Perché videogioco

Questo articolo non contiene spoiler.

Cargo (nome completo Cargo! – The quest for gravity) è un videogioco di Ice-Pick Lodge del 2011. Ho già avuto modo di parlare in passato di questi sviluppatori russi in relazione a lavori ben più conosciuti, come Pathologic (in un’ideale trilogia di un racconto di un viaggio personale: qui la prima parte) e The Void (di cui Manuel Berto ha parlato sulle pagine di TheGamesMachine). Manuel ha detto la sua anche sul sequel/remake di Pathologic, in un’analisi del diverso ruolo dell’eroe. Nella ludografia certo non convenzionale di questo eclettico collettivo artistico, Cargo spicca sotto diversi punti di vista.

Il suo colpo d’occhio si impone come primo e più evidente tratto distintivo: la direzione artistica vira su colori accesi e su un contrastro cromatico accentuato, e il design di personaggi e luoghi si indebita con un’estetica deformed e fumettosa; siamo lontani dalle variazioni terrose del villaggio di Pathologic o dalle lugubri mostruosità steampunk di The Void.

Il secondo allontanamento dagli altri lavori dello studio moscovita, più rilevante ai fini della nostra discussione, consiste nella priorità accordata alla gratificazione diretta del giocatore: Cargo non è un’esperienza difficile, nè punitiva; non sottopone il giocatore a uno stress perdurante nè lo costringe a soppesature morali; il fiore delle emozioni si sfronda fino a ridursi a un unico petalo, il divertimento. Trattasi di una presa di posizione così netta rispetto allo spettro comunicativo palesato a più riprese nelle loro produzioni, che è difficile non riconoscervi una ulteriore intenzionalità. Ice-Pick Lodge sta informando l’utente consapevole (del loro passato) e pregno di aspettative (di un nuovo “classico gioco” di Ice-Pick Lodge) che stavolta lo chef ha fatto una sostanziale variazione al menù.

Da ultimo, se negli altri lavori di IPL era bandita qualsiasi incursione nel comico, Cargo, da parte sua, sembra rifuggire qualsiasi pretesa di serietà, dai pretesti narrativi fino alle modalità ludiche di avanzamento drammatico. La protagonista Flox giunge su un’isola con l’obiettivo di avere il favore delle divinità che, riottose o annoiate che fossero, hanno distrutto il mondo, sabotandone la gravità. Ora tutto si libra in cielo, senza peso; e dei piccoli ominidi stupidi e nudi (i buddies) hanno preso il posto dell’uomo. Scopo di Flox è estrarre “DIVERTIMENTO” (FUN nella traduzione inglese) da questi piccoli esseri (facendoli volare, sfrecciandoli veloci, prendendoli a calci), costruire veicoli improbabili e riportare sulla superficie terra ed edifici che ora fluttuano nell’aria.

Un mondo pastellato, affollato di personaggi strambi e caricaturali, con un background stupido e un registro comico mai così presente. Un fabliau videoludico, una pausa disimpegnata nel percorso artistico dei creativi russi. Siamo di fronte a una rosea parentesi? Leggiamo il “manifesto” dell’opera, redatto dagli autori stessi.

Its dreariness highlighted by seemingly colorful appearances, this dystopian study daringly presents us with a world based upon a metaphor taken literally. “Everything has lost weight, things have flown into space”; upon this foundation, the game builds a thought-provoking narrative, contemplating the importance of cultural heritage, history, and artifacts of everyday life. Thrown into a phantasmagoric world, Flox wants to restore it to normality by extracting FUN from all around her. But can FUN ground us in this world? Can it make the world meaningful again? These are the questions the player will have to ponder.

Oh, and also you can totally kick weird naked people.

A mio modo di vedere, queste parole, da un lato, denotano una sibillina ma chiara consapevolezza della diversità da parte di Ice-Pick Lodge – non solo lo studio russo ha costruito un videogioco che si propone di gratificare l’utente, ma il “FUN” è esattamente la valuta di gioco, ed è difficile non udire echi metanarrativi; dall’altro permettono di intravedere un’intenzione comunicativa che informa l’intero impianto ludico.

