Questo articolo contiene spoiler su Anodyne e The Legend of Zelda: Link’s Awakening.
Anodyne è il primo gioco del piccolo team Analgesic Productions, nonché la prima loro opera che ho sperimentato: da lì ho recuperato via via tutti e quattro i titoli che hanno pubblicato finora, talmente ho preso in simpatia il loro modo di fare videogiochi e il notevole potenziale di questa giovane squadra di due persone. Melos Han-Tani e Marina Kittaka si dividono i compiti creando indipendentemente tutto quel che offrono le loro opere, colonna sonora compresa. In questo e in prossimi articoli vi racconterò di loro, lasciando che a parlare siano le loro creazioni, assolutamente cariche di personalità e in cui risulta evidente quanto di loro stessi vi abbiano riversato. Purtroppo e per fortuna, sono giochi visceralmente legati alle loro ispirazioni e messaggi in ogni componente: non troverete quindi una comoda divisione tra analisi spoiler e non spoiler. L’invito è di proseguire con la lettura solo se non vi verrebbe mai in mente di provare i loro titoli altrimenti, o se siete tra chi condivide l’idea che il viaggio è più importante della meta.

Partiamo quindi appunto con Anodyne, presentato come un “gioco in stile Zelda dall’atmosfera surreale, onirica e grottesca”. In effetti fin dai primi passi si nota l’ispirazione verso la celebre saga action-adventure, nello specifico per i suoi primi capitoli, sia nella struttura di gioco che in quella narrativa. Nei panni del protagonista Young ci si inoltra in aree semi aperte e dungeon con l’iconica mappa a caselle-stanze, sconfiggendo nemici e risolvendo semplici puzzle per aprire la porta successiva. Tutto questo seguendo il canovaccio del più classico dei fantasy col saggio di turno che ci invita alla ricerca di potenti oggetti chiave per salvare “The Land” dalla minaccia de “The Darkness”. La caratterizzazione del mondo, la sua storia e i suoi personaggi appaiono inizialmente così generici, abbozzati e con un certo grado di auto-ironia che il tutto pare voler essere una sorta di parodia di genere anziché il solito viaggio dell’eroe – basti pensare alla spada sostituita da una scopa come arma. La prima parte di gioco scorre in modo piacevole ma innocuo, tra battutine, prese in giro dei cliché, un gameplay classico senza infamia e senza lode, una direzione artistica nostalgica.
Iniziano però da subito ad apparire elementi di disturbo, come dialoghi del tutto deliranti o tizi comuni copia-incollati e senza possibilità di interazione nel bel mezzo di un dungeon che ci si aspetta popolato solo da mostri vari. Stramberie che non trovano precisa collocazione né nella citata chiave parodistica né nei sistemi ludici, dando al gioco un tocco spiazzante e psichedelico che incuriosisce e rende ancora più evidente il legame con un titolo specifico: Link’s Awakening, che a differenza di altri Legend of Zelda di quei tempi offriva la stessa follia senza freni nel riscrivere le regole della saga e il suo linguaggio, anche inserendo senza dare spiegazioni icone e meccaniche di altri giochi Nintendo. Come poi ci svela The Sage, nostro mentore, l’avventura di Young non passa solo dalla ricerca di chiavi e superamento di enigmi: la cosa più importante è che collezioni delle carte, ognuna rappresentante una sua crescita interiore. Affrontare i dungeon di The Land e relativi boss significa esplorare le sue più grandi paure. Da questo e vari indizi si intuisce che ciò che stiamo vivendo non è che uno sguardo sulla fantasia del protagonista, proprio come la Koholint vissuta da Link non è altro che un sogno altrui. Se però l’isola zeldiana rispecchia il mondo da fiaba che Anodyne ripropone inizialmente, la creazione onirica di Young cede il passo ai tratti più oscuri della sua psiche man mano che andiamo in profondità. Gli scenari si fanno sempre più alieni e inquietanti, le interazioni inaspettatamente macabre, le musiche d’accompagnamento angoscianti. Il nostro avatar porta con sé un bagaglio di paure, incomprensioni e ferite che distorcono i suoi sogni e, presumibilmente, affliggono la sua vita reale.


Un passaggio particolarmente esplicito avviene affrontando il boss The Wall: ci accoglie con “ah eccoti finalmente, stai ancora giocando con quei Nintendo?” e dopo averlo sconfitto continua con “Gesù, quand’è che ti deciderai a crescere? Dovrai imparare ad affrontare le persone prima o poi”. La fantasia di Young sembra quindi generare dalla sua tendenza all’escapismo tramite i videogiochi, creata a immagine e somiglianza di quello che per lui è un luogo sicuro. Il dialogo però instilla anche un dubbio, cioè la legittimità di cosa sta avvenendo nella mente di Young: sta davvero compiendo un processo di crescita? O questa è solo l’ennesima avventura irreale in cui rifugiarsi? Tornando al titolo del gioco, e al nome dello studio stesso, questa missione potrebbe essere solo un analgesico, un palliativo per lenire le sofferenze che non rappresenta una cura di per sé, ma piuttosto un nascondere la polvere sotto al tappeto. La scelta della scopa come arma e la sua capacità di manipolare i vari accumuli di polvere che infestano The Land, che sembrava solo uno dei vari scherzi del gioco, può ora essere vista proprio come la decisione di Young di tentare di superare problemi per troppo tempo ignorati.
Il dialogo con The Wall ci spinge a chiederci se Young sta davvero compiendo un processo di crescita, o se il gioco è una metafora del suo fuggire dal reale
Chiaramente tutto questo è una libera interpretazione applicabile al gioco, che offre sì vari spunti a supporto della tesi ma che trova forza nel non sbilanciarsi mai troppo, nel lavorare prima di tutto di suggestioni e non detto lasciando l’utente libero di farsi trasportare, identificarsi, decifrare come meglio crede e senza risposte univoche. Nella discesa nell’oscurità della mente di Young il gioco offre tra le sue sezioni più intriganti, trasformandosi in un incubo costantemente sul filo tra il comprensibile e il non. Ad esempio, questo scenario pare del tutto tranquillo e familiare a un videogiocatore, quasi come fosse uscito da una sessione dei cari vecchi Pokémon per Game Boy.


