Frequenza Critica racconta: Mass Effect — Parte 1

Ormai ci siamo, dopo tanto tempo la saga di Mass Effect sembra davvero pronta a tornare alla ribalta. Non solo con l’imminente remaster della trilogia originale, ma anche e soprattutto con un attesissimo quinto capitolo, di cui sappiamo meno di niente e che speriamo rappresenti un ritorno alle origini. Avrete già capito che ritornare alle origini significa dimenticarsi totalmente di quel gioco lì, quello ambientato in un’altra galassia. Forse è un po’ più complicato di così, ma in ogni caso quale momento migliore per ripercorrere la storia della saga?

Del resto Mass Effect ha avuto l’indubbio merito di creare per la prima (e forse unica) volta in ambito videoludico una vera e propria space opera originale, priva di legami con altri medium. Sfido chiunque a trovare un’altra saga fantascientifica così impressa nell’immaginario collettivo dei videogiocatori, o dei personaggi altrettanto iconici e, perché no, fonte di tanti bei meme. Roba fine, tipo questa.

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Potranno privarci delle inquadrature delle natiche di Miranda o degli addominali di Jacob, ma questo non ce lo toglieranno mai. MAI.

Scherzi a parte, anche i (molti) momenti in stile B movie anni ’80 hanno in qualche modo contribuito a rafforzare l’iconicità di cui ho parlato poco sopra, e Andromeda ha dimostrato come portare avanti un approccio diverso — più moderno, direbbe qualcuno — possa rivelarsi dannoso.

Ma mettiamo per un attimo da parte le critiche a quell’arrap… buontempone di Shepard e parliamo seriamente della storia di Effetto Massa.

Non chiamatemi Star Wars… o Star Trek

Oggi forse pochi se lo ricordano, ma Mass Effect nasce come esclusiva Microsoft e fu uno dei primo giochi a mostrare i muscoli di Xbox 360 grazie all’utilizzo del celeberrimo Unreal Engine 3. A quel tempo BioWare non era ancora stata acquisita da EA e arrivava dall’enorme successo di Knights of the Old Republic… e da Jade Empire, ma quello sembra purtroppo che nessuno se lo ricordi. Non è sicuramente un caso che a capo del team impegnato nello sviluppo ci fosse ancora una volta Casey Hudson, la stessa persona che aveva guidato i lavori sul mai troppo lodato gioco di ruolo a tema Star Wars.

Avete presente quel tizio che negli ultimi anni è entrato e uscito da Bioware cinquanta miliardi di volte, riuscendo nell’impresa di essere coinvolto ogni volta in un flop peggiore del precedente? Ecco. Ma quelli fortunatamente erano tempi diversi.

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Il nostro eroe riflette se ritornare per la trentordicesima volta in Bioware prima dell’uscita di Dragon Age 4. Sullo sfondo, Grunt ha appena finito di giocare ad Anthem.

L’avventura del comandante Shepard nasceva come vero e proprio erede spirituale di KotOR, dal quale ereditava certi aspetti strutturali, come il sistema di moralità, la presenza dei compagni e di un’astronave dove poter interagire con essi e muoversi di pianeta in pianeta. In altri ambiti le carte vennero invece rimescolate pesantemente, in particolare per quanto riguarda il sistema di combattimento e la cinematograficità (se riuscite a pronunciarla venti volte senza impappinarvi prendete il B2 di italiano) dell’esperienza. Fin da subito BioWare pensò di porre le basi per una vera e propria trilogia, ma molte delle idee iniziali a livello di trama vennero messe da parte durante lo sviluppo dei capitoli successivi. Il risultato finale lo conosciamo fin troppo bene.

Il 20 novembre 2007 Mass Effect arrivò finalmente sugli scaffali e si rivelò essere uno strano (strambo?) connubio tra un gioco di ruolo classico e uno sparatutto in terza persona alla Gears of War. Con gli occhi di oggi possiamo dire che si trattava di un’opera grezza, anche per i suoi tempi. Le sparatorie, che prendevano il posto dei combattimenti basati sui tiri di dado di KotOR, erano tutt’altro che fluide e caratterizzate da un sistema di copertura automatico più erratico di un fulminatore; in generale mancava la profondità del precedente lavoro di BioWare, nonostante l’inserimento della pausa tattica per dare ordini ai compagni e usare le abilità. La componente gdr era ridotta a una manciata di barre da riempire coi punti ottenuti salendo di livello e il sistema morale si limitava a sostituire Lato Chiaro e Lato Oscuro con Paragon e Renegade (pure gli stessi colori, dannazione). Per non parlare della scomodità dell’interfaccia.