Scopo, allora, del presente scritto è rispondere alla chiamata all’interpretazione formulata da Ice-Pick Lodge, proponendo un accostamento azzardato ma, si spera, non meno fecondo di implicazioni e ulteriori rimandi. Del resto, citando Umberto Eco, “l’avventura di un uomo di fronte a un testo” è senza limiti, così meravigliati davanti alla “vitalità e al mistero della semiosi”.

Che cos’è un mito?

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Roland Barthes

Miti d’oggi (Mythologies) è una raccolta di brevi scritti pubblicata per la prima volta nel 1957 e redatta dal celebre critico e semiologo Roland Barthes. Dai marziani a Greta Garbo, dalla bistecca al Tour de France, dal cervello di Einstein alla nuova Citroen, la lente indagatrice di Barthes seziona, scruta, divelle le incrostazioni calcaree del linguaggio, che con il tempo hanno adulterato il senso di ciò che occupa il nostro ragionare quotidiano. Il filosofo francese opera un vero e proprio processo di ri-emersione del significato (possibile): ogni fatto del mondo è segno ed intorno a noi la “significazione” è in continuo divenire. Allora non è tanto importante capire “cosa un fatto dica“, quanto piuttosto essere consapevoli che in ogni caso “quel fatto dice qualcosa“.

Lungo il processo di semiosi (di significazione del reale), nasce il mito. Perché si possa compiutamente formulare un parallelo fra l’analisi “mitologica” barthesiana e il mondo privo di peso di Cargo, è necessario conficcare pochi ma indispensabili paletti al suolo, ancorare dei concetti cardine nella visione del “mito” secondo Barthes. Le citazioni che seguiranno sono tratte dall’edizione italiana Einaudi del 2016 de Miti d’oggi, in particolare dallo scritto “Il mito, oggi“.

Il mito è una parola…
…un sistema di comunicazione, un messaggio. Dal che si vede che il mito non può essere un oggetto, un concetto, o un’idea; bensì un modo di significare, una forma.

Il linguaggio mitico non ci dice nulla circa il proprio contenuto (si potrebbe dire che il mito non parla del “reale”), in quanto il mito è creazione irrimediabilmente umana e, pertanto, storicamente collocata. Invece, il mito ci informa del modo in cui l’uomo “ha detto” del reale: il messaggio, frutto di una “selezione” (di una intenzione, dunque di una “volontà”), è tanto meno indicativo della “natura” del proprio oggetto quanto, invece, rivelatore dei modi di intendere dell’uomo.

Il mito è, prima di tutto, un sistema semiologico. Se il binomio fondante della semiologia è significante <—> significato, rapporto la cui dialettica conduce all’emersione di un terzo polo, il segno; il mito, invece, si genera mediante la reiterazione di questa struttura tripartita.

Nessuna paura se vi siete persi: ho anticipato la conclusione a cui ora arriveremo per gradi. Ma prima qualche esempio, ripreso da Barthes.

Un mazzo di rose: facciamo che significhino passione. Il significante sono le rose, il significato è la passione. Giusto?

Non proprio, perché sebbene sia facilmente indistinguibile per il nostro modo quotidiano di intendere, in realtà il rapporto, su un versante di analisi, è fra tre termini. Le rose (significante) e la passione (significato) preesistono: è il loro incontro che genera un terzo, il segno, il “totale associativo” fra i due poli. Le rose saranno “passionali” solo dopo la generazione di un segno.

Ancora: un sasso nero. Un semplice significante, a cui si può dare qualsiasi significato. Ma è solo la scelta definitiva (ossia la definitiva congiunzione) intorno a un significato – immaginiamo, una condanna a morte in seguito a votazione segreta – che decreta la formazione di un segno.

