L’articolo non contiene spoiler di trama su Flower Sun and Rain e ne illustra per sommi capi la routine ludica e l’incipit narrativo.
L’imbocco del nuovo millennio ha svolto una funzione simbolica per alcuni di coloro che l’hanno vissuto, come una riproposizione moderna, svecchiata da tutto il pensiero magico-religioso, dei fantomatici “timori dell’anno mille”. Sebbene la storiografia abbia da tempo acclarato che le attese apocalittiche di quel tempo rivestano lo statuto di mito collettivo più che di verità storica, trovo interessante che, in una società (globalmente) più scientifica come quella odierna, siano tuttavia sorte delle voci che, riflettendo in particolar modo sul rinnovato e centrale statuto delle tecnologie della comunicazione, hanno palesato preoccupazioni che riecheggiano quei fantomatici “timori”.
Siamo nel 2001, e nell’industria videoludica – forse più di altre prona a recepire le modificazioni sociali indotte dalle nuove tecniche? – tre opere della cultura pop provenienti dal Sol Levante riflettono uno spaesamento, forse paradigmatico di quell’epoca di transizione.


Con Silent Hill 2 (qui il nostro recente approfondimento tematico), il Team Silent aggiornava il proprio campionario orrorifico, situando in maniera ancora più esplicita rispetto al primo capitolo il mostro nella mente dell’uomo. Se nel videogioco del 1998 la città acquisiva soprattuto i caratteri del non-luogo sospeso nel tempo e nello spazio, come un collasso fantasmatico di segni (si consiglia questo episodio del podcast de Lo Specchio Scuro a cura di Stefano Caselli, per ulteriori approfondimenti sull’opera seminale di Team Silent), nel sequel, invece, l’omonima città diventa prima di tutto proiezione psichica del protagonista, James Sunderland. La precarietà degli enti del mondo si fa specchio della frammentazione mentale dell’uomo: nemmeno il reale può più esibire delle certezze.
Con un altro sequel, Hideo Kojima picconava il concetto di bigger an’ better, mettendo al contempo in scena una delle più lucide analisi della società della “post-verità”. Raiden, al pari di James, si scorna con una realtà che sembra sfuggire alle più elementari ipostatizzazioni, e il suo percorso da eroe consiste nell’affrancamento da qualsiasi ruolo etero-imposto: in una società “liquida”, l’individuo deve trovare da sè la propria identità.
Infine, un altro sequel, sebbene camuffato con titolo, setting e protagonista diversi: Flower Sun and Rain segue The Silver Case e si inserisce nel continuum narrativo (“Kill the past“) partorito dalla mente di Goichi Suda, alias “Suda51”. E al pari dei videogiochi sopra citati, l’opera in questione si situa in una stagione in cui l’afflato creativo pareva dividersi fra il monito rivolto ai principali attori del settore (chi i giochi li crea, chi i giochi li usufruisce) e il ripensamento delle “categorie storiche”, all’albeggiare del nuovo millennio.
Flower…

In Flower, Sun and Rain (da ora in poi FSR), il giocatore impersona Sumio Mondo, un uomo il cui lavoro consiste nel “trovare cose”. Viene, pertanto, chiamato sull’isola micronesiana di Lospass dal direttore dell’unico albergo di questo celebre luogo di villeggiatura, con lo scopo di trovare il responsabile di un temuto attacco terroristico; ma Edo McAllister, il direttore dell’albergo, lo avvisa: il tempo si è fermato su quest’isola.
Ben presto il giocatore si rende conto che si tratta di un incipit fuor di metafora. Sumio (e con lui l’utente) passa il suo soggiorno sull’isola a cercare oggetti, l’attacco terroristico (consistente in un aereo che esplode in cielo) è più fondato di quello che si poteva ritenere e il tempo…non va avanti: a ogni distruzione dell’aereo, il giorno pare resettarsi.