E poi, last but not least, c’era lui:

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Odi et amo. Anzi, odi et basta.

Il Mako resta ancora oggi uno dei più grandi misteri dell’universo, ogni tanto rimango sveglio tutta la notte chiedendomi come facessero tre persone (non hobbit, non nani) a entrarci dentro e se le sue infinite capriole fossero il risultato di un sistema di sospensioni oltre l’umana concezione o di regole della fisica ancora non scoperte. In tutto ciò, la conformazione geografica dei pianeti, generati chiaramente con una versione piratata male dell’algoritmo di No Man’s Sky, non aiutava di certo.

Eppure, nonostante questi e altri difetti, Mass Effect era (ed è ancora) un gioco che lasciava il segno. Merito prima di tutto di un’ambientazione magari non originalissima ma ben sviluppata e viva, con ispirazioni provenienti da tanti mostri sacri del genere fantascientifico: non solo Star Wars e Star Trek, ma anche i vari Dune, Blade Runner, Firefly e Babylon 5 — soprattutto quest’ultima serie, fatevi un piacere e guardatela. Non parliamo poi dell’indubbio carisma del(la) protagonista e di comprimari quasi sempre azzeccati, seppur con qualche stereotipo di troppo.

La storia dal canto suo aveva una lunghezza più che adeguata, vantava un cattivo di un certo spessore e scorreva con ritmo serrato fino all’epica battaglia finale… a patto di dimenticarsi (molto) velocemente di tutte le attività secondarie fatte con lo stampino. La colonna sonora a cura di Jack Wall e Sam Hulick, che mischiava sonorità orchestrali e tracce ambient ed elettroniche alla Blade Runner, accompagnava le nostre avventure alla perfezione, fino ad arrivare nel finale a un pezzo diventato ormai storico, al punto da essere reinterpretato qualche anno dopo nel terzo episodio.

Insomma, una volta arrivati ai titoli di coda, il videogiocatore ne voleva ancora, stimolato anche da un finale che, pur senza il classico cliffhanger, suggeriva l’esistenza di una storia molto più grande dietro agli eventi appena vissuti.

Il seguito non poteva che essere già in produzione, viste anche le vendite non indifferenti. Ancora meglio, era in produzione già da prima dell’uscita del capostipite.

Come Friends, ma nello spazio

Il 27 marzo del 2009 alla GDC arrivava il tanto atteso annuncio di Mass Effect 2 con un teaser che parlava, udite udite, della dipartita del povero Shepard… che ovviamente non era morto, come Beautiful insegna. Meno di un anno dopo — vi ricodate di quando annunciavano l’uscite dei giochi DOPO l’avvio dei lavori? — , nel gennaio del 2010 io e tanti altri mettevamo finalmente le mani su uno dei giochi più attesi di sempre.

Un po’ di epicità qua?

Mass Effect 2 si rivelò essere un titolo con focus ben più chiaro e preciso rispetto al predecessore, era infatti chiaro l’intento di trasformare un rpg con le sparatorie in uno sparatutto con una componente rpg. Le centinaia di armi e di armature più o meno simili di Mass Effect vennero sostituite da un numero minore di strumenti, ma realmente differenziati, il sistema di copertura abbandonò i disastrosi automatismi del prequel in favore del controllo manuale del giocatore, il surriscaldamento delle bocche da fuoco fece posto ai classici caricatori (clip, se preferite).

Gli stessi combattimenti guadagnavano un ritmo decisamente più sostenuto, conseguenza anche di un’interfaccia meglio disegnata che rendeva meno pressante la necessità di usare la pausa tattica. Il risultato finale non poteva competere con uno sparatutto puro, ma sapeva comunque divertire, che poi è la cosa più importante.

Finì vittima dell’opera di razionalizzazione anche la componente esplorativa, che abbandonava il Mako e le sue improbabili acrobazie sui terreni accidentati introducendo al suo posto un sistema molto semplice fatto di scansioni e sonde da lanciare sui pianeti per estrarre risorse o trovare nuove missioni. Non una trovata geniale, ma alla fine si trattava di un minigioco secondario, per quanto non fosse possibile ignorarlo se si voleva ottenere il finale migliore.

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Sono probabilmente l’unico malato che leggeva tutte le descrizioni dei pianeti.