In questo andirivieni fra significante e significato che genera il segno, il mito si inserisce come catena di rimandi suppletiva, sfasata rispetto alla prima: non a caso, il sistema di riferimento del mito è chiamato da Barthes, metalinguaggio. Si guardi la rappresentazione schematica utilizzata in Miti d’oggi.

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Barthes rinominerà il “significante del mito” FORMA e il “significato del mito” CONCETTO.

Il mito si forma mediante duplicazione di segno: il segno della “Lingua” acquista la doppia valenza, di totale associativo del primo rapporto e di significante nel rapporto secondo, quello del “mito”. Ancora una volta, un esempio preso dall’opera di Barthes.

Copertina di una rivista. Un’immagine di un uomo di colore in uniforme francese che fa il saluto militare, guardando in alto, verso una porzione di bandiera tricolore. Questo è il senso dell’immagine.

Tuttavia, senza peccare di ingenuità, non è difficile intuire cosa l’immagine voglia significare a un secondo livello: la Francia è un grande e accogliente Impero, e tutti i suoi figli, qualsiasi sia il colore della loro pelle, servono fedelmente la bandiera, e per i detrattori del colonialismo non c’è risposta migliore dello zelo di questo soldato naturalizzato.

Il senso del primo rapporto (soldato nero fa un saluto militare alla bandiera francese) si incontra con un nuovo significato (un misto fra la francità e la militarità): il terzo elemento, il mito, è la presenza del significato attraverso il significante.

Il mito, quindi, è una maggiorazione della struttura linguistica sottesa, una superfetazione del senso: il linguaggio mitico rappresenta, lungo il percorso di significazione della realtà, un passo ulteriore verso l’imbastardimento della stessa.

L’evaporazione del senso

Il mondo di Cargo è ormai un enorme globo azzurro, sul quale atolli di terra e strutture scalcinate sono sospese a decine di metri dal suolo. Tra abitazioni, lampioni, grattacieli e veicoli natanti, Ice-Pick Lodge inserisce anche fisionomie ben conosciute, catalogate nell’immaginario collettivo come icone: la Statua della Libertà e l’Empire State Building.

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Opere sorte dalla creatività e dall’ideologia che, al pari di oggetti men noti ma funzionali per l’uomo alla soggiogazione utilitaristica del mondo, hanno perso la loro rilevanza, leggeri, ormai indistinguibili gli uni dagli altri: perso il loro senso originario, ora ne acquisiscono uno solo come oggetti vestigiali, un significato scolorito che si riverbera furtivo nei recessi della mente, mentre il loro carattere materiale, quello realmente attenzionato, funge da contrappeso alla ricostruzione del mondo (bisogna ridare peso al mondo).

Diventando forma, il senso allontana la sua contingenza; si svuota, s’impoverisce, la storia evapora, resta la lettera.

La forma non sopprime il senso, semplicemente lo impoverisce, lo allontana, lo tiene a disposizione.

Questo continuo gioco a rimpiattino tra il senso e la forma definisce, appunto, il mito.

Lo scenario di Cargo delinea una narrazione post-apocalittica; e ogni apocalissi (sociale, politica, biologica, esistenziale) è sempre, prima di tutto, una palingenesi di senso – si rinvia, sullo spazio post-apocalittico videoludico, all’ottimo articolo di Stefano Caselli. Sotto questo punto di vista, ogni trattazione di un’apocalissi descrive in primo luogo una fase al contempo post-mitica e pre-mitica, dunque una situazione di passaggio, una rivoluzione.

Si può parlare di post-mitico in quanto la storia, intesa come stratificazione cronologica di sensi, viene messa fra parentesi (diventa forma, direbbe Barthes): i concetti svaniscono. Alcune delle immagini ricorrenti dei mondi post-apocalittici consistono nel “riuso” di ambienti e oggetti del quotidiano in una funzione rinnovata. Si pensi ad ambienti mondani (teatri, palestre, miniere, per dirne alcuni) riutilizzati come accampamenti o fortezze. Oppure si visualizzi l’immagine di una bandiera americana utilizzata come tovaglia di una tavola imbandita in un contesto bellico o post-bellico.

