Come potete intuire dagli ultimi due articoli che ho scritto, in questo ultimo periodo mi sono letteralmente immerso nell’universo creato dai Flying Wild Hog con Shadow Warrior (2013) e relativo seguito. Tranquilli, non voglio ripetervi per la terza volta quanto sia riuscito il sistema di combattimento in prima persona di Shadow Warrior, in grado di mescolare l’uso di armi bianche e armi da fuoco in maniera perfettamente fluida ed equamente efficace. Vorrei invece far notare quanti pochi titoli riescano effettivamente a proporre un combattimento con armi bianche in prima persona che non si limiti ad una semplice pugnalata tirata ogni tanto in mezzo a centinaia di proiettili e missili.
Dopo aver letto questo inizio, credo di poter indovinare il vostro primo dubbio: ma un FPS non è un gioco in cui si spara? Chiaramente sì. Non è mia intenzione escludere le armi da fuoco, siano esse ispirate ad armi relamente esistenti, gingilli futuristici o manufatti di stampo fantasy in grado di scagliare dardi magici. Io pretendo che ci siano, come pretendo la presenza di armi da combattimento ravvinicinato o addirittura di un sistema di combattimento corpo a corpo abbastanza sviluppato da risultare una valida alternativa al combattimento a distanza.

Il primo gioco che mi viene in mente a rispettare tali parametri, risultando allo stesso tempo un FPS di notevole qualità, risale al lontano 2004. The Chronicles of Riddick: Escape from Butcher Bay è un FPS sviluppato da StarBreeze e basato sul personaggio di Richard B. Riddick, reso celebre dai film a lui dedicati e interpretato da un tostissimo Vin Diesel nel pieno della sua carriera cinematografica. Nonostante la natura di tie-in, Escape from Butcher Bay si rivelò la proverbiale eccezione alla regola. Al solido gunplay si affianca un sistema di combattimento corpo a corpo completo di combo, schivate, parate e contrattacchi con cui spaccare il muso e le ossa ai numerosi nemici, umani e non. Nonostante in linea generale il gioco divida nettamente le occasioni in cui sfruttare armi da fuoco e tecniche corpo a corpo, non mancano situazioni in cui potremo decidere di mescolare entrambi gli approcci come più ci aggrada, grazie anche a una modalità stealth con cui sorprendere i nemici alle spalle per ucciderli silenziosamente.
L’essersi rivelato una piccola gemma capace di dire la sua in un genere molto inflazionato bastò appena per un unico seguito nel 2009. Assault on Dark Athena lasciava pressoché invariato il gameplay alla base del primo capitolo, limitandosi a offire un more of the same con in aggiunta la versione rimasterizzata di Escape from Butcher Bay. Niente da dichiarare per quanto riguarda il combattimento ravvicinato: Starbreeze si limitò a riproporre lo stesso gameplay del primo Riddick, niente di meno e niente di più. Per fortuna, The Chronicles of Riddick non fu l’unico gioco in grado di coniugare combattimento ravvicinato e a distanza: nel 2006 un’ancora poco conosciuta Arkane Studios (sì, proprio quelli di Dishonored) sviluppano per Ubisoft uno degli FPS più amati, più rigiocati e (mai abbastanza) apprezzati: Dark Messiah of Might and Magic.

All’apparenza un GDR in prima persona ambientato nel noto universo fantasy di Might and Magic, Dark Messiah è un vero e proprio FPS quando si gioca nei panni del mago: pistole e fucili vengono sostituiti da palle di fuoco, raggi congelanti e dardi magici che condividono un unico caricatore rappresentato dalla riserva di mana. Grazie alla fantastica simulazione della fisica del Source Engine, è possibile lanciare tramite la telecinesi barili e casse di legno contro i nemici, congelare il terreno sotto i loro piedi per farli precipitare in un burrone o ancora distruggere assi di legno per farli schiacciare da dei massi. Tutte queste possibilità sono disponibili anche se si sceglie di giocare come un guerriero puro: si possono menare fendenti e mozzare arti, calciare i nemici per impalarli sugli spuntoni, arrostirli in un vivace falò o spaccar loro la testa con precisi lanci di barili e vasi.
Tutta questa varietà sarebbe stata fatica sprecata senza l’ottimo level design di Arkane Studios: livelli pieni zeppi di elementi interattivi e sviluppati con una verticalità tale da permettere di combattere su più livelli di altezza, facilmente raggiungibili tramite scale e appigli, oppure con l’ausilio di corde legate alle frecce dell’arco. Tagliare le corde di un ponte per far precipitare un gruppo di nemici mentre saltiamo da una fune all’altra neanche fossimo Tarzan è un’esperienza che difficilmente ripeterete in un videogioco. Un tale sistema di combattimento così meraviglioso merita di essere mostrato in tutta la sua bellezza (e violenza):
Nonostante il successo riscontrato, non sono stati sviluppati seguiti di questo capolavoro, complice anche l’allontanamento di Arkane Studios da Ubisoft. Storia differente invece per quanto riguarda il Source Engine, il quale verrà usato per dar vita a un altro FPS a base di combattimenti ravvicinati. Nel 2009 arriva infatti Zeno Clash, titolo indie dello sviluppatore Ace Team.
In Zeno Clash il combattimento ravvicinato è affidato completamente ai pugni del protagonista: possiamo imparare una discreta quantità di combo, combinando tra loro colpi eseguiti mentre si schiva, mentre si scatta verso l’avversario o addirittura attacchi in volo. Non mancano neanche contrattacchi e prese degne dei migliori wrestler della WWE, i cui effetti sono visibili sia nell’aspetto dei nemici che nelle loro movenze. Da notare che i nemici possono eseguire le nostre stesse mosse, cosa che li rende decisamente più pericolosi in gruppo e ci costringe a non abbassare mai la guardia. Durante il gioco si possono raccogliere anche varie armi, come ad esempio delle strambe pistole a forma di pesce o delle bombe che assomigliano a teschi; d’altronde l’universo e i personaggi che lo popolano, protagonista compreso, vantano una direzione artistica decisamente particolare in grado di suscitare interesse nella non troppo scontata storia.

