È giusto giocare a Ruined King: A League of Legends Story?

Sono consapevole del fatto che il titolo in cima a questo articolo potrà, anzi, sembrerà strano a più di una persona. Di solito, quando su un sito di videogiochi troviamo un qualche giudizio di merito su un titolo, questo cerca di rispondere piuttosto alla domanda “il gioco x vale la vostra attenzione, e dunque i vostri soldi?”. Usare la parola giusto, però, implica una valutazione di tipo etico e morale, e non (o non soltanto) sulle qualità insite del gioco in sé – gameplay, storia, aspetto tecnico, insomma i canoni standard di una qualunque recensione. Prima di arrivare a parlare nello specifico di Ruined King: A League of Legends Story che, per inciso, come gioco non è niente male, è però necessario fare qualche premessa.

Se questo discorso sul giusto e sullo sbagliato vi risulta familiare è perché di recente avrete parlato e sentito parlare, probabilmente allo sfinimento, di Hogwarts Legacy. Faccio un breve riassunto per chi, invece, non ha idea della discussione nata intorno al gioco ambientato nel Wizarding World e soprattutto alla sua creatrice, J. K. Rowling, che dal 2020 in poi si è distinta per essere diventata il volto del movimento TERF (o, come preferiscono chiamarsi, ‘Gender critical’), e per i ripetuti attacchi mossi dal suo profilo Twitter nei confronti delle donne trans e di chi sostiene i loro diritti. Posizioni che hanno spinto personalità LGBTQ+ come per esempio Jessie Earl, YouTuber e redattrice di Gamespot, a boicottare il gioco e ad invitare altri a fare lo stesso. Non è questa la sede in cui parlare nel dettaglio di questi argomenti, e delle accese discussioni che ne sono sorte a proposito: se volete saperne di più sulle varie posizioni e sulle loro argomentazioni, oltre a rimandarvi al pezzo che Daniele ha scritto settimana scorsa non posso che indicarvi (limitandoci all’ambito italiano, ma naturalmente anche all’estero se ne è parlato tantissimo) i pezzi di Giulia Martino per Multiplayer, quello di Alessandro Adinolfi per Tom’s Hardware e quello di Stefania Sperandio per Spaziogames.

Discutere sull’internet

Quello di cui mi interessa parlare parte da una argomentazione circolata abbastanza di frequente all’interno delle discussioni degli ultimi tempi, e cioè: “ma se boicotti Hogwarts Legacy perché la creatrice dell’IP è una persona orribile, allora come fai a giocare a tutto il resto? Perché alla fine se scavi il marcio si trova ovunque.” Ed è facile vedere questo genere di argomentazione come disonesta, perché spesso è esattamente quello che è: all’interlocutore non interessa particolarmente dare il via a una discussione ragionata su cosa sia giusto boicottare e cosa no, ma semplicemente evidenziare una presunta ipocrisia in chi sostiene che vada boicottato uno specifico prodotto, ottenere insomma quello che nel gergo di internet viene definito un “gotcha moment” (l’espressione “gotcha” è traducibile con “ti ho fregato”) e infine negare la validità di qualunque tipo di azione in questo senso, il che va naturalmente a deresponsabilizzare e autoassolvere chi ha posto il diabolico quesito. Non è nemmeno un’argomentazione nata con Hogwarts Legacy, anzi, e nemmeno una che si limita al mondo dei videogiochi: nell’ambito dei discorsi politici è talmente comune che già dal 2016 una delle risposte più tipiche è questo fumetto di Matt Bors.