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Il Dreg Heap di Dark Souls 3 è un esempio quasi didascalico dell’accumulo di segni de-storicizzati in uno scenario post-apocalittico.

Ma un’apocalissi è anche l’antecedente logico-temporale per la proliferazione di una nuova mitologia: in questo si viene a configurare la sua natura pre-mitica. Nuovi concetti prendono possesso di immagini quasi del tutto snellite dalla loro derivazione storica, in un “sincronico” che funge da tabula rasa per l’erezione di nuovi edifici di senso. Del resto, questa dialettica di spossessamento di un passato originario e di riattualizzazione in un presente “sfigurato”, suscettibile di apparire sotto una luce sempre diversa, è tipica di uno dei modi con cui si aggettiva il postmoderno.

Tutto è sincronico, la riduzione del reale al vissuto superficiale significa una “perdita del passato radicale”, cioè del senso della storia. L’estetica postmoderna ha con il passato un rapporto che tende a far dimenticare o a far saltare i nessi temporali: ci si muove nella storia in maniera puramente “estetica”.

– da Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, di Fredric Jameson.

Pur ammantata da un clima giulivo e dissacrante (aspetti su cui torneremo alla fine), la vicenda messa in scena in Cargo affonda le radici nella crisi del contemporaneo, laddove la realtà diventa sempre più recessiva rispetto al linguaggio “che la dice”, le parole sempre più immateriali, e l’intenzione prevale sulla strumentalità. Si possono immaginare quegli edifici e quegli oggetti privi di peso in chiave metaforica, come la deriva ultima di una società in cui la mitizzazione ha totalmente soppiantato il fondamento materiale della parola, o del messaggio (visivo, acustico, letterale, gestuale). Un mondo in cui i concetti hanno così deformato, o alienato, le forme, da aver portato ad un indistinguibile foresta di segni: ingrossati, rimestati, scambiati, accavallati, smaterializzati, avvicendati. In questa realtà in cui nulla ha più valore, giacché ogni cosa può assumere qualsiasi valore, anche edifici gravati di una specifica storia, come la Statua della Libertà, sono leggeri come l’aria: il suo peso morale è nullo.

Il mito è un valore, non ha per sanzione la verità: niente gli impedisce di essere un alibi perpetuo.

La perdita di peso degli enti travalica il suo significato immediatamente disponibile e può essere letta come una crisi d’identità, di fronte alla quale lo spaesamento dell’umanità (o di ciò che ne rimane) è la conseguenza principale. Flox, entrando in contatto con le divinità che hanno decretato lo stato di fatto attuale – divinità che in realtà covano punti di vista e prospettive di risoluzione difformi le une dalle altre – conviene che occorre invertire la rotta, ridare “sostanza” alla realtà.

Ingenuità guardata

La soluzione suggerita dalle divinità di Cargo è in apparenza tanto semplice quanto assurda: i buddies vanno divertiti, in questo modo le cose torneranno ad avere un loro peso. Sono essere curiosi questi nanetti nudi: sono una nuova creazione degli dei, pensati per sostituire gli uomini, di cui condividono la matrice, ma non hanno all’apparenza uno scopo, all’infuori del capriccio di esseri superiori. Nascono dalla terra, sono irrimediabilmente stupidi e autolesionisti, amano ballare, cantare e andare veloce: viene da pensare che gli dei abbiano distillato quelle caratteristiche che, ai loro occhi, hanno maggiormente segnato l’esperienza umana. Poco importa per Flox: il suo obiettivo è palese, deve estrarre da loro il DIVERTIMENTO.

