Celebriamo i roguelike dicendo basta

Prima che inizino le pedanterie, è d’uopo fare una precisazione doverosa: in questa settimana dedicata ai roguelike utilizzeremo questa definizione come “termine ombrello” per racchiudere tutti i vari sottogeneri e le variazioni al riguardo. Data l’assenza di una definizione universalmente accettata e l’incredibile onnipresenza degli elementi roguelike in molti sottogeneri, ci limiteremo a definire come tali anche i roguelite, le avventure procedurali e tutto il resto del cucuzzaro di questo tipo.

Ne abbiamo fatta di strada da Rogue, il titolo considerato il padre fondatore (ma non primo in assoluto) di un genere che — secondo la definizione più comunemente accettata — è formato da movimenti a caselle su una griglia uniforme, azione a turni, generazione procedurale dei livelli e morte permanente del personaggio. Una definizione molto rigida, che con gli anni ha visto una evoluzione che ha portato alla formazione di diversi sottogeneri. Alcuni più comuni, come i roguelite che prendono alcune caratteristiche e le adattano su un gioco più immediato e ridotto nelle variabili, altri più specifici: i cosiddetti “Hacklikes” adottano il ferreo gameplay di NetHack, un titolo già incredibilmente colossale e complesso di suo. Oggi i roguelite sono quelli che vanno per la maggiore, anche se lo sviluppo di roguelike più classici — anche con la sola grafica ASCII — continua ad avere una certa nicchia di interesse.

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Vedere NetHack oggi fa sorridere, ma come profondità resta ancora con pochi eguali.

Perché? Cioè, intendiamoci, i motivi per cui nella generazione attuale i roguelike rappresentano un genere discretamente popolare non sono difficili da intuire: è facile sviluppare e pubblicare sui sistemi moderni, gli studi indipendenti dotati di buone idee e discrete risorse fioccano come funghi, la generazione procedurale va molto di moda e consente agli sviluppatori di tagliare tempi e costi, cose così. È naturale che un genere di questo tipo — il quale pone la completa enfasi sul gameplay affidandosi a stili grafici anche molto rudimentali — viene visto come attrattivo dagli addetti ai lavori. Tant’è che negli ultimi anni abbiamo giocato a molti ottimi esponenti del genere: sto parlando di titoli quali Nuclear Throne, The Binding of Isaac, Risk of Rain, Dead Cells, FTL: Faster Than Light e tanti altri. Essenziali nell’effettivo gameplay alla mano, ma che nascondono un macrogame massivo a base di upgrade da sbloccare, deviazioni da effettuare e segreti da scoprire. Sono titoli perfetti per le partite rapide collegate da un unico senso di progressione e di miglioramento nel corso delle run.

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Nuclear Throne, o come unire bullet hell e roguelike in un caotico dungeon.

Eppure, molti di essi sono anche titoli che mostrano tutti i limiti di alcune caratteristiche intrinseche nel genere: per esempio la generazione procedurale dei livelli. Ora, qui partirebbe tutto un discorso sulle varie tipologie di generazione procedurale e non, ma vorrei evitare di scadere nella logorrea: affidare il level design alla casualità — o presunta tale — significa che spesso i livelli stessi non sembrano ricevere la giusta cura, tant’è che dopo le prime partite si inizia rapidamente a distinguere un sistema fatto bene da uno approssimato. Dead Cells e Risk of Rain sfruttano un sistema di generazione a scompartimenti, limitandosi a variare le apparizioni dei nemici in dei livelli incastrati secondo set predefiniti. Il risultato è che, sebbene l’ordine e la struttura stessa del livello sia comunque differente ogni volta, la forma singola dei vari pezzi resta identica. Discorso opposto per Enter the Gungeon, il quale costruisce le stanze con un criterio casuale che non valorizza realmente le meccaniche di gioco.

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Le stanze di Enter the Gungeon sono spesso scatole rettangolari vuote.

Un’altra arma a doppio taglio è il macrogame presente pressoché in tutte le produzioni recenti. Le meccaniche tendono a essere leggermente differenti tra di loro, ma il succo è sempre lo stesso: la morte permanente è sempre presente e tra una partita e l’altra è possibile conservare alcuni determinati progressi. Da un lato è positivo, perché gli sblocchi consentono di variare le partite successive e di avere un senso di progressione capace di attirare l’attenzione per un considerevole ammontare di ore, ma l’accento che molti titoli assegnano a questa caratteristica — come ad esempio Teleglitch e The Binding of Isaac — rende necessario investire parecchio tempo nel titolo. Tempo che magari non abbiamo, o non vogliamo dedicarne così tanto, a maggior ragione se ci si avvicina al genere con l’idea di fare alcune partite “al volo”.

Insomma, diventa presto ripetitivo approcciarsi ogni volta a un roguelike partendo da zero e dover fare una scalata non indifferente per sbloccare gli oggetti più succosi o aprire nuovi livelli e diramazioni extra. Anche in questo caso, la curva di apprendimento è strettamente legata sia all’esperienza che il giocatore matura nel corso delle partite, sia all’equipaggiamento o ai personaggi a disposizione. In soldoni, per far sì che un roguelike possa esprimere tutto il suo potenziale è spesso necessario oltrepassare una dozzina di ore di “apprendistato” per poter accedere ai contenuti più interessanti. Posso passare con molto piacere cinquanta — meritate — ore a giocare a Spelunky, e il gioco diventa sempre più coinvolgente col passare delle run, ma dover ripetere la stessa solfa con ogni titolo tende a diventare sfiancante.

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Risk of Rain pone un interessante bilanciamento tra l’aumento della difficoltà nel tempo e la crescita del personaggio.

Ciononostante, i roguelike sono spesso una lettera d’amore alla creatività e al divertimento, ma soprattutto al modo con cui è possibile applicare diverse caratteristiche anche su generi non strettamente legati ai classici: Risk of Rain 2 e Remnant: From the Ashes portano alcuni concetti nel campo degli sparatutto in terza persona, Crypt of the Necrodancer li applica nel contesto di un rhythm game, Dungeon of the Endless li combina con la strategia e il tower defense, mentre Slay the Spire e Hand of Fate incrociano generazione procedurale, GDR e mazzi di carte. È solo il fatto di dover stare dietro a un mare di pubblicazioni che può risultare un po’ fastidioso. Basti guardare anche solo a Steam, che nell’etichetta “roguelike” mostra un migliaio di titoli per tutti i gusti e tutte le salse (chiaro che il tag è solo un modo approssimativo di contarli). Oltre ai già citati videogiochi, ulteriori esempi davvero degni di nota comprendono Dungeons of Dredmor, Hades, Griftlands, Don’t Starve, Noita, Rogue Legacy, Void Bastards e tanti altri. Insomma, un mercato che comincia a essere sovraffollato.

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