Frequenza Critica racconta: LucasArts — Parte 2

«Mi chiamo Guybrush Threepwood e voglio diventare un pirata.» è una citazione semplice e che in poche parole porta in sé l’eco di un’intera generazione videoludica, una frase che introduce perfettamente quella che a tutt’oggi è senza ombra di dubbio l’avventura grafica più amata e conosciuta del suo settore.

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La prima schermata di gioco di The Secret of Monkey Island.

È il 1990 quando la Lucasfilm Games diventa LucasArts, cambiando sede e nome per adattarsi a un mercato sempre crescente grazie alla rinnovata formula di avventure grafiche che premiavano il giocatore per il suo intuito e allo stesso tempo non lo punivano eccessivamente per il fallimento, se non facendogli perdere molto tempo.

Come già detto, infatti, nelle avventure grafiche LucasArts era quasi impossibile infilarsi in vicoli ciechi senza possibilità di andare avanti o indietro. Questo, unito alla crescita del mercato videludico degli anni ’90, concesse nuova linfa vitale a un genere che catturava l’attenzione sia dei giocatori di vecchia data, appassionati di avventure testuali, che alle nuove generazioni, invogliate a provare un’esperienza nuova e a loro più accessibile.

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La schermata introduttiva di The Secret of Monkey Island nella sua versione MS-DOS

Quella di The Secret of Monkey Island era quindi una ricetta vincente e destinata al successo in partenza; non ci sarebbe stato bisogno di aggiungere altro, ma il dream team composto da Ron Gilbert, Dave Grossman e Tim Schafer decise di arricchire ulteriormente la formula calcando la mano su uno degli elementi che avevano caratterizzato le avventure grafiche di casa Lucas fino a quel momento: l’umorismo.

Sebbene fosse già presente un umorismo “nerd” di fondo in alcune delle avventure grafiche marchiate Lucasfilm Games degli anni precedenti, nessuna raggiungeva il livello di assoluta e illogica follia di The Secret of Monkey Island, che immergeva il giocatore in un mondo piratesco dalla natura astratta e infantile destinato a metterti di buon umore anche qualora non fosse in grado di strapparti una vera e propria risata.

Inoltre non è da tralasciare il fatto che il genere delle avventure grafiche punta e clicca era già affermato quanto bastava da poter essere parodizzato: gran parte dell’umorismo di questo titolo faceva infatti leva sui cliché del genere imposti dai capisaldi del settore usciti in precedenza.

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Uno dei molti esempi di umorismo basato sui cliché del genere.

Ma procediamo con ordine. L’idea dietro al gioco nasce dalla mente di Ron Gilbert mentre si trovava a Disney World sulla “Pirates of the Caribbean Ride”, con buona pace di coloro che per anni hanno tacciato la famosa saga di film Disney ispirati all’attrazione del parco divertimento di plagio del loro videogame preferito. Il protagonista è un giovane ragazzo dall’impronunciabile nome “Guybrush Threepwood”, un nome derivato da un inside joke tra i programmatori del gioco: le bozze di design del protagonista del gioco erano salvate solamente col nome “Guy” (ragazzo) e il file d’immagine su Deluxe Paint, il programma di disegno su Amiga utilizzato per la realizzazione delle immagini, aveva come estensione “.brush”. Il team di sviluppo trovò divertente lasciare tale il nome una volta approfondito il personaggio, visto che era al tempo stesso generico e eccentricamente originale.

Lo scopo di Guybrush è semplice e chiaro: vuole diventare un pirata. Queste sono le sue prime parole e l’interezza della sua missione di vita, che lo porterà a viaggiare tra bizzarri tesori, magia, fantasmi, improbabili storie d’amore e talvolta risvolti più seri di quanto non ci si potrebbe aspettare da una trama che parte da questi presupposti.

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Melée Island by night.

The Secret of Monkey Island non fu un grande successo commerciale all’epoca della sua uscita, fallendo nel catturare il mercato americano a cui il genere delle avventure grafiche era poco avvezzo, ma si rivelò essere un blockbuster sul mercato europeo su Amiga e Pc ed è universalmente riconosciuto come il titolo che aprì le porte all’era d’oro delle avventure grafiche. Il genere si era lasciato alle spalle i limiti e gli ostacoli imposti dai pionieri del settore negli anni ‘80 e aveva finalmente raggiunto la perfetta formula per divenire popolare e, per usare un termine a noi contemporaneo, “mainstream”. L’avventura grafica adesso era alla portata di tutti, non era più punitiva e ostica come alle sue origini, e l’unico limite era la fantasia e la creatività del giocatore.