Ragionare su chi si trova dietro i videogiochi, su coloro a cui decidiamo di garantire i nostri soldi e la nostra attenzione, non è esercizio futile

Il fatto che questo sia un argomento comunemente utilizzato in maniera disonesta non significa però che sia sbagliato ragionare sui giochi a cui decidiamo di dedicare il nostro tempo e i nostri soldi, andando anche al di là del gioco in sé e delle sua qualità come, appunto, “gioco”. Intendiamoci, anche questa cosa non inizia certo con Hogwarts Legacy, anzi è pratica comune. Per esempio, conosco più di una persona che decide di non acquistare i giochi su Epic Games Store, preferendo aspettare la release Steam. Per alcuni è il sistema anti-pirateria Denuvo la discriminante. Per altri ancora può essere uno specifico publisher, come per esempio Electronic Arts. Il compianto John “TotalBiscuit” Bain nel 2012 decise di boicottare i prodotti SEGA dopo che il publisher obbligò tutti i canali YouTube che avevano pubblicato video su Shining Force III a rimuoverli, pena la chiusura del loro canale e dunque la perdita di tutti i loro contenuti; e non ricordo particolari sollevazioni popolari nei suoi confronti in seguito a questa decisione.

Però il discorso qui è leggermente diverso. Anche se queste motivazioni per boicottare un gioco, una piattaforma o un publisher esulano dai giochi in sé, hanno comunque a che fare con questioni strettamente contingenti. La musica cambia quando si inizia a ragionare su ciò che i creatori e i finanziatori dei videogiochi fanno al di fuori dell’industria come, appunto, le posizioni sulle donne trans della creatrice dell’IP (nonché detentrice dei diritti e dunque percettrice di royalties) su cui si basa Hogwarts Legacy. Anche qui non siamo certo nel campo delle novità assolute nel mondo dei videogiochi, in ogni caso: l’esempio più famoso è probabilmente Markus “Notch” Persson, creatore di Minecraft nonché sostenitore delle più folli teorie di complotto dell’estrema destra americana, personaggio talmente scomodo da essere stato quasi del tutto esautorato (è presente nei crediti del gioco, ma null’altro) da Microsoft, che dal 2014 ha acquisito il pieno controllo dell’IP.

Di Re in rovina

Ruined King: A League of Legends Story c’entra con questo discorso perché, beh, perché ci sto giocando e le discussioni di questi giorni mi hanno spinto a riflettere su chi c’è dietro, e a farmi qualche domanda. Il gioco in questione è un simil-JRPG creato da Airship Syndicate come parte dell’etichetta Riot Forge, tramite cui lo studio di sviluppo creatore di League of Legends e Valorant collabora con realtà di terze parti per espandere l’universo narrativo del suo MOBA; è il caso, per esempio, di progetti come Hextech Mayhem (dei creatori di BIT.TRIP) e del prossimo Song of Nunu (su cui stanno lavorando gli sviluppatori di Rime). Ruined King è un gioco valido, molto bello a livello di ambientazioni, con un gameplay simile ma meglio strutturato rispetto a quello del precedente Battle Chasers: Nightwar, con un accompagnamento sonoro di pregio e, se tende a tirarci addosso fin troppi scontri triviali una volta arrivati circa a metà, è sicuramente un ottimo prodotto per chi ha la passione per i personaggi di League of Legends e vuole passare un paio di decine di ore in compagnia di alcuni di loro senza lo stress di una partita competitiva, ma anche per chi cerca semplicemente un buon JRPG. Però non è di questo che voglio parlare.

Ruined King: una schermata di combattimento.

Dietro Airship Syndicate e Ruined King c’è appunto Riot Games. E per trovare gli scheletri nell’armadio di Riot Games non serve certo mettersi a cercare con il lanternino: è passato qualche anno ma sono sicuro che in molti avranno memoria dell’inchiesta che Cecilia d’Anastasio scrisse per Kotaku, e che metteva in luce una cultura interna allo studio definita da “frat-house”, inerentemente sessista e misogina. Un articolo che descriveva una situazione, se forse non allo stesso livello di quanto emerso a proposito di Activision Blizzard nell’estate 2021, di sicuro non lusinghiera. Un paio di esempi, tratti direttamente dall’articolo di Kotaku:

Un giorno, Lacy decise di condurre un esperimento. Dopo che un’idea in cui credeva davvero non fu ben accolta durante una riunione, chiese a un collega maschio di presentare la stessa idea allo stesso gruppo di persone qualche giorno dopo. Lui era scettico, ma lei insistette e lui accettò. «Guarda un po’, la settimana dopo lui andò, presentò la cosa esattamente come avevo fatto io e la reazione dei presenti fu “oh cavolo, è un’idea geniale.”»

