Death Stranding: il dilemma del porcospino

Avviso ai lettori: questo articolo contiene spoiler sulla trama di Death Stranding, Neon Genesis Evangelion ed Her.

“Il porcospino avrebbe voluto fare amicizia con il prossimo, ma quando si avvicinava a un suo simile entrambi si ferivano con gli aculei che ricoprivano i loro corpi. Lo stesso capita ad alcune persone: Shinji in fondo al suo cuore è spaventato dal dolore che potrebbe provare e questo lo rende freddo e riservato.”

Questa celebre frase di Neon Genesis Evangelion riassume il cosiddetto dilemma del porcospino, concetto ideato da Arthur Schopenhauer per illustrare le difficoltà della fiducia e del contatto tra esseri umani. Una metafora che riassume splendidamente il tema principale del capolavoro di Hideaki Anno.
Shinji Ikari, il protagonista di Evangelion, è un ragazzo chiuso, introverso, insicuro, fragile e spaventato. Ben lontano dal classico canone dell’eroe, nonostante sia il “prescelto” per pilotare l’EVA-01 e combattere per l’umanità Shinji rinuncerebbe volentieri a tale responsabilità, ma va avanti perché è l’unico modo in cui crede di poter essere “visto” e apprezzato dagli altri e principalmente dal padre Gendo.
È impossibile rendere in poche righe la ricchezza tematica di Evangelion, ma molto brevemente si può dire che durante tutto il corso dell’anime vediamo Shinji alle prese con le sue difficoltà relazionali, la sua sostanziale incapacità di rapportarsi col prossimo e di aprirsi, insomma: di comunicare.
La via più facile per combattere il dolore è chiudersi a riccio e isolarsi, ponendo muri tra il sé e l’altro.
Solo alla fine, posto davanti alla scelta definitiva, Shinji sceglie di accettare il dolore dato dal contatto con gli altri, di rifiutare il dissolvimento dell’individualità nell’oceano di LCL e di recuperare quella differenziazione tra sé e gli altri che è requisito indispensabile della coscienza di sé.

Death Stranding
Death Stranding

È piuttosto chiaro che il caro Hideo Kojima abbia ripreso molto da Neon Genesis Evangelion nella concezione di Death Stranding, non solo per via di richiami estetici abbastanza espliciti (vedere immagini a lato), o per il facile accostamento tra Last Stranding e Third Impact. Sam Porter Bridges, il protagonista di Death Stranding interpretato da Norman Reedus, se ci pensate non è poi così diverso da Shinji: chiuso, introverso, spaventato dal contatto con gli altri, “costretto” ad assumere il ruolo di “eroe” controvoglia.

Addirittura la sua paura del contatto, il suo “dilemma del porcospino”, assume connotati metaforicamente concreti grazie alla sua aptofobia: Sam soffre fisicamente quando viene toccato. Ancora similmente a Shinji le radici di questo disagio risalgono a conflitti relazionali con le figure genitoriali: se per Shinji si riallaccia alla perdita della madre e alla relazione ambivalente con un padre assente e distaccato da cui non si è mai sentito amato, allo stesso modo scopriamo che Sam ha perduto il padre e ha dovuto fare i conti con una madre (adottiva) “distante”, anche se probabilmente non agli estremi di Gendo.
Piuttosto ironicamente il compito di Sam è quello di “riconnettere” l’umanità, di ricreare quei legami perduti e riavvicinare le persone…ma è chiaro sin da subito che c’è qualcosa che non quadra.

Death Stranding

(How do I) Form a connection when we can’t even shake hands?