FSR, sin dal suo prologo, trascina il giocatore in un’atmosfera da sogno, a cui da una parte contribuisce la palette variopinta e il ritmo bradicardico di un’isola tropicale, dall’altra un nugolo di personaggi ed eventi che, per inverosimiglianza e stramberia, paiono trascinati di peso dalle latitudini temperate di Twin Peaks – pochi altri videogiochi hanno intercettato così bene quella uncanny valley che ha caratterizzato l’influentissima opera di Lynch e Frost, una weirdness sospesa fra dialoghi sensati ma fuori posto e avvenimenti che “non dovrebbero essere accettati così facilmente”. I compiti ludici del giocatore si allineano, in questa discesa nella tana del bianconiglio: la prima fase investigativa di FSR si conclude con Sumio che collega il jack della sua indispensabile valigetta, Catherine, all’occhio del mediatore Peter, per inserire una combinazione numerica utile ad aprire il cancello del parcheggio.
Giunti alla reception dell’albergo “Flower, Sun and Rain”, il giocatore viene munito della guida dell’isola: un manuale di poco più di quaranta pagine contenente informazioni su luoghi, eventi e abitanti dell’isola di Lospass. Si tratta di un elemento cruciale per il gameplay imbastito da Suda51, ma anche del primo tassello con cui viene eroso il limes fra realtà e finzione, come si vedrà. Infatti, con una soluzione controintuitiva (non l’unica, del resto), Grasshopper Manufacture subordina gran parte delle risoluzioni degli enigmi numerici alla consultazione di questa guida: il giocatore deve, ogni volta, spulciare questo testo, intuire (più o meno tra le righe) la corretta sequenza numerica e inserirla negli oggetti ai quali collegare il jack di Catherine.
Ecco, immaginate quanto segue: il puzzle game che avete acquistato, nella maggior parte dei casi, non esige che si compiano esercizi di pensiero laterale, processi inferenziali, complessi calcoli o deduzioni sillogistiche. Tutt’altro, si tratta di aprire un testo corposo, leggerlo, scovare i numeri da inserire; un’operazione meccanica e che sconta lo scorrimento di pagine e pagine, ogni volta. FSR non sta testando la vostra prontezza mentale, ma la vostra pazienza.
All’inizio di ogni (stesso) giorno il giocatore deve cimentarsi nella riproposizione e nella testimonianza di gesti che acquisiscono le forme di una ritualità laica: Sumio viene svegliato da Edo, cade dopo essersi alzato dal letto, sorseggia la sua bevanda, si incammina per i piani dell’hotel (con un passo non certo sostenuto), ripercorre gli stessi ambienti, più e più volte, è tenuto a perlustrare ogni anfratto dei luoghi percorribili – solo se si sta giocando la versione di FSR con gli enigmi opzionali, dal momento che l’unico indicatore della loro presenza è un prompt che appare a schermo quando si è vicini – e, infine, dirigersi verso il luogo in cui si consumerà il prosieguo della storia.
Il design imbastito da Suda51 non lesina sulla ripetizione come prassi ludica, e ciò si riflette su un backtracking che raggiunge punte di sadismo, su corse a perdifiato nel vuoto di scenari piatti, sul rimbalzare fra un personaggio e l’altro solo per raccogliere una linea di dialogo, spesso oscura. Ad un certo punto il videogioco sembra quasi misericordiosamente tendere una mano al giocatore, fornendolo di uno strumento utile a ridurre la “distanza” e il “tempo”: il gesto di Suda51 di sottrarlo dopo poco apparirà proditorio come quello di un cesaricida.
Qual è il senso di un videogioco che appare contravvenire tutti i dettami del “buon game design”, che accoglie il giocatore nelle spire di uno script senza appigli logici e ingombrato di personaggi stralunati, che specula sulla pia devozione dell’utente, che appare perlopiù interessato a irretire nelle sue “perdite di tempo”?
…Sun…

La natura affabulatoria del titolo di Suda51 si ostenta nel personaggio di Shoutaro Kai, un ragazzino ribelle e dispettoso, uno dei molti ostacoli che si frapporrano fra Sumio e l’aereoporto, l’obiettivo reale della sua indagine. Questi, come e più di molti altri comprimari presenti sull’isola, palesa come i personaggi di Lospass svolgano un ruolo primariamente rappresentativo, entità sul limitare del mondo finzionale, in un ondeggiare continuo lungo i bordi dell’integrità diegetica: Shoutaro, più di altri, rompe i confini della quarta parete, criticando Sumio (il suo vestiario, ad esempio, poco adeguato al sole caraibico), gli eventi intorno al protagonista, la stupidità dei suoi compiti (ludici), l’arretratezza del comparto tecnico, le conseguenze commerciali di certe scelte. Il ragazzino riottoso è la voce piccata del consumatore benpensante di fronte a FSR, videogioco punk in ogni suo atomo.