Un’altra [dipendente] ha detto che una volta un collega la ha informata, mettendola come fosse un complimento, che lei si trovava in una lista di persone che i senior leader avrebbero voluto portarsi a letto.

Prima di pubblicare la sua inchiesta Kotaku contattò anche Riot Games, che naturalmente si affrettò a specificare come comportamenti del genere dovessero essere considerati del tutto contrari alla sua cultura interna, che ha “una politica interna di tolleranza zero nei confronti di discriminazione, molestie, vendette, bullismo e tossicità generale”. Che è più o meno la dichiarazione standard che ci si aspetta in casi del genere – ne abbiamo sentite di simili non solo dalla già citata Activision Blizzard, ma anche da Ubisoft quando le due case furono coinvolte da scandali dello stesso tenore.

Per quanto riguarda Riot Games, nel giro di tre settimane lo studio californiano pubblicò una dichiarazione intitolata Our First Steps Forward (“I Nostri Primi Passi Avanti”), in cui dettagliava sette obiettivi che la compagnia si era prefissata per il suo prossimo futuro, fra cui la consulenza da parte di enti di terze parti che guidassero la “ricostruzione della cultura interna di Riot”, una maggiore apertura dei suoi processi di recruiting, e un ampliamento della sua divisione Diversity & Inclusion. Gli strascichi di questa vicenda non sono finiti lì, dato che dietro c’è stato anche l’aspetto legale: da questo punto di vista, nel 2021 Riot Games ha accettato un accordo che prevedeva il pagamento da parte sua di una somma di 100 milioni di dollari, 20 dei quali sono serviti a pagare le spese legali mentre i restanti 80 sono stati distribuiti fra circa 2300 donne, a titolo di compensazione. Più di recente, Riot Games sembra avere fatto sinceri passi avanti nel miglioramento della sua cultura interna, ma naturalmente la prospettiva che possiamo avere su questo genere di cose è molto limitata.

Ruined King: Miss Fortune si trova su una barca di fronte a Bilgewater, la città piratesca.

Non è nemmeno finita qui. Certo, quello sulla misoginia è lo scandalo più grosso ad aver coinvolto Riot Games negli ultimi anni, ma non è stata l’unica occasione in cui lo studio californiano fece alzare qualche sopracciglio. Pensiamo, per esempio, a quando nel luglio del 2020 Riot strinse un accordo per la sponsorship del League European Championship con NEOM, progetto per una futuristica città finanziato dalla casa regnante saudita. Questa decisione si attirò immediatamente numerose critiche, dovute alla poca considerazione tenuta dall’Arabia Saudita nei confronti dei diritti umani; pensiamo per esempio ai limiti posti ancora oggi, nonostante recenti e importanti passi avanti, alla libertà delle donne, figurarsi poi se andiamo a vedere le posizioni nei confronti delle minoranze LGBT. E, naturalmente, l’esempio più emblematico dell’illiberalità saudita è l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, avvenuto nell’ottobre 2018 e, secondo fra gli altri la Central Intelligence Agency americana, ordinato direttamente dal principe ereditario Mohammed bin Salman. Riot, in seguito alle proteste, decise di rescindere il suo accordo di sponsorship il giorno dopo l’annuncio.

Continuiamo con un ultimo evento simbolo. Su queste pagine abbiamo parlato in un paio di occasioni della questione Blitzchung, giocatore che durante le premiazioni di un torneo di Hearthstone disse in diretta “Hong Kong libera” e fu per questo sanzionato da Blizzard, dando il via ad accese discussioni su quanto politica e videogiochi potessero effettivamente convivere. Negli stessi giorni, Riot Games decise di adottare la strada della cautela, vietando qualunque esternazione di tipo politico da parte di giocatori e commentatori nel corso dei suoi tornei di League of Legends. Anche qui, non esattamente una scelta accolta in armonia dal pubblico.