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Ai fini di questa trattazione, ignorerò la pur preziosa argomentazione del divertimento quale elemento metatestuale e per così dire interno al circuito comunicativo di Ice-Pick Lodge, e del medium videoludico in genere: come accennavo a inizio articolo, si può scorgere un’intenzione provocatoria nel modo smaccato in cui lo sviluppatore russo invita a disinteressarsi a qualsiasi coinvolgimento intellettivo, e a cimentarsi in un “intrattenimento spicciolo”.

Piuttosto, vorrei focalizzarmi sulle implicazioni nascenti dal continuare lungo la strada tracciata dall’opera fondamentale di Roland Barthes. Cosa significa, nell’ottica di una realtà che si è “cristallizzata”, il rimedio del divertimento?

Siamo di fronte al principio stesso del mito: il mito trasforma la storia in natura.

La causa che fa proferire la parola mitica è perfettamente esplicita, ma è immediatamente bloccata in una natura; non viene letta come movente, ma come ragione.

Di fronte a un senso “naturalizzato” e avvertito come dato, di fronte a un reale sfrondato da riferimenti valoriali, culturali, storici, di fronte a un linguaggio che è ormai alla mercé dei “gestori del discorso pubblico”, una soluzione può essere metterne in luce l’artificialità. Se la comunicazione diventa mito, e il linguaggio è asservito alla contigenza (inevitabilmente “politica”), allora la demolizione non può che passare dalla ostensione del mito stesso: un mito estrapolato, isolato ed “inflazionato”. Un mito deriso dal mito.

L’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme; o si è Rabelais o si è Cartesio; o si è, come Franti ha tentato, uno scolaro che ride in scuola, o un analfabeta di avanguardia.

Elogio di Franti, Diario Minimo, di Umberto Eco.

La messa in parentesi del mito lo trasforma immediatamente in una “ingenuità guardata“, come definito da Barthes. Il mito è ingenuo in quanto palesa, non senza ilarità, la sua eziologia “umana”; il mito è guardato in quanto il “mitologo” ha la capacità di allontanarsi e osservare il costrutto mitico da una prospettiva esterna, non rimanendone coinvolto. In questo modo, il mito mostra la sua veste caricaturale, di cui, alla fine, non può che ridersene.

Comprensibile è, dunque, che sia proprio nell’ironico che si trovi la risposta per ridare peso agli enti del mondo di Cargo. Se è vero che “la funzione del mito è di svuotare il reale”, allora un riavvicinamento dell’uomo al reale non può che realizzarsi mediante la frantumazione dei significati che, come strati geologici, si sono sovrapposti sul messaggio. Non è contraddittorio che l’alleggerimento del sovrimpresso comporti, in Cargo, che le cose si appesantiscano; se edifici e strutture umane volano è perché la loro consistenza essenziale è divenuta recessiva rispetto alla iperproliferazione di senso di cui si sono caricate: la loro sostanza è quella dell’aria, al cui livello ormai stazionano. L’atteggiamento di derisione di Flox e dei buddies riporta le cose al suolo, perché le riporta alla loro matrice terrosa, quando i segni sono più direttamente collegati alla realtà che li ha generati.

Cosa c’è di più imbarazzante per il Sacro del riso dello stolto?

Perché videogioco

Giunti alla fine di questo percorso di analisi, è il caso di prendere di petto le domande poste da Ice-Pick Lodge nella sua presentazione a Cargo. Può il divertimento ancorarci al suolo? Può ridare significato a questo mondo?

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Il videogioco, pur nella sua breve vita, ha già raggiunto una maturità tale da farsi soggetto di argomentazioni gravide, latore di esperienze polisemiche, auriga di istanze sociali. Come ogni forma rappresentativa, è stato da subito “assalita” da coloro che l’hanno intravista come valido strumento di propagandazione culturale, che ne hanno carpito le potenzialità di diffusione e di presa su un pubblico più eclettico di quello raggiungibile con forme più “istituzionali”. Negli anni ’30, la dirompenza del giovane cinema e il talento di Leni Riefenstahl erano intuiti da Adolf Hitler: da quell’interessamento ha preso vita Triumph des Willens (Il Trionfo della Volontà), una roboante apologia del nazismo e del regime hitleriano – cosa che non gli ha impedito di essere anche uno dei primi capolavori trasversalmente riconsciuti nella storia della cosiddetta settima arte.