Nonostante i combattimenti impegnativi e i boss che richiedono un approccio un pò più elaborato del “riempili di combo e prese finché non cadono a terra”, la durata del gioco si attesta sulla media delle cinque ore scarse. A mitigare questo difetto ci pensa una modalità slegata dalla storia principale in cui si scalano cinque piani di una torre sconfiggendo nemici sempre più numerosi e agguerriti. Per chi non ne avesse ancora abbastanza o volesse approfondire la storia e i personaggi di questo strambo universo, nel 2013 è stato pubblicato un seguito che prosegue la storia direttamente dalla conclusione del primo capitolo. Sviluppato con l’Unreal Engine III, Zeno Clash 2 si limita a migliorare la fluidità e la precisione del sistema di combattimento, permettendo di trarre maggior soddisfazione dallo spaccare il muso dei nemici con un pugno ben assestato.
L’ultimo titolo del quale vorrei parlarvi è sempre un’indie, ma uno di quelli che nel 2020 credo conoscano in parecchi: SUPERHOT, FPS sviluppato nel 2016 da SUPERHOT Team. In SUPERHOT siamo catapultati in una realtà virtuale dalla grafica stilizzata in grado di generare ambienti sempre differenti. Che si tratti di un bar, un parcheggio o una lavanderia, ci ritroveremo sempre da soli contro avatar simili al nostro nell’aspetto, ma colorati di rosso anziché di nero. In netta inferiorità numerica, il nostro unico obiettivo sarà quello di ucciderli tutti. La particolarità del gameplay sta nel fatto che il tempo scorre normalmente solo quando ci muoviamo, mentre quando stiamo fermi va avanti molto lentamente. Durante questa fase, la scia lasciata dalle pallottole ci permette di calcolarne la traiettoria in modo da evitarle quando riprendiamo a muoverci, dandoci tutto il tempo necessario per pianificare spostamenti ed attacchi.

L’aspetto di SUPERHOT che preferisco di più è la semplicità con la quale si passa dal combattimento ravvicinato a quello a distanza e viceversa: possiamo sparare un paio di colpi con la pistola, lanciarla in faccia a qualcuno per rubare la sua katana, piantarla nel petto di un nemico e continuare a mani nude. Il seguito MIND CONTROL DELETE non fa altro che aggiungere più livelli e modificatori in grado di rendere più interessante sia il combattimento a distanza che quello ravvincinato. Le possibilità legate all’uso di armi bianche e pugni sono semplicemente incredibili: potremo richiamare la katana a noi dopo averla lanciata, aumentare il danno inferto dai nostri pugni o eseguire uno scatto verso i nemici in grado di stordirli e lasciarli così alla mostra mercé.
A questo punto trovo difficile continuare a elencare titoli con un gameplay simile a quelli descritti: videogiochi simili si contano sulle dita di una mano. Semplicemente il combattimento all’arma bianca è un aspetto trascurato quando si parla di visuale in prima persona, almeno per quanto riguarda i tripla A. Ciò che mi chiedo è: possibile che, nonostante non manchino gli esempi da cui prendere ispirazione o più banalmente da copiare, non sia uscito neanche un titolo di alto calibro in grado proporre un sistema di combattimento all’arma bianca altrettanto dignitoso? Non si può neanche dire che combattimenti con spade e pugni mal si sposi con la visuale in prima persona, dato che i titoli di cui ho parlato provano inconfutabilmente i contrario.
L’unica alternativa è la realtà virtuale, in cui non mancano videogiochi in cui sparare e spaccare teste con vari oggetti contundenti. L’unico problema è scegliere quale rene dar via per acquistare un visore VR…
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