
Mi permetterete la citazione a Metal Gear Solid e l’esposizione volutamente iperbolica; questo incipit l’avvertivo come esigenza ineludibile.
Tuttavia è il caso di affrontare di petto la sfida critica che il nuovo “A Hideo Kojima game” rappresenterà per coloro che amano discutere intorno al videogioco; e no, non mi riferisco al ripalesarsi della consapevolezza (non che ci fossero dubbi, ormai) di quanto inadeguata sia tuttora la critica videoludica, quantomeno nel suo establishment.
Alludo, invece, alle implicazioni, tutte inerenti i fondamenti del game design, che Death Stranding porta con sé: questo articolo si concentrerà, dunque, su questo aspetto sezionato dell’opera di Kojima, lasciando ad altri o ad altre occasioni svisceramenti ulteriori. Sulla base di tali riflessioni esporrò una mia “teoria”, largamente ancora in itinere nel suo sviluppo (e dunque fallibile in buona parte), che tuttavia può essere una base condivisa di discussione e arricchimento. C’è una grossa possibilità che tutti questi non siano che vaneggiamenti di un lungo sabato pre-bagordi notturni; quantomeno sarà un’occasione di confronto.
È necessario, allora, che si inizi l’esposizione dell’unicità che caratterizza Death Stranding, parlando di… sparatutto e indicatori su mappa.
L’azione ludica e lo spazio virtuale

Pensate a uno qualsiasi dei videogiochi che amate; possibilmente pensate a un videogioco in cui la vostra libertà spaziale è limitata al proseguimento entro uno luogo virtuale chiaramente contornato. Ora rifletteteci con attenzione: in cosa consiste il vostro agire all’interno di essi? Imbracciate un’arma? Circuite un avversario stordendolo da dietro? Guidate un’auto? Qual è la vostra “azione ludica”?
Definisco l’azione ludica come “un complesso dotato di senso di meccaniche di gioco e di elementi unitari d’interazione”. Quando in Metro 2033, videogioco fps/stealth di 4A Games, mi avvicino, sfruttando l’oscurità, al nemico umano che mi è di spalle, al fine di ucciderlo, la mia azione ludica consiste in un coacervo di elementi primi che concorrono alla formazione del senso complessivo: regole di luce e ombre che ineriscono il camuffamento, controllo dell’avatar, movimento corporeo offensivo di sopraffazione dell’avversario, meccanica di cagionamento di rumori, cono di visione nemico e via discorrendo, sono tutte riduzioni atomistiche di un’azione ludica, che, in Metro 2033, si sostanzia in “supera l’ostacolo senza farti vedere”.
Un procedimento “critico” (nel senso etimologico del termine) simile può farsi per qualsiasi esperienza videoludica, ed è proprio la ricorrenza (qualitativa e quantitativa) dell’azione ludica a determinare la creazione di generi di riferimento (sparattutto, gdr e via dicendo).

Ora, ogni azione ludica deve svolgersi all’interno di un contesto, in uno “spazio virtuale”, di riferimento. Lo spazio virtuale è il collante che racchiude il complesso di azioni ludiche di cui consta un’opera videoludica. Esso fa riferimento non solo ai parametri cartesiani spaziali — lunghezza, altezza e profondità della realtà finzionale dentro lo schermo — ma racchiude anche il complesso di elementi che regolano il rapporto fra l’avatar di gioco e l’ambiente circostante. Allo stesso tempo, è mediante lo spazio virtuale che in una certa parte viene comunicato l’universo narrativo creato dall’autore.
Prendiamo ad esempio Half-Life 2, “apripista” di Valve: sia l’ambiente di gioco che le regole dello stesso formano lo spazio virtuale in cui si esplica l’azione ludica dell’opera Valve. Inoltre, tale spazio è anche l’espediente mediante il quale il contesto narrativo (consistente in città in piena guerriglia, palazzi fatiscenti, terreni impervi da superare e via dicendo) si presenta al videogiocatore.
Dal punto A al punto B
Poste le premesse definitorie, avviciniamoci celermente al punto