Tecnicamente parlando, il gioco si avvaleva di una pixel art sommaria ma suggestiva che puntava all’immersività; ne sono una prova le panoramiche o le frequenti inquadrature con ottiche distorte e deformate, tipiche dell’impostazione LucaArts anche nei titoli a seguire, ma soprattutto una colonna sonora di tutto rispetto. Il tema musicale di The Secret of Monkey Island rimane a tutt’oggi il più iconico di tutto il suo intero settore. Nella sua semplice e allegra composizione piratesca, accompagna perfettamente l’avventura e trasporta il giocatore all’interno di essa come mai prima di quel momento.

Una saga che, visto l’interesse del mercato, non avrebbe certo tardato ad avere seguiti: solo un anno dopo, infatti, veniva pubblicato Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge.

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La copertina della versione tedesca di Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge per MS-DOS

Se per gli standard dell’industria videoludica attuale questa tempistica sarebbe sicura prova di un prodotto realizzato in maniera affrettata per capitalizzare su una moda temporanea prima che svanisca, questo secondo titolo della saga si dimostrò essere esattamente l’opposto: una versione estesa, tecnicamente raffinata, ampliata e perfezionata della visione artistica del team creativo che aveva dietro, che pareva avere una fantasia infinita.

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Una delle prime schermate di Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge.

Monkey Island 2 non solo faceva un salto qualitativo dal punto di vista grafico, passando a fondali disegnati a mano e poi digitalizzati, e aumentava la complessità e la qualità della composizione musicale e sonora in genere, ma offriva anche due livelli di difficoltà, tagliando fuori dall’esperienza di gioco gli enigmi più complessi, per fornire un gameplay più consono a coloro che erano nuovi al genere. Del resto, “Player be damned!” era il motto di Ron Gilbert (come possiamo sentire nel divertentissimo commento audio incluso nella versione speciale nel gioco, presente da qualche anno su Steam e uscita in occasione dell’anniversario), che inserì in questo titolo, nella sua versione completa, alcuni tra gli enigmi più pazzi e a tutt’oggi memorabili dell’intero genere.

Usare una scimmia su una tubatura dell’acqua per riattivare una cascata? Ma certo. Del resto, in inglese il termine “chiave inglese” si dice “monkey wrench”, ha perfettamente senso, no?

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La famosa “monkey wrench” incubo di tanti videogiocatori non anglofoni.

Monkey Island 2 è per me non solo la perfetta avventura grafica e uno dei miei giochi preferiti, ma anche una perfetta rappresentazione dei suoi tempi e dell’ascesa alla gloria del team che lo produsse, marchiando a fuoco i nomi dei suoi creatori nella storia del videogame.

Una menzione d’onore va fatta per il finale che, senza voler rivelare troppo, ingannava il giocatore con una falsa pista narrativa che sembrava voler mettere in un ottica diversa tutto quello che avevamo visto nei primi due giochi, solo per poi rivelarci, dopo i titoli di coda, che così non era e che il giocatore, così come il protagonista del gioco, avevano di fatto subito la vendetta dell’antagonista LeChuck. Un plot twist inaspettato, intrigante e tutto’ggi discusso dai fan, che da profondità narrativa dietro a un’opera nata per essere essenzialmente umoristica.

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Per molti, Elaine sta ancora aspettando il ritorno del suo amato là sopra, dal 1992.

LucasArts era adesso diventata la compagnia al primo posto di un genere che lei stessa aveva contribuito a rendere famoso. Per la prima volta nella storia, le avventure grafiche prendevano posto nelle copertine delle riviste di settore e i fan attendevano con trepidazione la prossima produzione di casa Lucas.

