroid fosse un videogioco a scorrimento diverso dagli altri lo si capiva in fretta: bastava fare quello che presupponevano tutti i videogiochi a scorrimento prima di lui e andare a destra. Dopo un lungo corridoio ci si trova di fronte a un muro con una spaccatura in basso. Una spaccatura troppo piccola per passarci attraverso, ma posizionata in maniera tale da far intuire immediatamente che non si trovi lì per errore. Prima o poi da quel buco bisogna passarci per forza, il problema sta nel capire come.
Andare a sinistra per arrivare a destra
La soluzione è quella di tornare indietro e scoprire che se all’inizio del gioco si fosse andati a sinistra si sarebbe incappati nel primo power-up, che avrebbe reso immediatamente esplorabile il lato destro della prima area di gioco. Il seme da cui si genera il Metroidvania come (sotto)genere viene piantato lì, di fronte a quel muro apparentemente insuperabile. Metroid introduce nei videogiochi il concetto che per andare a destra, spesso, bisogna necessariamente andare prima a sinistra.
Lo fa utilizzando gli strumenti della pedagogia applicata al game design, creando un intero sistema che si basa sulla stimolazione della curiosità del giocatore, che una volta messo di fronte a un ostacolo apparentemente inaggirabile si trova nella condizione di voler soddisfare la brama di sapere cosa si celi oltre quell’ostacolo. Lo fa in un momento storico ben preciso, in cui le limitazioni tecnologiche del Famicom impongono parsimonia nell’uso della scrittura e in cui ogni carattere mostrato sullo schermo porta via una notevole quantità di memoria utile alla programmazione del resto del gioco.
Non c’era spazio per spiegarsi a parole, bisognava farlo con gli strumenti a propria disposizione e fare in modo di guidare il giocatore senza che se ne accorgesse, facendogli imparare le regole del gioco per esperienza diretta. È un concetto in realtà molto semplice, per quanto terribilmente efficace e decisamente più complesso da mettere in pratica. Il risultato è che Metroid divenne Metroid proprio grazie a quel muro nel 1986, ben prima che venisse anche solo immaginata l’etichetta del Metroidvania. È ovviamente una semplificazione, me ne rendo conto, ma credo che si tratti del nocciolo del discorso critico da tenere a mente quando si decide di prendere in esame il genere.
Il fatto è che quella del Metroidvania è di per sé una definizione instabile proprio perché, storicamente, nasce in riferimento a due videogiochi diversissimi tra di loro. Super Metroid e Castlevania Symphony of the Night nascono come primi veri germogli del seme piantato da Metroid nel 1986, che ne è più di tutti il padre putativo e principale fonte d’ispirazione. Alla base di tutto c’è sempre quell’ostacolo, ed è per questo che li si può accostare all’interno di uno stesso sottogenere, ma per il resto si basano su due approcci che stanno agli antipodi sotto più di un punto di vista.
Uno spettro si aggira sul medium
Prendiamo per un attimo in esame Super Metroid e Castlevania Symphony of the Night. Parliamo di due titoli seminali, due videogiochi che da soli sono stati in grado di generare un intero sottogenere e due opere che hanno consacrato i rispettivi creatori nell’olimpo dei più influenti del medium. Ecco, se li si guarda da vicino con un po’ d’attenzione si nota un piccolo dettaglio fondamentale: Super Metroid e Castlevania Symphony of the Night sono due videogiochi diversissimi tra di loro. Super Metroid è il perfetto approfondimento delle idee accennate in Metroid, un titolo che mette al centro della sua proposta proprio l’esplorazione non lineare della sua mappa meravigliosamente interconnessa. Symphony of the Night, invece, nasce come clone di Super Metroid (da intendersi secondo la definizione di clone che dà Francesco Toniolo nel suo approfondimento dedicato), che ibrida con gli elementi proto-RPG introdotti da Castlevania II.
Da una parte c’è quindi un videogioco basato su una progressione che si ancora all’intelligenza del giocatore, a cui fornisce via via gli strumenti giusti per poter affrontare le insidie della sua mappa, dall’altra, invece, c’è un’opera che predilige il combattimento corpo a corpo e che permette al giocatore di potenziarsi grazie ai punti esperienza ottenuti uccidendo i nemici. Quando parliamo di Metroidvania parliamo di tutti i videogiochi che in qualche modo si sono ispirati ad entrambi, spesso dimenticando che il Metroidvania è in realtà uno spettro di cui Super Metroid e Symphony of the Night rappresentano gli estremi.
Se li si sovrapponesse ci si renderebbe conto del fatto che le uniche parti che combacerebbero sarebbero solo la prospettiva 2D e la (falsa) non linearità di progressione ed esplorazione. Il resto, dal combat system adottato all’eventuale presenza di equipaggiamenti o statistiche numeriche, è un contorno che non ne definisce in alcun modo l’appartenenza o meno al genere, ma ne denota solamente la filosofia d’approccio allo stesso. Tutto ciò che definiamo come Metroidvania si inserisce nello spettro che va da Super Metroid a Symphony of the Night, non importa come né tantomeno quando lo faccia.
Come cavie da laboratorio
La pubblicazione di Metroid Dread ha riportato (finalmente) in auge il dibattito critico circa la natura stessa dei Metroidvania, rivelando in realtà che troppo spesso abbiamo discusso del termine senza averne chiara la definizione. A seguito della polemica innescata dalla recensione di Metroid Dread scritta da Marco Mottura su Everyeye il messaggio che ha rischiato di passare è che un videogioco è definibile come Metroidvania solo se assomiglia a Super Metroid o a Symphony of the Night. Il problema, in questo caso, è che ragionare per assoluti senza aver compreso a fondo i motivi per cui certe opere possono effettivamente essere indicate come iniziatrici di un sottogenere limita l’ampiezza delle analisi e pure degli approcci che uno sviluppatore può tentare nell’ideazione di un nuovo titolo.
I Metroidvania sono una farsa. Lo sono tutti i videogiochi, sia chiaro, ma i Metroidvania si distinguono dagli altri per il semplice motivo che le loro meccaniche fondamentali elargiscono dopamina ai giocatori proprio perché li trasformano in cavie da laboratorio che si illudono di star progredendo in autonomia all’interno del labirinto costruito ad arte dagli sviluppatori. Il succo del discorso sta tutto lì, non nel cercare inutili rapporti di parentela tra i vari esponenti.
Solo così diventa possibile un nuovo approccio al genere, soprattutto in questo periodo storico in cui a tenerne viva la fiamma sono stati titoli piccoli ed estremamente meno blasonati di quelli creati da Nintendo e Konami tanti anni fa. I Metroidvania nascono di fronte a quella barriera in fondo alla prima schermata di Metroid ma non muoiono lìperché i Metroidvania sono una farsa, ma sono una farsa coerente che funziona proprio in quanto tale.
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