Gli adattamenti sono il risultato di processi castranti, spesso incapaci di esprimersi attraverso linguaggi alternativi a quelli di origine. Se è vero che il mezzo stesso è il messaggio, dobbiamo accettare l’idea che una riproposizione in scala 1:1 non solo è impossibile, ma nemmeno auspicabile. Questo ce lo ha ampiamente dimostrato l’industria cinematografica, con la sua sequela di pellicole basate su romanzi, fumetti e videogiochi.
Dai videogiochi al cinema
Volgendo uno sguardo al passato, il numero di film in grado di ergersi al di sopra del mediocre è molto basso, complice una produzione totalmente asincrona con il linguaggio espressivo dell’opera di partenza, spalleggiata da una ricerca frivola e superficiale incapace di proporre un immaginario colmo di significato. Questa operazione conduce al paradosso per cui lo spettatore-giocatore – pur avendo davanti un immaginario riconoscibile – si ritrova davanti ad opere che non sono in grado di riproporsi con la stessa potenza dell’originale. Si tratta di simulacri vuoti linguisticamente incompatibili, come la serie cinematografica di Resident Evil.

La saga firmata da Paul W. S. Anderson fatica a portare su schermo quegli elementi che hanno reso celebre la serie Capcom, proprio perché questi ultimi sono il frutto di un linguaggio puramente videoludico. Fattori come il level design sono inconciliabili con il linguaggio cinematografico, la cui essenza risiede nel montaggio audio visivo. Il montaggio detta i tempi dell’opera, assoggettato a sua volta da una regia suprema che detta la grammatica della pellicola. Come scrive Enzo D’Armenio in Mondi Paralleli (edizioni Unicopli) citando Bruno Fraschini:
«Mentre nel cinema il montaggio stabilisce una volta per tutte la durata di sequenza, in Resident Evil 2 il giocatore controlla indirettamente il ritmo del montaggio e la durata di ogni singola inquadratura.»
In un videogioco horror, la paura è dettata da fattori interni: non solo siamo l’obiettivo di una presenza malefica – che può colpirci da un momento all’altro – ma diretti responsabili della sopravvivenza della nostra protesi digitale.
Il cinema horror viaggia su binari opposti, instillando paura nello spettatore tramite fattori esterni: il protagonista è minacciato da una presenza malefica – che può colpirlo da un momento all’altro a prescindere dalla nostra volontà – costringendoci a vedere ciò che non vorremmo vedere.
The Boys, Silent Hill e Super Mario
La serie televisiva The Boys – scritta da Eric Kripke per conto di Amazon – ha riscosso un enorme successo di pubblico e di critica per l’accortezza con cui l’autore è riuscito ad estrarre dal fumetto di Garth Ennis tematiche ed archetipi, discostandosi dai toni estremi e forse un po’ kitsch dello scrittore irlandese che ha a sua volta promosso la serie. Kripke individua le tematiche portanti di The Boys, adattandole al mondo contemporaneo dominato dalle corporation e dall’apparato bellico, sintomi di un capitalismo selvaggio. La natura seriale dell’opera di Ennis si presta bene ad una struttura televisiva, motivo per cui un adattamento cinematografico non avrebbe funzionato; questo ci porta a considerare un elemento molto discusso, ovvero la fedeltà all’opera.

Quanto è importante essere fedeli all’opera originale? È veramente necessario?
Silent Hill (Christophe Gans, 2006), pur rimanendo fedele alle atmosfere tipiche della saga horror nipponica, cede a più riprese sulla scrittura e la caratterizzazione psicologica dei personaggi, aspetti imprescindibili per la riuscita di un buon adattamento del materiale originale. Affidare la regia ad autori come Kiyoshi Kurosawa – giusto per citarne uno – avrebbe certamente portato a ben altri risultati, eppure Gans, con tutta la buona volontà del mondo, non raggiunge quel sottile equilibrio tra atmosfera e sostanza; come accennato nel capitolo sopra, l’immaginario onirico e surreale di Silent Hill si trasforma in una copia sbiadita dell’originale, riempito di figure più simili a giocattoli che a figure con ruoli significativi.

Permettetemi di concludere con una confessione: Super Mario Bros. (Rocky Morton e Annabel Jankel, 1993) e Ready Player One (Steven Spielberg, 2018) sono tra i miei non-adattamenti videoludici preferiti.
Super Mario Bros risponde alla domanda “è importante rimanere fedeli” con un netto “no”. E funziona, nonostante tutto
Il film sui fratelli Bros è dotato di una personalità tale da infischiarsene del gioco Nintendo, consapevole che un adattamento live action sarebbe risultato del tutto fuori luogo se non irrealizzabile. I mondi fantastici diventano città cyberpunk governate da fascio-dinosauri provenienti da una realtà parallela. Super Mario Bros. è un film brutto, ma un so bad it’s so good capace di rispondere alla domanda: è importante rimanere fedeli? No, si può adattare l’inadattabile stravolgendo completamente le strutture narrative, trasformando una coppia di fratelli idraulici in avventurieri cyberpunk trans-dimensionali. E funziona, nonostante sia un film mediocre. Funziona perché non è interessato a soddisfare le richieste dei fan, inserendo i personaggi del gioco in un contesto visivo e narrativo del tutto estraneo al mondo di Super Mario.

Ready Player One, dal canto suo, ha il pregio di raccontare un intero immaginario utilizzando la struttura di un videogioco e il linguaggio del cinema. Il film di Spielberg non è un film di videogiochi, ma sui videogiochi: questi ultimi diventano luoghi virtuali di aggregazione sociale nei quali stringere amicizie e far nascere affetti, antitesi di un mondo reale grigio e oppressivo che non ha nulla da offrire ai giovani che lo popolano. Qui il videogioco si fa evasione, ma anche espressione di talenti e desideri di milioni di giocatori.

L’opera di Spielberg – che è a sua volta tratta da un libro – offre una rappresentazione sopraffina della game culture, ricordandoci che i server sono abitati da individui con sogni e paure anche desiderosi di rendere il mondo un posto migliore, rendendolo di fatto un film con un chiaro messaggio politico.
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