La struttura tipica del videogioco, quantomeno nelle sue iterazioni narrative — dunque prescindendo, ora, da tutte quelle esperienze più “primitive”, fortemente arcade, o borderline, quale può essere il variegato spettro di simulatori — si regge su uno schema molto archetipico: si parte dal punto A per arrivare a un punto B. Questa ritualistica non ha attinenza solo con il modo di raccontare una storia — il trigger di uno step del racconto in un videogioco spesso coincide con il raggiungimento di un luogo o di uno status — ma soprattutto (ed è quello che ci interessa) attiene alla struttura ludica.
A ben vedere, nel videogioco l’azione ludica coincide esattamente con il raggiungimento del punto B, nel quale si concentrano le istanze che compongono l’interazione tipica di quel determinato prodotto. Per semplificare il discorso, inizio esemplificando espressioni meno “dispersive” di spazio virtuale.

In uno sparatutto su binari, l’azione ludica, consistente nell’abbattimento mediante armi da fuoco di entità ostili, si concentra nei “punti” dello spazio virtuale in cui è prevista. Non solo il giocatore ha l’obbligo di raggiungere quel “punto” per raggiungere il finale dell’esperienza (obbligo che generalmente è accompagnato da un’urgenza narrativa), ma in un certo senso è spontaneamente portato a farlo perché è laddove che l’azione ludica si consuma.
Quando, tornando ad Half-Life 2, ci viene indicato un punto virtuale da raggiungere, il design di gioco ci sta suggerendo che dal punto A (in cui ci troviamo) dovremo percorrere uno spazio virtuale verso il punto B, nel quale si anniderà l’azione ludica tipica dell’opera Valve (annientare i nemici che si frappongono al nostro incedere). In altri termini, il movimento di Gordon dal punto A al punto B è un mero espediente narrativo di contestualizzazione dell’azione ludica.

Sento già le obiezioni. “Cosa dici, Lorenzo, tra il punto A e il punto B, potresti trovare enigmi ambientali, nemici ulteriori, sessioni con mezzi!”
Errato. Queste apparenti “interruzioni” del percorso non sono altro che i segmenti, in totale discontinuità gli uni dagli altri, che affastellano lo spazio virtuale, configurandosi come tanti “A1”, “A2”, “A3”. In altri termini, la compresenza lungo il cammino di isolate sezioni di azione ludica non scardinano la struttura classica del videogioco, la quale utilizza il contesto spaziale come contenitore dell’agire videoludico che si concentra in determinate coordinate di spazio e di senso.
Se per arrivare da Alyx (dove prevedibilmente si avrà una climax dell’azione ludica), dovrò nel mentre affrontare e vincere dei Combine o usare la moto d’acqua, non starò altro che esercitando la mia azione ludica in “tappe intermedie”, logicamente e spazialmente separate le une dalle altre, come tanti “punti” che vivificano uno spazio altrimenti “di sfondo”.

Anche questa astrazione dell’interazione ludica tipica si presta a essere applicata a qualsiasi esperienza di gioco. Tuttavia questo scritto non può, per ragioni di spazio e tempo, prestarsi a un’analisi coerente delle miriadi di espressioni videoludiche possibili; in particolare sarebbe stato interessante applicare questo metodo d’indagine ai famosi esponenti del “walking simulator”, in cui molti (sbagliando) inseriscono Death Stranding.
Lascio al lettore dilettarsi su questi e altri accostamenti.
Dal punto A al punto B in uno spazio aperto
Proseguendo nella nostra marcia di avvicinamento, entro nel terreno più prossimo al nuovo lavoro di Kojima, soffermandomi sulla vasta insiemistica degli “open-world”.
Anche per essi, non è possibile quì svolgere alcuna ricognizione critica sulla loro definizione e il loro senso; ci basti qui stabilire che in tale espressione videoludica viene ricompresa non solo una libertà spaziale (di libero direzionamento nelle dimensioni offerte dal “proscenio”), ma anche una libertà d’azione derivante da un relativo sbrigliamento dell’utente da un ordine (il quando-fare-cosa) imposto dall’autore del videogioco.