Her, di Spike Jonze, è un film del 2013 in cui un uomo, Theodore (interpretato magistralmente da Joaquin Phoenix), finisce con l’innamorarsi di un’intelligenza artificiale. Jonze ci mostra una società futura apparentemente molto gioiosa, ma in cui in realtà le persone sono così disabituate a comunicare tra loro e ad aprirsi da commissionare ad altri, tra cui Theodore, la scrittura di lettere estremamente intime da inviare ai propri cari.
Theodore ci viene mostrato come un uomo dalla spiccata sensibilità, capace di scrivere per l’appunto delle lettere toccanti e con una chiara attenzione per la specifica persona a cui sta scrivendo: eppure lui stesso nella sua vita privata, nelle relazioni con le persone a lui care, appare come un uomo totalmente diverso, che a detta della ex-moglie si rifugia nel rapporto con una IA per sfuggire alla sua incapacità di rapportarsi con gli altri esseri umani.
La società messa in scena da Jonze è una società iperconnessa ma al tempo stesso frammentata: emblematica la scena in cui Samantha (l’IA) svela a Theodore di intrattenere contemporaneamente relazioni con migliaia di persone, data la sua infinita capacità di elaborazione e la sua mancanza di corporeità.
In quel momento Theodore si siede sulle scale della metropolitana e si guarda intorno: decine e decine di persone gli sfrecciano di fianco, tutte con lo sguardo fisso sullo schermo del proprio cellulare, tra i quali molti, per quanto ne sa Theodore, potrebbero star parlando con Samantha stessa.
Tematiche chiaramente attuali: l’alienazione portata dalla tecnologia, il paradosso di una connessione costante che finisce in realtà con l’allontanare le persone, l’incapacità di aprirsi e comunicare, la paura del contatto umano e il conseguente rifugio in rapporti mediati invece che corporei. Il corpo è, del resto, un altro grande tema di Her, in cui il rapporto tra Theodore e Samantha deve fare costantemente i conti con la differenza intrinseca tra i due, data dalla a-corporeità di lei, e con la conseguente impossibilità di sperimentare un contatto reale.

Like a phantom greeting me

Death Stranding

Non so dire se Hideo Kojima, da appassionato di cinema quale è, abbia visto Her e ne sia stato ispirato durante lo sviluppo di Death Stranding, ma penso che anche qui sia interessante e opportuno un parallelo tra le due opere. Giocando a Death Stranding ho trovato inevitabile provare un certo senso di straniamento: da un lato l’esplicita richiesta di connettere tra loro persone ormai isolate e disabituate al contatto con gli altri, dall’altro un gioco che fa di tutto per far esperire al giocatore una forte solitudine, anche alienazione a tratti. Non solo si passa gran parte del tempo vagando soli (o meglio, in compagnia di BB, un infante mai nato) per lande desolate, ma anche quando si arriva agli avamposti ad accoglierci si trovano sempre e solo dei freddi ologrammi.

Anche nelle interazioni con gli altri giocatori, che come ho argomentato in un precedente articolo spingono egregiamente alla collaborazione e incapsulano anche meglio della narrazione esplicita il tema della connessione, c’è qualcosa che manca: il corpo. I giocatori collaborano senza vedersi, si scambiano apprezzamenti tramite “like”: il corpo e il contatto corporeo acquisiscono centralità proprio per la loro sostanziale assenza a più livelli. Nel gioco come nella realtà, si instilla il dubbio che la rete connetta in apparenza ma finisca con l’aumentare l’isolamento.
È una vera connessione, quindi?

(How do I) Form a connection when we can’t even shake hands?
You’re like a phantom greeting me
[…]
You call this a connection?
Oh, give me a break

Questa citazione, tratta dal brano “Homo Ludens” (come la mascotte di Kojima Productions, così chiamata in riferimento al celebre saggio di Huizinga) presente in Death Stranding, espone proprio questa tematica.
A ben vedere però il contatto corporeo non acquisisce importanza solo per la sua quasi totale assenza, ma anche per la sua pericolosità (e non è certamente un caso che le varie armi del gioco si basino proprio sui fluidi corporei del protagonista).
Love is destructive, per citare di nuovo l’opera di Anno richiamando il titolo della prima parte di “The End of Evangelion”. Il dilemma del porcospino in Death Stranding non investe solo Sam e la sua aptofobia, ma il mondo intero. Un mondo che ci viene descritto in un testo del gioco come un “mondo asessuato”, in cui una larga fetta della popolazione è asessuale o addirittura prova avversione per il contatto fisico stesso.