Shoutaro Kai introduce a un primo versante di analisi del titolo di Grasshopper Manufacture. Giocando con le aspettative di un pubblico sempre più abituato al linguaggio e alle narrazioni delle via via più munifiche produzioni videoludiche, FSR si poneva in aperta controtendenza, già all’alba del nuovo millennio, con la direzione intrapresa dall’industria. Lo faceva attraverso l’esasperazione “in negativo” di ogni sua componente: un intreccio che appare privo di conseguenzialità, interrotto da parentesi rappresentate dalle ucroniche richieste di personaggi strampalati; un tono generale che sembra shakerare tropi e soluzioni narrative codificate, spiattellate senza una contestualizzazione salda; un’interazione che recide il suo storico legame con la dimensione ludica (in senso letterale), in un alternarsi di “tempi morti”, dilatazione del ritmo ed enigmi scomposti.
Attraverso questo procedimento FSR sembra voler mostrare l’artificialità (meglio, l’artificiosità) del medium stesso; contravvenendo alle regole e ribaltando i canoni del “bel videogioco” massificato, il titolo di Suda opera “una messa in parentesi” e si presta a una duplice lettura: da una parte FSR ricolloca il videogioco nella sua funzione rappresentativa, dall’altra, prendendo le distanze dalle forme videoludiche ricorrenti (per così dire, inveterate) per suscitare interesse nel pubblico, ne palesa la strumentalità, e dunque la non-necessarietà.
Se il videogame, come qualsiasi altra forma mediale del reale, svolge prima di tutto una funzione di sintesi dello stesso, allora l’infrangimento del confine fra rappresentazione e rappresentato permette l’innesco di una riflessione nello spettatore, che si interroga sulla natura intima di ciò che ha di fronte. Ecco il fine a cui avrebbe assolto il conferimento di una guida cartacea reale al videogiocatore: la risoluzione di un enigma all’interno del “cerchio magico” passa dal coinvolgimento fisico (lettura di un testo materiale) e mentale dell’invidivuo-al-di-là-dello-schermo; testo che si sarebbe configurato al contempo come guida del gioco e guida dell’hotel all’interno del gioco (ritraente, come reali, personaggi non reali).
Allo stesso tempo, FSR sembra come voler banalizzare la visione stereotipizzata a cui il videogioco già da tempo si stava indirizzando. Una direzione che, forse, agli occhi di Suda51 poteva apparire come inalterabile, spingendolo a esplorare le potenzialità del medium: anche nel videogioco, lo spettro del “raccontabile” è ampio, e le potenzialità dello stesso passano anche dal superamento di ciò che è comunemente inteso come valore, tanto dal pubblico quanto da chi ragiona sul linguaggio videoludico. Contrariare le aspettative dell’utente può essere più che mera provocazione.
In questo senso, e ancor più del precedente The Silver Case, FSR rappresenta l’epitome del postmoderno videoludico. La consapevole adesione al mito (nella sua natura di “ingenuità guardata”) – che si traduce, per l’appunto, nell’immotivato e libero utilizzo degli archetipi narrativi e nello sbriciolamento dei compiti ludici in processi meccanici – segna un precoce (per la verde storia videoludica) distanziamento “del videogioco dal videogioco”: FSR prende le distanze dal “linguaggio ufficiale” del videogioco, e così facendo ne fa nascere una discussione.
Una ricerca sul linguaggio che prende le mosse anche dallo sperimentalismo formale di Goichi Suda, tratto che ha sovente caratterizzato la sua produzione, connotandola di una rilevante crossmedialità: l’inframezzo del live action (come in alcuni spezzoni di The Silver Case o nell’opening di FSR), o anche la presentazione di filmati in stile anime in killer 7, segnano una frammentazione dell’integrità rappresentativa che acuisce la sensazione di uno scarto. Pur avvinte dalla medesimezza dell’universo narrativo, le storie di Suda51 tradiscono spesso la propria natura finzionale e per ciò stesso inducono il fruitore ad accettare soluzioni narrative estreme – anche le opere di Yoko Taro innescano un simile procedimento.
Ma la dissacrazione dei “valori” operata da FSR non si arresta alla veste formale del videogioco; l’opera di Grasshopper Manufacture da una parte instaura un dialogo privilegiato (nel senso di “diretto a”) con il proprio pubblico, dall’altra si inserisce in un certo sentire diffuso di fine millennio, intercettandone le titubanze.
…and Rain