È importante notare che a questo punto, nel 1992 e proprio alla fine della produzione di Monkey Island 2, l’autore primario del progetto nonché creatore dello SCUMM (il linguaggio di programmazione su cui si basavano tutte le creazioni Lucas dai tardi anni ‘80 ad allora), Ron Gilbert, decise di lasciare LucasArts e di fondare un proprio studio indipendente chiamato Humongous Entertainment. Per questa ragione molti fan considerano i titoli successivi della saga di Monkey Island “apocrifi”, in quanto frutto della fantasia di altri team creativi. Questo, unito al finale aperto di Monkey Island 2, tiene viva la speranza di un eventuale “reale” terzo capitolo scritto e realizzato dall’autore originale.

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Ron Gilbert.

Gilbert dal canto suo non si è certo tirato indietro, intento com’è ad alimentare il dibattito stesso dicendo a chiare note che a tutt’oggi il vero “Segreto di Monkey Island” non è mai stato rivelato e che è presente solo nella sua testa, nell’ipotetico terzo capitolo mai realizzato.

Tuttavia allo stato attuale delle cose il brand di Monkey Island e le altre proprietà intellettuali di LucasArts appartengono a Disney, la quale non sembra in alcun modo intenzionata a voler sfruttare di nuovo questa IP, né a restituirla o concederla in “prestito” al suo creatore originale. Uno stallo alla messicana legale che da anni fa stagnare il buon nome di Monkey Island, nonostante l’uscita, in anni recenti, delle Special Edition dei primi due titoli della saga con aggiunta di commenti audio, grafica in alta definizione e altre chicche dedicate i fan.

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La Humongous Entertainment di Ron Gilbert.

Ma torniamo negli anni ‘90.

Quale sarebbe stata la prossima mossa? I primi anni ‘90 erano anni di grande transizione tecnologica nonché apertura culturale verso il mondo dei videogame, che stavano entrando di prepotenza nelle case e nelle vite di molte persone affermandosi nella loro quotidianità come passatempo sempre più comune e sempre meno settoriale e per “nerd”.

Aveva quindi perfettamente senso ritornare su una strada già battuta, ma con la consapevolezza maturata con l’esperienza delle ultimi produzioni: nasce da questo Indiana Jones e il Destino di Atlantide (1992), sviluppato da un altro team all’interno di LucasArts, che proponeva nuovamente l’idea di sfruttare un brand altamente riconoscibile.

Il gioco alzava nuovamente l’asticella tecnica offrendo per la prima volta nella storia delle avventure grafiche di casa Lucas la possibilità di effettuare scelte che avrebbero alterato significativamente il corso della storia, visitando location differenti e fronteggiando ostacoli differenti. Si trattava di un elemento che alzava nettamente la rigiocabilità di un titolo di questo genere, da sempre legato a una concezione di gameplay lineare.

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La copertina di Indiana Jones e il Destino di Atlantide

Questo titolo presentava inoltre un sistema di punteggio collegato al modo in cui il giocatore sceglieva di risolvere determinati enigmi, che ancora una volta riecheggiava delle vecchie avventure grafiche di casa Sierra, al netto della loro proverbiale difficoltà.

“Indiana Jones and the Fate of Atlantis” fu l’ennesimo successo commerciale per la LucasArts, come riportato da Noah Falstein (uno dei due autori dello script del gioco, nonché co-creatore dello script del film “Indiana Jones e l’ultima crociata”) nel 2009.

Il gioco aveva a quel punto superato il milione di copie vendute e vinto diversi premi, oltre ad aver conquistato i fan dell’archeologo dell’avventura con una storia interessante e più che degna delle sue altre storie portate sul grande schermo (se non migliore, in alcuni casi…)

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Uno dei tanti panorami mozzafiato di Indiana Jones and the Fate of Atlantis

Un fumetto prequel dal nome “Indiana Jones and the Keys to Atlantis” fu pubblicato da Dark Horse Comics, così come altre due collane collegate al gioco con ambientazione postuma, basate su script scartati per eventuali seguiti mai realizzati.

Nel 1993 fu la volta di Day of the Tentacle, seguito ufficiale del primo grande successo commerciale di casa LucasArts, all’epoca Lucasfilm Games: Maniac Mansion. Sfruttando la tecnologia del momento, questo seguito ebbe un trattamento di tutto rispetto, con uno stile che si allontanava dalla pura pixel art per avvicinarsi a un design da cartone animato folle e delirante tanto quanto la storia che doveva rappresentare. La storia del gioco era liberamente ispirata a Chuck Jones e al suo lavoro nell’animazione con Looney Tunes e alla storia degli Stati Uniti.