Per queste tipologie di design, lo schema tipico sopra esposto, si riflette in maniera ancora più evidente. Non solo la polarizzazione narrativa, per lapalissiana natura dei prodotti “world-driven”, si acuisce esattamente in corrispondenza dei “punti A e B”, ma è altresì l’azione ludica che si adagia in maniera sorprendentemente chiara sugli hotspot dello spazio virtuale. Ciò per via del fatto che quest’ultimo è pensato nell’open-world come l’empty space in cui l’azione ludica, limitata in precise aree della “mappa di gioco”, viene intensificata — soprattutto da un punto di vista di coinvolgimento emozionale e di percezione dello spazio — proprio dalla “vacuità” dello spazio che la circonda.

Lo spazio, dunque, non è, in fondo, che un’astrazione mentale del giocatore che contribuisce a rinvigorire il significato dell’azione ludica e l’immedesimazione in un mondo che “pretende di essere reale”: è questo il motivo per cui i designer dell’open world pretendono che il giocatore quello spazio lo percorra concretamente. Si tratta di un artificio, una fictio.
Prescindendo dalle divergenti versioni di interazione dell’avatar con lo spazio videoludico, e dunque astraendo e asciugando le specificità dei diversi open world succedutisi nella breve storia del videogame, l’azione ludica segue questo canovaccio.
Si parte da un punto A, ponendosi come obiettivo un punto B; questi sono i luoghi virtuali in cui si esplica l’azione ludica, che spesso si risolve nella risoluzione di compiti (quest) mediante “la corda o il bastone”. Nell’empty space che distanzia i punti A e B, si intromettono parentesi di azione ludica — come gli encounter casuali, le relazioni ambientali previste, i compiti secondari — che arricchiscono questo spazio di variegati “punti focali”, senza però rompere lo schema.
Pensateci, ludicamente (e sottolineo, ludicamente) in che modo lo spazio virtuale in un open-world contribuisce al gameplay? Assolutamente nessuno.

Che si tratti di un design che usufruisca dei tanto disprezzati indicatori su mappa (paradossalmente, la perfetta materializzazione del concetto che sto esprimendo) o che invece privilegi l’osservazione dell’ambiente, lo spazio è sempre e comunque utilizzato come sfondo (con valore eminentemente narrativo e immedesimativo) sul quale l’avatar “veleggia” verso il nuovo punto d’azione (che, ripeto, è ben spesso intermedio rispetto a quello previsto).

Prendiamo ad esempio un classico dell’open-world, Baldur’s Gate. Quando un PNG ci conferisce un incarico (punto A), indicandoci il luogo preciso in cui svolgerlo, ci sta implicitamente spronando a percorrere un non-luogo (come è appunto quello virtuale) al fine di raggiungere il punto (B) in cui l’azione ludica può consumarsi: quello spazio, che svolge prima di tutto una funzione di “mimesi” per il giocatore, non ha alcuna stretta attinenza con la stessa, se non per l’eventualità di incorrere in punti intermedi d’azione (A2, A3, A4…).
Infatti, chiedo sibillinamente al lettore: il fast travel cosa spezza, l’immedesimazione mimetica o l’azione ludica?
Insomma, l’esperienza ludica è generalmente connotata da una funzione ancillare dello spazio virtuale, il quale funge da mero contesto ambientale a un’interazione che è “isolata” nello stesso.
Poi, nel 2019, è uscito Death Stranding.
Quì la seconda parte dell’articolo.
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