Ma c’è anche un altro modo, ancor più importante, in cui il gioco ci mostra il pericolo del contatto: i void out, le esplosioni causate dal tentativo delle BT di toccare un essere umano, o dal tentativo di un’anima di tornare al proprio corpo. Il Death Stranding, così come tutte le esplosioni successive, sono generate proprio dal contatto tra esseri umani e BT, mondo dei vivi e mondo dei morti, materia e antimateria. La stessa causa primaria del sesto processo estintivo (o meglio della sua accelerazione), il “catalizzatore” di cui parla Amelie/Bridget, risiede nella scelta di quest’ultima di riportare in vita Sam, quindi in definitiva nel legame tra i due. La recisione di questo legame, infatti, è l’unico modo per fermare il Last Stranding.
La fine del mondo, in Death Stranding, può passare per un abbraccio.

Death Stranding

Il potere di un abbraccio

L’ultima opera di Kojima non è però certo totalmente cinica e disillusa, anzi.
Se è vero che il contatto ci viene ripetutamente mostrato come un qualcosa di potenzialmente devastante, e che la connessione alla rete chirale che Sam espande durante tutto il suo viaggio si rivela anch’essa motore dell’apocalisse, è altrettanto vero che il finale ci mostra un’altra faccia della medaglia.
Quando Amelie/Bridget presenta a Sam la scelta tra l’assistere con lei al Last Stranding o spararle per impedirlo, il giocatore sa che c’è una terza opzione, che piuttosto che affidarsi al bastone può optare per la corda: la abbraccia.
L’abbraccio diventa simbolo della connessione autentica, il contatto fisico e umano assume in questo caso un ruolo salvifico.
Poco dopo a salvare Sam dal suicidio, o dalla solitudine eterna, sono i legami reali che ha stretto nel corso del suo viaggio, attraverso quella pistola che simbolicamente rappresenta il bastone che si trasforma in corda.

Death Stranding

La crescita di Sam alla fine del viaggio è compiuta con la scoperta che la recisione del suo legame con Amelie ha curato la sua aptofobia: ora è libero di toccare gli altri e di esserne toccato, sia concretamente che, di conseguenza e simbolicamente, da un punto di vista affettivo.
Il doppio abbraccio tra Deadman e Sam, dopo che quest’ultimo è andato via nel mezzo del discorso celebrativo di Die-Hardman, sembra proprio voler affermare la differenza tra le due tipologie di legami e l’importanza del contatto.
Nonostante Sam dica a Fragile di non sentirsi cambiato, le sue azioni dimostrano il contrario, il che diventa più chiaro che mai nella sequenza finale in cui Sam rinuncia a tutto per Louise, liberandosi dal giogo delle manette (in una scena assimilabile a quella in cui Raiden getta via la targhetta in Sons of Liberty). L’estrazione di BB, Louise, dalla teca in cui era stata rinchiusa per tutta la sua “vita”, impossibilitata a toccare gli altri e a esserne toccata, rappresenta un rischio ma anche l’unica possibilità di rinascita (o meglio di vera nascita).

L’abbraccio finalmente reale tra Sam e Louise, il primo che aveva sempre evitato il contatto e la seconda che non lo aveva mai sperimentato, rappresenta per forza di cose il culmine del discorso sui legami, il superamento del dilemma del porcospino.
La vera connessione, quella pericolosa e potenzialmente portatrice di dolore, ma anche quella reale e per questo fonte di gioia e vicinanza affettiva, passa per il contatto.

Death Stranding
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  • Luca “Hayabusa” Sapora

    Ossessivo compulsivo cronico, perennemente combattuto tra la voglia di approfondimento e lo sconfinato backlog, che sembra solo crescere.

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