Da un punto di vista narrativo, Mass Effect 2 si proponeva come il classico “capitolo di mezzo” delle trilogie per come questi sono stati concepiti a partire da The empire strikes back. Perciò il tono si faceva più drammatico e oscuro, con Shepard che passava da eroico Spettro a mina vagante pronta a collaborare con alcuni dei suoi nemici più odiati. Un antieroe costretto a (o felice di) mettere piede nei meandri più oscuri della Galassia per formare un equipaggio pronto a gettarsi in una missione suicida.

L’equipaggio era proprio il cardine della struttura narrativa, focalizzata infatti sul reclutamento dei compagni e sul rafforzamento dei rapporti con essi in vista dello scontro coi Collettori. Per certi versi Mass Effect 2 ricorda i telefilm moderni, con una trama orizzontale sì presente e importante, ma accompagnata da numerose digressioni per approfondire i personaggi… senza il classico episodio flashback di Netflix per fortuna.

Tutto questo è riassumibile in un concetto molto semplice: se non vi piace andare in giro per lo spazio per cercare nuovi amici siete persone orribili.

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Uno dei rari casi in inquadratura frontale e superiore di Miranda.

Guadagnare la fedeltà dei nostri compagni di sventure non era un mero esercizio di stile, ma era fondamentale per portare a termine la missione suicida riducendo al minimo le perdite. Sì, perché questa, pur non potendo essere fallita, poteva concludersi con la dipartita di tutti i personaggi e di Shepard stesso. Devo ammettere di aver avuto il cuore in gola mentre, accompagnato da questa straordinaria traccia, assistevo allo sviluppo dell’offensiva finale nella speranza che andasse tutto come doveva. E devo ammettere di esserci rimasto male quando quello str***o di Zaeed ci ha rimesso le penne (ok, forse ci sono rimasto più male quando ho visto il boss finale). Era insomma davvero difficile non affezionarsi ai comprimari, anche se certe volte sembrava di essere a capo degli Avengers più che dell’equipaggio di una nave militare.

Mi tocca purtroppo terminare questa sezione dedicata al secondo capitolo parlando dei DLC, dei cari e dolci DLC. Mass Effect 2 arrivava infatti nel periodo in cui, dopo le celebri armature equine di Oblivion, tutti i publisher stavano cercando di sfruttare al massimo questo sistema di monetizzazione. Sfruttare al meglio voleva dire tagliare brutalmente pezzi di gioco per rivenderli a parte successivamente, oppure svilupparli in un secondo momento lasciando dei buchi nell’esperienza “liscia”. Questa politica avrebbe raggiunto il culmine con il terzo episodio, ma già il secondo lasciava presagire il peggio.

Se da una parte venne offerto qualche DLC gratuito come contentino (il sopracitato Zaeed per esempio, oppure quello dedicato al cugino del Mako), i contenuti più succosi vennero invece messi dietro paywall. Penso che abbiate capito che mi sto riferendo in particolare a Lair of the Shadow Broker, contenuto dedicato a Liara T’Soni. Fin dal primo incontro nel gioco base si capiva che mancava qualcosa, e infatti nel giro di un anno o poco più arrivò un contenuto scaricabile a pagamento dedicato alla nostra archeologa preferita. Liara era ovviamente un personaggio molto amato, per cui il fan medio (che poi sarei io) non si sarebbe fatto problemi a sborsare qualunque cifra pur di avere qualche ora in più con la ragazza blu. Non infierisco, quindi mi limito a citare anche Arrival e la sua pretesa di essere un prologo di Mass Effect 3. Alla faccia della pubblicità ingannevole.

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Carino e coccoloso.

Mass Effect 2 si rivelò poco sorprendentemente un successo di pubblico e di critica, tanto che alcuni lo considerano tra i migliori giochi di sempre. Se il capostipite era stato quasi un fulmine a ciel sereno, la seconda iterazione faceva entrare entrare di diritto la saga nella storia del videogioco e, scusate se forse esagero, poneva le basi per la nascita di un mito.

Con questo si conclude la prima parte di questa retrospettiva. Vien da sé che a questo punto il capitolo finale della trilogia non era che una mera formalità, tanto più che, stavolta sì, avevamo a che fare con un cliffhanger bello e buono, uno di quelli prevedibili ma capaci di creare un’attesa spasmodica.

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  • Fabrizio "Bix" Salis

    Polemico per natura, amante della fantascienza, della tecnologia e dei videogiochi. Gli piace tutto e non gli piace niente.

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