Ogni giorno, Sumio Mondo prova a raggiungere l’aereoporto, per tentare di fermare l’attentato terroristico; e ogni giorno Sumio Mondo viene intercettato da uno degli abitanti del luogo, riusciendo a compiere solo qualche passettino in più, prima dell’inevitabile deflagrazione del velivolo in cielo. Le loro sono soprattutto richieste di aiuto: devono trovare qualcosa, altrimenti sono bloccati, nello spazio, nel tempo e nel destino che sembra a loro ascritto, come inciso con l’inchiostro indelebile di una guida turistica.
Similmente al protagonista de Il Castello di Franz Kafka, Sumio sperimenta l’elusività della sua meta, che gli sfugge nelle maniere più improbabili e che appare come un miraggio, così irraggiungibile eppure così reale ogni volta che l’aereo esplode nel blu del cielo. Nell’isola da sogno, in cui è possibile “dimenticare il tempo” (e in cui il tempo, in effetti, non avanza), il fato di ciascuno sembra quello di vivere una villeggiatura perenne, in una stasi del presente, ove si annidano le polveri del passato e il futuro appare sempre in là da venire. Lospass si configura, pertanto, come rimedio definitivo: non un luogo di temporaneità (come per una vacanza), ma una meta d’evasione dal reale verso ciò che reale non è.
Un’isola illusoria in cui, però, si ammassano i riferimenti del reale, come uno junkyard di simboli svuotati di senso. Simile alla fuliginosa città di Silent Hill (rinvio, ancora una volta, al contributo audio di Caselli, citato a inizio articolo), Lospass (crasi delle parole inglesi “lost past“, passato perduto) accumula segni e rinvia a una memoria condivisa, quella composta da esempi di cultura popolare. Un’isola che, dunque, accoglie i propri ospiti, li culla in un passato rimediato, di cui, però, si palesa la vuotezza: a essere ancorato non è solo il tempo, ma gli individui ivi presenti.
L’avvento di Sumio, con la sua capacità di ritrovare ciò che è perduto, rappresenta l’opportunità per i presenti sull’isola di fare i conti con il proprio passato, nel quale, talvolta, l’intera loro essenza è racchiusa – al punto che taluni dei personaggi di Lospass compaiono nella guida dell’isola, come se il loro orizzonte esistenziale non fosse racchiuso che in quelle coordinate che li definiscono, riportate lì nelle pagine di quel depliant.
Allora, di fronte allo spaesamento di un presente che si fa ricettacolo passivo di segni privi di vita, e di un futuro privo di appigli solidi (nella società della morte delle grandi ideologie di massa), un soggiorno sul magnifico atollo, nel lussuoso hotel di Flower, Sun and Rain, al riparo dalla necessità di dover fare i conti con il domani, acquisisce i contorni di una prigione dorata.

Un torpore tranquillizzante, una ripetizione anestetizzante, i ritmi meditabondi da vacanza di mare, il pathos dell’inseguimento del terrorista che cede il passo alle trivialità divertite e divertenti delle richieste d’aiuto: il Flower, Sun and Rain assorbe Sumio (e con lui il giocatore). Un lucore disimpegnato e ipnotico, che contrasta con gli scenari urbani, allucinati e minacciosi, della precedente opera di Goichi Suda: The Silver Case.
Ed è nel rapporto fra questi due videogiochi, nel loro essere così relati (evidenza sempre maggiore man mano che si prosegue in FSR) che si annida un elemento significativo di dissonanza. Pur non palesando immediatamente la propria natura di sequel (del resto, il titolo non lasciava presagire ciò), FSR si presentava al suo pubblico come il nuovo gioco di quelli di The Silver Case – un plumbeo racconto noir che aveva affastellato suggestioni care all’immaginario di fine anni ’90. Il distacco non poteva essere più ampio, e non ho difficoltà a leggere in questo iato un ennesimo strale che Suda51 lancia al pubblico.
Laddove The Silver Case trascinava il giocatore in una discesa conturbante nella psiche deviata dell’uomo, FSR è un allontanamento temporaneo, una parentesi di pace e spensieratezza: similmente al già citato Sons of Liberty, FSR instaura un fitto dialogo con il proprio utente, sfruttando le aspettative (disattese) che questo aveva maturato sul suo conto. L’opera seconda di Grasshopper Manufacture specula sulla contrapposizione e accoglie il giocatore nel letargismo di uno scenario sognante: un luogo in cui, sgombrata la mente dagli affanni presenti, il passato la occupa, tornando a intervalli regolari, come le onde che si infrangono sulla cerea battigia.
Ma questa installazione della “Kill the past saga” non può che comunicare un monito: il passato culla; ma il passato trascina. Lasciare indietro ciò che è stato (mettere da parte The Silver Case), risolvere e accettare i propri demoni, comprendere l’illusorietà della permanenza di quella vacanza: Sumio e gli altri capiscono come vincere il tempo che ritorna solo nel momento in cui scendono a patti con la transitorietà di quel mondo splendente, e dunque del loro passato.
Questa è, forse, la posizione più rilevante assunta da Flower, Sun and Rain nello scenario conflittuale e preoccupato di inizio nuovo millennio: se il futuro è privo di facili percorsi, la cosa migliore da fare è avere lo sguardo fisso davanti a sè, senza preoccuparsi troppo di dove si è venuti.
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