Dietro Riot Games

A posto così? Beh, per quanto riguarda direttamente Riot Games sì, ma c’è qualcos’altro che non è possibile ignorare. Dal 2011 lo studio è infatti sotto il diretto controllo di Tencent, che acquisì il 93% delle azioni per 400 milioni di dollari; il restante 7% fu acquisito dal colosso cinese nel 2015. Tencent è un nome noto per chiunque segua ciò che avviene al di là dei videogiochi: negli ultimi anni la realtà cinese ha infatti intensificato notevolmente i suoi investimenti nel campo degli studi occidentali. Una breve lista non esaustiva:

  • Una quota “importante” (non specificata) di 10 Chambers Collective, autori di GTFO;
  • Acquisizione di Leyou Technology Holdings, e dunque dello studio canadese Digital Extremes (Warframe) e dei britannici di Splash Damage (Gears Tactics);
  • Acquisizione di Klei Entertainment (Don’t Starve, Mark of the Ninja, Griftlands);
  • Acquisizione di Sumo Group (Sackboy: Una Nuova Avventura, Hood: Outlaws and Legends);
  • Quota di maggioranza di Yager (The Cycle);
  • Quota di maggioranza di Stunlock Studios (Battlerite, V Rising);
  • Quota di maggioranza di Tequila Works (Rime, Song of Nunu);
  • Quota di maggioranza di Fatshark (Darktide, Vermintide).

E queste sono solo le transazioni più importanti degli ultimi tre anni, ma Tencent ha anche numerose quote di minoranza in vari altri studi; citiamo per esempio Don’t Nod, Remedy, Bloober Team, From Software e naturalmente Epic Games, di cui controlla il 40% delle azioni. La notizia di ogni nuova acquisizione o investimento è puntualmente stata accolta con un misto di scetticismo e preoccupazione da parte dei giocatori occidentali. Non tanto – o forse non solo – per la patria natia del fondo d’investimento, quanto più per la sua reputazione non esattamente brillante. È infatti noto come il regime cinese abbia politiche piuttosto libertine nei confronti del diritto d’autore, e di come Tencent se ne sia approfittata in più di un’occasione. I suoi software sono talvolta stati accusati di violazioni di sicurezza. E, elefante nella stanza, ci sono poi gli stretti rapporti fra Tencent e il governo cinese, che si sono concretizzati in varie istanze di censura nei confronti di espressioni politiche non conformi alle linee guida dettate dal Partito Comunista Cinese; esempio più eclatante è forse stato quello che ha coinvolto la squadra degli Houston Rockets dopo che il general manager Daryl Morey espresse il suo sostegno all’indipendenza di Hong Kong in un tweet, poi rapidamente cancellato. Non bastò però questo a placare l’ira cinese e quella di Tencent, detentrice dei diritti per la trasmissione della partite dell’NBA. Proprio l’ente della pallacanestro americana dovette esprimere pubblicamente la sua contrizione per la poca sensibilità politica di Morey.

E naturalmente ci sono anche le questioni più direttamente legate ai videogiochi, con una diffusa percezione che Tencent voglia spingere gli sviluppatori verso una maggiore inclusione di microtransazioni nei loro titoli. Finora molte di queste acquisizioni sono state accompagnate da dichiarazioni che professano la libertà creativa dei singoli studi, ma il recente caso di Warhammer 40,000: Darktide – in cui alcune funzionalità di gameplay presentavano la dicitura “coming soon”, mentre invece il negozio per gli oggetti cosmetici era perfettamente funzionante – ha spinto parte della comunità di giocatori a sospettare che Tencent avesse avuto una influenza non secondaria in tutto questo.