Oggi il videogioco ha la capacità, come e talvolta più di altre esperienze mediali, di farsi megafono di desideri, prospettazioni e denunce. Al punto che è ben più che occasionale il fatto che si pretenda che il videogioco sia un oggetto politico – potremmo domandarci, c’è un ente culturale che non sia al suo fondo sempre e comunque politico? Una risposta impiegherebbe lo spazio di questo intero scritto. Ciò che quì mi preme, invece, sottolineare è che ormai il videogioco pretende di essere una cosa seria.

E sebbene tale pretesa vada opportunamente intesa come il raggiungimento di un’autoconsapevolezza del medium tutto (ovvero di chi crea e di chi usufruisce), è parere di chi scrive che tale opportunità creativa porti con sè anche il seme, sempre pronto a germogliare, di un irrigidimento: da parte di chi produce, da parte di chi consuma, da parte di chi giudica.

Lungi da me far credere che io demonizzi chi tratta il videogioco con la stessa dignità con cui siamo ormai abituati a trattare media di conclamata considerazione “artistica” – del resto, qualora non bastasse il mio modesto pregresso di pubblicazioni, questo stesso articolo testimonierebbe circa la mia buona fede. Ciò che voglio dire è che talvolta si perde di vista un punto: anche il videogioco, come ogni altra forma espressiva, rimane prima di tutto un modo con cui qualcuno ha voluto inserire il proprio, unico, storicamente collocato, tassello nel grande mosaico incompiuto (e che mai si compirà) dell’esistenza.

Il mito non nega le cose, anzi, la sua funzione è di parlarne; semplicemente le purifica, le fa innocenti, le istituisce come natura e come eternità, dà loro una chiarezza che non è quella della spiegazione, ma quella della constatazione. (…) Passando dalla storia alla natura, il mito fa un’economia: abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze, sopprime ogni dialettica, ogni spinta a risalire, al di là del visibile immediato, organizza un mondo senza contraddizioni perché senza profondità, un mondo dispiegato nell’evidenza, istituisce una chiarezza felice: le cose sembrano significare da sole.

Allora, a fronte di chi pretende di vedere sempre chiaro, di coloro che assertivamente usano la morale, di coloro che usano le lettere maiuscole per i nomi comuni di cosa, di coloro che possiedono una Verità e selezionano i segni che la confermano (all’opposto di chi rintraccia dei segni e ne inferisce una verità che è sempre pronta a cedere il posto), c’è chi è abbastanza consapevole della serietà del videgioco da prenderlo poco sul serio.

Ecco perché videogioco: più di altri media, il videogame, mediante l’interazione costituzionalizza il decentramento prospettico come propria prassi linguistica (Luigi Marrone parlava di “dimora dimensionale della coscienza“). In tal modo, con il videogame possiamo fare esperienza dell’alterità in tutta la sua irriducibile inconciliabilità: un esercizio di pragmatismo e un’epifania, che in qualche modo ci allena e ci stimola ad un approccio al tempo comparativo, al tempo ludico.

Il videogame, con le sue sfide e i suoi ostacoli (con il suo apparato, appunto, ludico), diegetizza le differenze, spesso rappresentate in una dialettica di opposti contrapposti; e con atteggiamento coinvolto ma rasserenato ci prestiamo, assecondiamo quel mondo, che è solo uno dei tanti possibili.

E se il divertimento, in fondo, non può davvero ridare un senso alle cose, ritengo che, quantomeno, possa aiutarci a ricollocare gli accadimenti del mondo in una cornice più autentica, magari meno glamour e rassicurante, ma certamente più onesta perché più ancorata alla realtà.

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