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La copertina di Day of the Tentacle.

Lo script si basava su una vecchia idea di Ron Gilbert riguardante i viaggi nel tempo, rielaborata e ampliata dal team capitanato da Tim Schafer e Dave Grossman, e molti dei personaggi inclusi nel gioco erano basati su reali conoscenze degli ideatori del progetto, esasperate e portate verso il ridicolo per entrare a far parte del bizzarro universo di gioco su questo titolo.

Day of the Tentacle fu un moderato successo commerciale che riuscì a unire i fan del classico Maniac Mansion a una nuova generazione di videogiocatori e impressionò la stampa di settore con il suo stile accattivante, il suo umorismo e la sua folle creatività.

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Grafica in game di Day of the Tentacle.

All’epoca vissi con difficoltà la scelta da parte di LucasArts di produrre titoli con uno stile così spiccatamente cartoonesco e “strano”, vedendolo come una sorta di marcia indietro verso uno stile più incline a una fascia demografica più giovane. Del resto, con la popolarizzazione del media, era ragionevole cercare di fare titoli per i più giovani, o almeno questo dev’essere stato il ragionamento che era stato fatto a riguardo. Day of the Tentacle resta a tutt’oggi un titolo molto amato dai fan che ne hanno realizzato un webcomic chiamato “The Day After the Day of the Tentacle” e nel 2018 è stato realizzato da un team tedesco un seguito non ufficiale del gioco chiamato “Return of the Tentacle”, che riprende ed espande la lore dell’originale con un artwork incredibilmente simile al suo predecessore, una vera lettera d’amore verso questo titolo.

Nel 1992 fu la volta di Sam and Max Hit the Road, altro titolo di inspirazione fumettistica, questa volta giustificata dal fatto che fosse basato su una preesistente serie a fumetti chiamata “Sam and Max the Freelance Police” del 1987, sebbene il gioco prendesse diretta ispirazione dal fumetto intitolato “On the Road”, del 1989.

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La copertina di Sam and Max Hit the Road.

Il gioco fu un successo commerciale e fu acclamato dalla critica, che ne esaltò la componente grafica e la raffinatezza dell’interfaccia dedicata all’interazione del giocatore con l’inventario, che poteva sparire e riapparire all’occorrenza, lasciando lo schermo libero da sovrapposizioni di alcun tipo. Inoltre, fatto inedito per una produzione LucasArts, il gioco poteva contare su un doppiaggio completoche sfruttava la tecnologia del motore audio iMUSE.

L’intero sistema di dialogo era inoltre caratterizzato da un sistema che dava al giocatore la possibilità di approfondire specifiche aree tematiche rendendo la comunicazione tra i due simpatici protagonisti ancora più ampia che nei giochi precedenti. Questo titolo era inoltre arricchito da diversi minigame che variavano e ampliavano il gameplay, sebbene per brevi e circoscritte sezioni di gioco.

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Grafica in game di Sam and Max hit the road.

Negli anni che seguirono la LucaArts fu impegnata nella produzione di molti altri titoli di successo che esulavano dal genere delle avventure grafiche: furono pubblicati infatti giochi quali Zombies Ate my Neighbours, Star Wars: Rebel Assault e molti altri titoli dedicati al franchise di Star Wars.

La produzione di avventure grafiche sarebbe ripresa solo nel 1995 con l’apertura di un nuovo capitolo editoriale delle avventure punta e clicca, che si andavano affacciando su un periodo in cui la tecnologia videoludica si stava spostando verso grafiche 3d e nuovi ritrovati tecnici. Non sarebbe stato facile mantenere a galla un genere che invece era molto legato a tecnologie di vecchia generazione.

Ma di questo parleremo meglio nel prossimo articolo dedicato alla caduta della compagnia e al suo lascito al mondo del gaming.

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  • Paolo "n0l4n" Ferrò

    Videogiocatore di vecchia data, appassionato della storia del gaming, musicista e creatore di contenuti. Amo gli RPG, i giochi di avventura, punta e clicca e la fantascienza.

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