Navigare tra le nebbie

Ma torniamo a Ruined King: A League of Legends Story. La domanda, come avrete capito, è se sia giusto o meno dare dei soldi non solo ad Airship Syndicate, ma anche a Riot Games e Tencent. Non è nemmeno una questione solo economica, ma anche di prestigio. Certo, League of Legends è già una IP dal successo globale. Credo che sia sostanzialmente impossibile giocare su PC in maniera semi regolare e non aver mai sentito parlare del MOBA di Riot Games, così come è quasi impossibile non aver sentito parlare di Fortnite, FIFA o Call of Duty. Ma ogni nuova uscita offre la possibilità di raggiungere un nuovo pubblico, magari non necessariamente interessato alle sfide multiplayer. È successo con Arcane, la serie animata, i cui spettatori non sono certo stati solo i veterani della Landa degli Evocatori. È successo con Legends of Runeterra, è successo con Ruined King e succederà anche con il picchiaduro Project L e con l’MMORPG da tempo annunciato e ancora non rivelato. Ogni tassello contribuisce alla pervasività di questa IP, e allo stesso tempo al prestigio di chi le sta dietro. E ha senso chiedersi: è qualcosa che vogliamo?

Ruined King: Illaoi, sacerdotessa di Nagakaburos, scruta nuvole minacciose all'orizzonte.

Premetto che io una risposta sicura a questa domanda non la ho. Non è sempre facile decidere. Con Hogwarts Legacy per me è stato semplice, ma sarebbe disonesto non ammettere che lì il legame era anche molto meno stretto: dire che non avrei mai acquistato il gioco di Avalanche Software per me non è stato questo grande sacrificio, visto che l’unico legame che ho con Harry Potter sono i libri impolverati che si trovano nel mio scaffale, lì immobili ormai da quindici anni. Ma chissà: forse se la mia connessione a questa serie fosse stata più forte anche resistere all’attrattiva del Wizarding World sarebbe stato molto più difficile, pur considerando le nette e (a mio personale avviso) inqualificabili posizioni di J. K. Rowling. Con Ruined King la posizione è in ogni caso più sfumata, meno netta: Tencent è un’entità lontana e quasi vaporosa, Riot Games sembra aver fatto passi nella giusta direzione. Basta questo per continuare a supportare i loro videogiochi? Più in generale – perché il discorso, casomai non si fosse capito, non è solo a proposito di Ruined King, o di Riot Games – qual è la soglia oltre cui non è più giusto supportare economicamente un gioco, uno studio, un publisher?

“There is no ethical consumption under capitalism” non significa che possiamo lavarcene completamente le mani

Qualcuno potrebbe rispondere in maniera netta con un altro argomento che ho letto comunemente in questi giorni: “there is no ethical consumption under capitalism”, ovvero, il capitalismo è un sistema basato inerentemente sullo sfruttamento, quindi non ha senso stracciarsi le vesti alla ricerca di una irraggiungibile purezza del consumo e degli acquisti. Un argomento sensato, ma anche qui bisogna fare attenzione: il fatto che “non esista consumo etico sotto il capitalismo” non significa che sia giusto spendere tenendo il cervello disattivato. Esistono acquisti più etici di altri. Per esempio, dare o meno i miei soldi ad Amazon per i libri che acquisto non farà alcuna differenza nei dati finanziari del colosso americano; un mio eventuale boicottaggio avrebbe ben poco peso. Ma, allo stesso tempo, non sarebbe meglio se quei soldi andassero a una libreria indipendente invece che ad arricchire ulteriormente l’ennesima megacorporazione? Insomma, non si può usare questa frase per lavarsene le mani. Le scelte hanno conseguenze, anche quelle piccole. Ma anche qui, dov’è la soglia giusta non è qualcosa che posso dirvi io. Non esistono dei canoni oggettivi e definiti per stabilire cosa è abbastanza etico e cosa no. È una risposta che ciascuno deve trovare per sé, caso per caso. Una cosa però la so: è importante rifletterci, ragionarci su, farsi domande sui prodotti che consumiamo.

Leggi altri articoli da questa penna
  • Marco "Brom" Bortoluzzi

    Vive in mezzo ai monti del Trentino, brontola un sacco, però alla fine non è cattivo, sul serio. Basta che non parliate male di Borderlands in sua presenza.

Iscriviti alla nostra newsletter

Per aggiornamenti sulla nostra attività e consigli su contenuti di valore.
Niente spam, promesso!