Viene naturale avvicinarsi al pescatore e provare a parlargli, magari per avere spiegazioni sul mulinello d’acqua di fronte. Tuttavia, interagendo con l’estraneo non c’è un dialogo: Young usa la scopa, come per i nemici, facendolo precipitare in acqua. Il mulinello si tinge di rosso sangue, e solo ora possiamo attraversarlo per accedere a uno dei livelli più disturbanti del gioco, un orrore biologico che sembra incarnare il dolore dell’essere al mondo e dover convivere con ciò che lo popola, tra il timore dell’inadeguatezza e del rifiuto altrui. È apprezzabile come Anodyne tenti di adattare, oltre all’aspetto artistico, anche il design dei dungeon, delle loro meccaniche caratteristiche e dei boss alla parte di inconscio di Young che vanno a simboleggiare, seppur in modo basilare.


Uno degli scenari più potenti del titolo è Young Town, una grigia cittadina popolata da persone comuni. Anche stavolta, Young non è in grado di interagirvi se non attaccandole, ma la scopa s’è trasformata senza spiegazione in un letale coltello. Solo una volta uccisi gli NPC inizieranno a parlare con noi, conversando di frivolezze come nulla fosse accaduto. Un livello particolare e che suscita emozioni forti e diversificate: possiamo intenderlo ad esempio come simbolo dell’esasperazione del protagonista nel non riuscire a comunicare intimamente e creare legami con le persone, al punto da arrivare a uccidere pur di essere riconosciuto, futile gesto estremo che viene ancora una volta ignorato con indifferenza. Oppure possiamo leggerci una critica ai videogiochi, colpevoli troppo spesso di non affrontare questioni di rilievo, riducendosi alla solita ricerca di gratificazione senza peso e restando ancorati all’uccisione come meccanica di interazione principale. È interessante questa capacità di Anodyne di saper essere al tempo stesso un videogioco (l’elemento ludico non viene mai a mancare, anzi proseguendo l’esplorazione e i puzzle si fanno sempre più soddisfacenti), una storia sul rapporto coi videogiochi del protagonista, e stimolare riflessioni sui videogiochi in generale. Il già citato dialogo con The Wall, ad esempio, si rivolge palesemente a Young, ma può anche colpire allo stesso modo il giocatore portato a chiedersi se sta sfruttando il videogioco per vivere al di là del mondo reale, per lasciare fuori dalla porta problemi e difficoltà di tutti i giorni. Un’intrusione esterna su più livelli.


Quando Young si avvicina alla conclusione del gioco lo stesso Sage ci sbarra la strada, mostrando ancora più consapevolezza del suo ruolo e della natura metaforica di The Land. L’NPC getta definitivamente la maschera, rivelandosi essere quella che è la parte più auto conservatrice di Young (che a sua volta è probabilmente l’incarnazione solo di un aspetto del vero protagonista, quella che vuole reagire), che in fondo non ha mai creduto veramente in lui e teme il fallimento e ulteriore sofferenza. Meglio non andare oltre. Sconfitto anche questo aspetto di sé, l’avatar può ora raggiungere The Briar, inizialmente presentata questi come la classica principessa da salvare ma che pare piuttosto un’ulteriore faccia del personaggio principale, quella più incline ad assecondarne l’oscurità, i pensieri negativi, i comportamenti tossici. Anodyne ha l’acume di non chiederci di eliminarla, la soluzione è scenderci a patti, accettarla come parte di noi, e affrontare la vita assieme. Concluso il confronto, Young e Briar si avviano verso l’oceano aperto, ma Young come per il resto del gioco affonda nell’acqua: è Briar che gli insegna a nuotare e gli dà il supporto che gli serve per andare avanti, per restare a galla nel mondo.


Il messaggio finale è quindi positivo: l’escapismo, l’analgesico, ha fatto il suo corso, ma anziché chiudersi inerte nel suo effetto anestetizzante Young è davvero riuscito a renderlo uno strumento di auto-riflessione e migliorare il rapporto con se stesso e con l’esterno. Non siamo di fronte a un elisir miracoloso: il traguardo è stato raggiunto con fatica e consapevolezza, e ci viene suggerito che non è affatto scontato sia permanente. Un Briar disilluso ci informa che il ciclo si è già ripetuto più e più volte. Ma questa è la vita, fatta di alti e bassi, di ricadute, di momenti da cui sembra impossibile rialzarsi. Forse a volte tutto ciò che ci serve per avere la spinta a rimetterci in sella, anche solo per un po’, è giocare uno Zelda-like dall’atmosfera surreale, onirica e grottesca.
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